SOCIETÀ

Il senso degli umani per le (troppe) riunioni

Se esiste o abbiamo un problema andrebbe presto risolto, certo. Non sempre si può fare da soli, spesso dipende da altri o, comunque, non dipende solo da noi. Ne parliamo, ne scriviamo, chiediamo a qualcun altro di esprimersi o agire per aiutarci ad affrontarlo. Talora gli altri da coinvolgere sono più d’uno, tanti; individui o componenti di gruppi; pubblici o privati. A quel punto convochiamo oppure viene convocata una riunione, sottoponiamo il problema a un ascolto di più individui umani dove ci troviamo oppure nelle più disparate sedi. Ciascuno di noi ha partecipato, partecipa e parteciperà all’evento collettivo “riunione” innumerevoli volte nella propria esistenza per un complesso variegato di motivazioni e convocazioni. Staremo forse perdendo troppo tempo e un po’ di salute?

Ogni ora, ogni giorno, ogni settimana si svolgono e si fissano decine di riunioni cui partecipano centinaia di donne e uomini, in ogni angolo del pianeta. Riunioni, non assemblee, non conferenze, non convegni (anche quelli sono innumerevoli, ma il discorso merita di essere proseguito a parte). Quasi mai hanno una convocazione regolamentata, più o meno periodica, più o meno aperta al pubblico. La loro esigenza sorge solo se e quando si manifesta un problema, viene chiamato chi è parte in causa, hanno un ordine del giorno (in teoria un oggetto specifico e delimitato), eppure vengono spesso promosse in modo inopportuno e incongruo, quasi sempre durano troppo, non di rado si concludono con un “nulla di fatto” e convocando una o più altre riunioni; possono costituire in sostanza quasi soltanto un rito sociale, con contorte dinamiche psicologiche, piuttosto che uno strumento di valutazione collettiva, con esplicite finalità pratiche. Convocare una riunione è divenuto spesso un riflesso condizionato.

Il mondo della politica e del sindacato ne è pieno, lo si sa; ma non è il solo ambito delle riunioni (si pensi alle associazioni culturali e professionali o alle strutture e alle sedi universitarie), perché il riunirsi svolge in realtà altre funzioni, che prescindono dal tema e dall’obiettivo. Se andiamo parecchio indietro nei millenni, la “riunione” è forse stato evolutivamente un modo essenziale del formarsi dei gruppi umani non strettamente familiari, la modalità collettiva di esprimere e comunicare il pensiero simbolico astratto di noi sapiens. Poi le società organizzate hanno trovato innumerevoli strumenti per comunicare e decidere; con la moderna politica civile e le società di massa le riunioni hanno continuato a riprodursi all’ennesima potenza, forse troppo. Un po’ come per la televisione, i social e tante altre attività, lo slogan dovrebbe essere: meno ma meglio.

Decenni fa suggerii e provai a sperimentare una classificazione di modelli e ritmi delle riunioni, distinguendone convenzionalmente alcuni tipi, almeno all’apertura rigidamente caratterizzati, tutti comunque non più lunghi di 90-100 minuti (possibilmente abbastanza più brevi). Lasciamo fuori le attività collettive pubbliche e private regolamentate da norme giuridiche; le regole possono essere sbagliate o discusse, ma quelle intanto restano. Lasciamo fuori le riunioni conviviali, di amici o parenti o conoscenti, per il piacere di stare insieme, magari di fare qualcosa di comune in un certo posto; lo sappiamo, sono altra cosa. Parliamo dell’estesissimo insieme delle “altre” riunioni.

Dovrebbero forse esistere riunioni rivolte principalmente a una comune documentazione. Si potrebbe in qualche caso ovviare a convocarle, ma possono servire. La relazione potrebbe essere lunga, assegnata a un singolo componente (non per forza il convocante o il capo), cui gli interessati delegano alcune ricerche e studi; un testo preferibilmente scritto e consegnato ai partecipanti qualche giorno prima (ovvero riproducibile e riutilizzabile); seguito non da interventi ma invece solo da domande o precisazioni o dissensi puntuali; per poi consentire una replica mirata ed essenziale, oltre alla “correzione” eventuale del testo, e stabilire i punti precisi che diventano infine patrimonio collettivo e azione conseguente del gruppo che si è riunito (anche lo stesso “documento” relazione).

Dovrebbero forse esistere riunioni rivolte principalmente a una decisione collettiva su una specifica questione. Si dovrebbe ben chiarirlo fin dall’inizio. Il merito e le possibili conseguenze andrebbero conosciute prima da tutti i partecipanti e gli interessati, garantendo una minima comune documentazione, cioè i termini del problema, binario o articolato. La relazione andrebbe ridotta al minimo, con un carattere sinteticamente riepilogativo, senza formulazioni soggettive. Gli interventi andrebbero previsti come dichiarazioni di voto non necessariamente verbalizzati e l’unico documento finale non potrà che essere il risultato, insieme a chi deve renderlo operativo. Quasi un referendum aperto, costruito però con un percorso di cui la riunione è l’utile atto finale che responsabilizza tutti, comunque ci si sia espressi.

Dovrebbero forse esistere riunioni rivolte principalmente a una discussione libera, senza compiti fissati e ordine dei lavori o argomenti delimitati, solo una durata massima suggerita. Auspicabile che si trovi un filo che interessa la maggior parte dei presenti, che tutti intervengano anche verbalmente, che la riunione infine produca spunti e seguiti (non vincolanti) per tutti, la sollecitazione a pensare e agire in modo diverso (senza necessariamente convocarne altre). Talvolta, fantasia e creatività hanno bisogno di pensatoi disinteressati, di stimoli casuali, di nuove motivazioni; un gruppo può consolidarsi ragionando insieme senza immediate conseguenze di norme, gerarchie, ordini, comportamenti. Meglio davvero lasciare le menti libere di vagare, ma che allora non ci siano vincoli e oggetti delle altre tipologie di riunioni.

Dovrebbero forse potersi concordare pure riunioni ad hoc: qualche volta quelle di documentazione possono diventare veri e propri seminari di mezza o una giornata; qualche volta quelle di decisione possono essere spezzate separando le dichiarazioni di voto dal voto; qualche volta quelle di discussione libera possono dar vita a un immediato successivo incontro tematico; qualche volta l’obbligo di riunione può dipendere dal bisogno (accettabile, seppur capriccioso) di un dirigente che ne ha il potere e non c’è materia per discuterne; qualche volta ci si può vedere solo per scambiarsi opinioni o aggiornarsi non bilateralmente, con l’idea di consolidare uno spirito di gruppo; qualche volta tipi e regole vanno adattati al problema o ad alcuni dei partecipanti indispensabili. Sempre e comunque vi dovrebbe essere un accordo preventivo sulla pubblicizzazione successiva alla riunione: interna, allargata, esterna; tramite lettera, comunicato, manifesto, dichiarazione, pubblicazione.

Esistono ovviamente riunioni predeterminate nella tipologia come quelle di organismi e/o periodiche, con localizzazione, periodizzazione e composizione in qualche modo ordinariamente fissi. Lasciamo fuori le istituzioni pubbliche e i consigli di amministrazione, giuridicamente regolamentati. Se si riunisce un organismo politico o sindacale, un comitato di redazione, un collegio di docenti, allora i margini di libertà sono ampi, individuale e collettiva. Chi ha il potere di convocare potrebbe forse tener conto del carattere proprio del contingente ordine del giorno, non dando per scontato ma adattando orari e svolgimento. Chi ha il potere non sempre lo esercita con giudizio, con onore e disciplina, c’è una rendita di posizione che gratifica (inutilmente).

Nella seconda metà del Novecento darsi una regolata sulle riunioni era indispensabile ma raro, la classificazione accennata non nasce da riflessioni improvvisate, molte aziende funzionavano con meccanismi analoghi e gerarchie ancor più formalizzate. Vi sono stati decenni di continue riunioni su tutto in ogni contesto collettivo. Vi è una bibliografia sterminata sul funzionamento dei gruppi nel lavoro e nel tempo libero, con la priorità dei tempi o dei modi, con finalità psicologiche o operative, lasciando purtroppo poco spazio al caso. L’organizzazione del tempo sociale da sempre occupa molto tempo per ciascuno di noi e nei gruppi che ci vedono inseriti. In campo privato prevale ovviamente la funzione dirigente dei “capi” e della “produttività”, più o meno aggregante, anche nel concreto svolgimento delle discussioni e delle mansioni. Il fatto è che riunirsi è uno degli atti più frequenti che la maggior parte degli individui abili compie, tanto vale verificare quanto e come lo facciamo, se si potrebbe fare meglio (avendone capacità e libertà), se gli impatti sul contesto ambientale sono sostenibili, se non sarebbe meglio fare piuttosto attività sportiva in compagnia.

Del resto, l’articolo 17 della Costituzione italiana prevede esplicitamente proprio la libertà di riunione: “I cittadini hanno diritto di riunirsi pacificamente e senz'armi. Per le riunioni, anche in luogo aperto al pubblico, non è richiesto preavviso. Delle riunioni in luogo pubblico deve essere dato preavviso alle autorità, che possono vietarle soltanto per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica.” Il fare riunioni pacifiche è considerato da secoli un’abitudine libera e un’attitudine democratica. A questo riguardo, la storia contemporanea ha avuto un punto di svolta pratico con l’avvento del web. La prima mail risale al 1971, ma la prima webmail al 1995 e, da allora, i cambiamenti sono stati continui, un’evoluzione tecnologica che, tuttavia, non ha portato alla fine della reciproca comunicazione sociale in presenza fisica (la riunione, appunto), né alla fine della comunicazione cartacea (i libri si continuano a editare molto in tipografie e, seppur in calo, anche la carta stampata d’informazione sopravvive). I social hanno comunque sconvolto i significati “psicologici” e la pubblicizzazione del riunirsi: gelosia, rabbia, odio ma anche ammirazione, consenso, condivisione hanno trovato altri modi per manifestarsi di continuo.

La libertà di riunione va assolutamente salvaguardata, il pensiero scientifico ed ecologico dovrebbe aiutarci a farne meno e meglio, a valutare l’impatto sostenibile delle riunioni cui ci sottoponiamo. Gli ultimi due anni di restrizioni legate alla pandemia hanno comportato un ulteriore passaggio: si sono enormemente moltiplicate le riunioni “a distanza”, necessarie prima che virtuose. Appena possibile sono ricominciate le convocazioni in presenza. Se vanno mantenuti i vantaggi economici ed ecologici di non spostarsi sempre per lavorare e discutere, tuttavia non tutto può diventare smart, una ragione in più per selezionare le riunioni indispensabili con contatto fisico. Talora serve guardarsi, vedere muoversi il corpo e gli occhi degli altri, condividere uno spazio e qualche ora, partecipare a una dinamica sociale materiale. Le reciproche oratorie hanno una dimensione comunicativa peculiare, la gerarchia degli ascolti e delle argomentazioni è determinata da fattori della psicologia e della politica dei gruppi.

Riunioni in presenza e riunioni a distanza hanno propri codici di funzionamento, alcuni dei quali le differenziano radicalmente, altri più legati al merito e ai partecipanti. Nel corso del tempo diventiamo tutti esperti su come massimizzare i vantaggi e minimizzare i disagi delle nostre personali partecipazioni (lo hanno fatto anche gli studenti durante le lezioni sullo schermo di casa). Una riflessione va aperta fra chi ha il coltello dalla parte del manico, su chi convoca altri e gestisce una parte del tempo e della salute altrui. Se chi va è retribuito c’è almeno un dovere o un interesse materiale, ma sulle libere riunioni questo è il caso di gran lunga meno frequente. Se chi va gode comunque di un’attività intellettuale in compresenza, proverà probabilmente meno fastidio a non capire perché è andato. Tuttavia, perlopiù si può attentamente valorizzare l’occasione e il piacere di vedersi (prevedendo pause, lasciando modo a colloqui informali, organizzando spazi puliti e confortevoli) e garantire comunque un senso al tempo trascorso insieme. Non c’è bisogno di una “riunione” per godere di una o più relazioni.

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