SOCIETÀ

Siamo e saremo sempre meno a risiedere in Italia

Al primo gennaio 2022 risiedevano legalmente in Italia circa 58 milioni 983 mila individui, donne (quasi un milione più della metà) e uomini (quasi un milione meno della metà), dei quali oltre cinque milioni 13.215 con cittadinanza estera, donne (un poco più della metà) e uomini (un poco meno della metà). Età media 46,2 anni (era 45,9), speranza di vita alla nascita stimata in 80,1 anni per gli uomini e in 84,7 anni per le donne. I numeri sia dei residenti cittadini italiani che dei residenti stranieri sono in progressivo costante forte calo da anni e la tendenza dovrebbe confermarsi nel futuro, a causa di almeno tre fenomeni strutturali di natura non solo demografica: la contrazione delle nascite (oltre al numero delle morti aumentato causa pandemia), un’emigrazione e un numero di emigranti residenti all’estero superiore all’immigrazione e al numero di immigrati, l’ostilità alle concessioni di cittadinanza italiana. Si tratta soprattutto di conseguenze di scelte politiche sbagliate (almeno alla prova dei fatti) piuttosto che soltanto di dinamiche oggettive. Dopo oltre due anni di pandemia globale (anche se in Italia l’emergenza sembra finita, non la pandemia), all’inizio del secondo settennato del presidente Mattarella, in dirittura d’arrivo della XVIII° legislatura democratica e dunque non lontani delle elezioni parlamentari (meno di un anno, non oltre marzo 2023), nel corso della inaccettabile orrida mortifera invasione russa dell’Ucraina e di una drammatica guerra (che ridefinirà i confini dell’Europa e la geopolitica mondiale) è bene avere piena consapevolezza che il territorio organizzato dalla Costituzione repubblicana è e sarà abitato da sempre meno concittadini.

La quantità di popolazione di una nazione non è sinonimo di crescita e benessere, più non significa meglio, anche se è pur vero che abbiamo introiettato la percezione che più italiani ci sono meglio è per tutti (gli altri), ci sembra la conferma di progresso economico e sviluppo qualitativo, appare coerente con le erronee convinzioni di una presenza illimitata di risorse e di una moltiplicazione costante della popolazione mondiale. Siamo meno di tedeschi, inglesi e francesi (anche loro in calo, ma Regno Unito e Francia hanno abitanti anche nei territori d’oltremare), ciò nonostante non è che fosse prevista una competizione ufficiale o che venga dato un premio ai primi in classifica. In meno forse avremo un poco meno bisogno di combustibili fossili e di grano (oggi al centro di un mercato più complicato e incerto), forse emetteremo meno gas inquinanti e climalteranti, forse consumeremo meno acqua (sempre più scarsa, quella pulita e potabile e pubblica), forse intaseremo meno autostrade e spiagge (avvicinandosi l’estate). Tuttavia, noi in Italia abbiamo già costruito scuole, università ospedali, servizi, negozi (pieni), bar, alberghi per qualche milione in più di italiani, per più studenti malati clienti di quel che ci saranno in prospettiva nei prossimi anni. Tuttavia, i lavoratori di queste attività continueranno ad aver bisogno di lavoro e stipendio (in una dinamica occupazionale assolutamente non lineare, visto che già da tempo alcuni lavori non hanno offerta e per altri c’è domanda eccessiva). Tuttavia, un numero inferiore di individui non significa parallelamente un numero minore di poveri, di diseguaglianze, di sfruttamenti, di diritti negati, si direbbe spesso anzi che ci sia una proporzione inversa.

A quattordici mesi dal discorso di insediamento del nuovo governo e dalla segnalazione (allora) dell’opportuno seppur vago richiamo alla necessità di “invertire il declino demografico” da parte del presidente del consiglio Mario Draghi, ribadiamo che larga parte delle forze politiche, associazioni culturali e degli organi di informazione si occupano ancora purtroppo poco e male di demografia. Il declino, va ripetuto, non è necessariamente connesso alla diminuzione quantitativa, una seria riflessione demografica non ha a disposizione politiche rapide e semplici, ed è perfino dubbio che possa davvero occuparsene un singolo governo nel suo mandato o, comunque, solo l’insieme delle pubbliche istituzioni.

Si tratta di acquisire una consapevolezza collettiva, di discutere socialmente e valutare anche individualmente, di promuovere innanzitutto articolate strutturali azioni pubbliche in più campi (da parte di differenti ministeri, di regioni ed enti locali), di adottare pure una diffusa rete di colti solidali comportamenti privati.

Il recente rapporto dell’Onu (settembre 2021) Ageing populations: We are living longer lives, but are we healthier? affronta su scala globale e in modo aggiornato uno degli aspetti connessi alla questione: l’indubitabile allungamento medio della vita dei sapiens. In Occidente la speranza di vita cresce ininterrottamente da più di un secolo e mezzo, in molte regioni di Asia e America Latina e in tutta l’Africa il fenomeno è molto più recente, pur se negli ultimi decenni la percentuale di aumento è ovviamente maggiore (si partiva più indietro). Oggi siamo quasi al 10 per cento della popolazione mondiale che supera i 65 anni e quasi al 2 che supera gli 80 (rispettivamente quasi al 20 e oltre il 5 nei paesi più sviluppati). Il punto interrogativo (presente anche nel titolo del rapporto) riguarda se a una vita più duratura si accompagna una salute migliore nelle età più avanzate. Non basta il declino della mortalità se contemporaneamente crescono (o comunque non diminuiscono) le malattie croniche invalidanti, gli stati di menomata disabilità e l’invivibilità ambientale e sociale. Sotto questo punto di vista è faticoso avere statistiche comparabili fra tutti i paesi del mondo e la stessa situazione (abbastanza positiva) dei paesi sviluppati dell’Occidente ha subito negli ultimi due anni il dramma della pandemia e il conseguente peggioramento, sia in termini di mortalità che in termini di condizioni invalidanti. Se e nonostante è probabilmente vero che, comunque, in Italia e nei paesi ricchi si sta vivendo e si vivrà più a lungo, ancor più occorre allora capire e affrontare il fatto che, invece, negli stessi luoghi la popolazione residente (forse mediamente più vecchia e sana) sta decrescendo e decrescerà.

Nel corso della breve presenza dei sapiens sul pianeta vitale sia la natalità che la longevità della nostra specie hanno avuto andamenti non univoci e lineari, la geografia e la storia hanno detto la loro, con grandi differenze per aree e periodi. Certo le tendenze attuali, né eterne né forse irreversibili (ma certamente molto persistenti nel secolo in corso), sono alla diminuzione media delle scelte di far nascere figli e all’aumento medio delle aspettative di durata della vita per chi è già nato. Esiste da parecchio tempo in vari paesi, compresa l’Italia, un diffuso allarme sulla crescente denatalità, ovvero sul decremento del numero medio annuale di nascite. In sostanza, si alza l’età media della popolazione (siamo sempre più vecchi e facciamo sempre meno figli, lo si dice così, mediamente) e il saldo demografico potrebbe essere mantenuto in relativo equilibrio solo dall’arrivo di immigrati (con migrazioni internazionali). Ciò determina differenti scenari quantitativi e qualitativi dell’andamento demografico: la popolazione continuerà a crescere ancora per quasi un trentennio a un ritmo mondiale comunque inferiore rispetto agli ultimi decenni; tanti residenti in un ecosistema pongono e porranno ulteriori problemi di distribuzione iniqua delle risorse e del denaro; la popolazione sta già calando in una parte del mondo, nei paesi più ricchi, dove pure crescono tuttavia le diseguaglianze sociali; sono soprattutto i fenomeni migratori (non solo di profughi) che possono e potranno condizionare i singoli saldi nazionali.

Negli ultimi cinquant’anni è stata talora usata la nozione di vero e proprio inverno demografico per descrivere l’invecchiamento della popolazione, da parte sia di studiosi interdisciplinari che di rappresentanti istituzionali. Si parla quasi di un dimezzamento della popolazione italiana entro la fine del secolo. Gli squilibri demografici influiscono sulle presenti diseguaglianze generazionali, sul futuro sviluppo sostenibile e sulla qualità complessiva della vita. Residenti in Italia il primo gennaio 2021 eravamo 59.641.488 donne e uomini. L’anno prima eravamo 60.433.360. Cali vertiginosi. Occorre considerare che la popolazione residente nel nostro paese flette per il settimo anno consecutivo, nonostante il saldo migratorio con l'estero risulti ancora positivo, ovvero diminuiscono gli ingressi di stranieri in Italia, mentre gli italiani che vanno a vivere all'estero sono superiori a quelli che rientrano. A gennaio 2022 l’Istat ha stimato che, almeno fino al 2040, continueranno ad aumentare le persone sole (fino al 38,8%) e a diminuire le coppie con figli (fino al 23,9%), ovvero tra soli venti anni saranno oltre il 60% gli italiani che risiederanno senza bambini in casa, consegnando a chi ci sarà una popolazione italiana ancor più piccola e diversa rispetto a oggi. Le politiche “familiari” non bastano e non basteranno. Dovremo tornare sopra l’urgente questione della cittadinanza, siamo in piena polemica sull’ipotesi almeno di uno ius scholae.

In questi giorni è ripreso l’annoso discorso sulle cause dell’attuale minore procreazione e sulla promozione di eventuali politiche nazionali procreative, “nataliste”. Il 6 aprile al Senato è stato approvato con consenso quasi unanime un primo pacchetto di misure denominato Family Act, per ora una legge delega (che avrà bisogno di successivi decreti attuativi) rivolta alle politiche familiari, con il principale obiettivo di contrastare proprio il calo delle nascite (nel 2021 l’Italia per la prima volta da decenni è scesa sotto i 400.000 nuovi nati): aumento dell’assegno unico universale (già introdotto), incentivi ai giovani sotto i 35 anni anche di carattere economico, riforma dei congedi parentali (aumenti di durata e indennità per quello dei padri e i facoltativi, sostegni alla genitorialità di lavoratori autonomi e professionisti). L’indirizzo sembra parziale ma corretto, nella consapevolezza che non si può agire solo dall’alto: esempi storici segnalano che obblighi e indirizzi istituzionali possono indurre dinamiche contradditorie, efficacia parziale, rischi discriminatori (quando si previlegia solo la forza-lavoro oppure un determinato gruppo etnico o religioso). Con la dovuta accortezza all’equità e alla giustizia sociale, incentivare la genitorialità, mettere nelle migliori condizioni di vita e lavoro, si può e si deve. Cancellare del tutto e rapidamente il declino appare tuttavia improbabile, meglio evitare enfasi e illusioni.

I Paesi in cui la popolazione sta diminuendo sono già più di venti; nel 2050 saranno oltre trentacinque, i più opulenti, i più ricchi. Presto anche i più grandi Paesi in via di sviluppo, i cui tassi di fecondità sono già in discesa, inizieranno a ridursi rispetto al numero di abitanti. A gennaio abbiamo superato gli 8 miliardi di sapiens sulla Terra, poco prima di fine secolo forse raggiungeremo i 10, percentualmente distribuiti fra i continenti in modo abbastanza diverso rispetto a oggi. Non c’è nessun rischio né di invasione, né di sostituzione, in nessun Paese delle democrazie occidentali almeno. Gli afroamericani e i latinoamericani non sommergeranno l’America Bianca (né gli arabi l’Europa) con i loro vertiginosi tassi di fecondità; di fatto la fecondità dei gruppi etnici tendono a uniformarsi a quella del paese d’immigrazione (e le nostre sono contaminanti, condizionate anche da inquinamenti chimici che alterano gli ormoni, decimano la fertilità e rallentano la capacità riproduttiva). Certo, le migrazioni sono un fenomeno asimmetrico e diacronico, l’immigrazione non è comunque una soluzione definitiva al problema dell’invecchiamento e del declino della popolazione: i migranti non sono tutti giovani, contribuiscono alla fuga dalle campagne verso le città, adottano rapidamente il modello di fecondità del paese che li ha accolti, riequilibrano i cittadini abitanti in singole regioni (in Italia più al Nord che al Sud) o in singole nazioni ma non bloccano il processo globale che in un trentennio dovrebbe portarci al picco di popolazione mondiale e all’inizio del calo. Adattiamoci per tempo con acume solidale, in Italia e ovunque.

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