SOCIETÀ

Il piano "Laghetti" per contrastare la siccità, tra pro e contro

Le immagini dei fiumi in secca circolano da mesi. Il più grande fiume italiano, il Po, registra una delle magre più gravi della sua storia e le piogge continuano a essere troppo poche per migliorare la situazione. In Emilia-Romagna, secondo le rilevazioni dell’Agenzia Regionale per la Protezione Ambientale (ARPA), già il 2021 è stato uno degli anni più siccitosi dal 1961 a oggi: per la precisione il quarto, dopo 1988, 1983 e 2011. Conferma la gravità della situazione anche Francesco Vincenzi, presidente dell’Associazione Nazionale Bonifiche Irrigazioni Miglioramenti Fondiari (ANBI): “Il 2022 si candida a registrare la più grave siccità degli ultimi 50 anni”. A dimostrazione che il 2022 è un anno di siccità eccezionale, ma non isolato, Vincenzi ricorda anche che dal 1961 i casi di siccità grave (almeno 8 mesi) sono stati 15. Come ha sottolineato Telmo Pievani in un editoriale di fine giugno, sappiamo bene quale sia la causa di questa situazione - la crisi climatica - ma in maniera naif continuiamo a stupircene.

L’adagio che rimbalza dai media in queste settimana estive è quello della necessità di intervento. A rischio sono non solo l’irrigazione per la produzione agricola, ma anche la possibilità di mettere in funzione le centrali idroelettriche e quelle termoelettriche lungo i principali corsi d’acqua. Proprio ANBI, assieme a Coldiretti, ha presentato fin dal 2017 un progetto generale di costruzione di nuovi invasi, che sulla carta dovrebbero aiutare a creare delle riserve idriche da utilizzare nei momenti di maggiore necessità. Un progetto che oggi, con la disponibilità dei fondi del PNRR, secondo i promotori potrebbe contribuire a risolvere il problema.

“Il 2022 si candida a registrare la più grave siccità degli ultimi 50 anni” Francesco Vincenzi, presidente ANBI

Che cos’è il “Piano Laghetti”

Secondo Coldiretti, l’Italia rimane un paese piovoso, con 300 miliardi di metri cubi d'acqua che cadono annualmente. Ma negli ultimi decenni è cambiata la distribuzione delle precipitazioni, proprio a causa della crisi climatica. Inoltre, di tutta quest’acqua, solamente l’11% viene trattenuto in bacini e invasi. “Per mitigare gli effetti del cambiamento climatico l’unica strategia possibile consiste nel rimuovere le cause che l’hanno determinato”, sottolinea Vincenzi, “e nell’adattare il territorio a sopportare meglio lo stress idrico indotto”. Ma se questi sono obiettivi di lungo termine, nel frattempo secondo ANBI e Coldiretti bisogna aggiornare le infrastrutture idrologiche nazionali che sono rimaste ferme a mezzo secolo fa, quando tutto era diverso.

“Il piano laghetti punta a realizzare 10 mila invasi medio-piccoli entro il 2030, in zone collinari e di pianura”, spiega Vincenzi. Secondo i calcoli dei promotori, i nuovi bacini dovrebbero aumentare di più del 60% la capacità complessiva dei già esistenti 114 serbatoi sul territorio nazionale. Sono “223 i progetti già cantierabili”, continua Vincenzi, di cui 40 in Emilia-Romagna, 34 in Toscana e 32 in Veneto. Si tratta di invasi di piccole dimensioni, che possono essere realizzati anche “a scala aziendale, singole o in forma associata (consorzi di scopo), e alimentati dal ruscellamento di acque superficiali, da sorgenti, da acque prelevate da corsi d’acqua vicini all’invaso o pompate da pozzi”. Sono strutture a basso impatto, non paragonabili alle grandi dighe per l’idroelettrico, e Vincenzi porta a sostegno del progetto le esperienze di questo tipo già realizzati nella Romagna occidentale, territori che oggi “sono in grado di sopportare meglio la gravissima siccità in corso”.

 

Qualche dubbio

In seguito alla discussione pubblica di questi mesi sulla necessità di stoccare l’acqua per fronteggiare la siccità, il Centro Italiano per la Riqualificazione Fluviale (CIRF), un’associazione fondata da un gruppo di tecnici e professionisti interessati ad alimentare il dibattito sulla gestione sostenibile dei corsi d’acqua, ha espresso alcune perplessità. In un comunicato del 5 luglio scorso, esprimono una serie di perplessità sul progetto di costruzione di nuovi serbatoi artificiali. Si legge esplicitamente che “siamo fortemente contrari alle attuali sistematiche deroghe al deflusso ecologico e riteniamo fallimentare e dannosa ogni strategia incardinata sulla costruzione di nuovi invasi lungo i corsi d’acqua”. 

Il punto fondamentale della critica è che la costruzione di nuovi invasi compromette gli habitat naturali dei territori interessati, con effetti negativi sulla biodiversità. E una minor biodiversità è un fattore di rischio anche per la sopravvivenza della nostra specie sulla Terra.

La preoccupazione per l’impatto sull’ambiente naturale è condivisa anche da Niko Wanders, esperto di idrologia e docente all’Università di Utrecht, nei Paesi Bassi. “Il principale effetto negativo sull’ambiente è che i bacini ostruiscono il flusso naturale, per esempio per la migrazione dei pesci”. Ma hanno anche effetti complessivi sul ciclo dell’acqua: “i bacini artificiali riducono anche il flusso d’acqua complessivo, dal momento che l’acqua che si trova in un serbatoio ha più tempo per evaporare poiché i tempi di viaggio verso il mare sono più lunghi”. Ogni invaso, secondo Wanders, va quindi analizzato come caso a sé, valutando se e come gli effetti negativi “superino o meno gli aspetti positivi”.

 

Diverse visioni di futuro e società

Proprio citando i dati ANBI, CIRF sottolinea come il 54% dei consumi annuali di acqua sia imputabile all’agricoltura, settore fondamentale perché produce il cibo che mangiamo. Ma CIRF si domanda se un consumo così alto di acqua non sia dovuto anche al fatto che le attuali colture scelte per i terreni agricoli italiani non siano sostenibili nello scenario della crisi climatica. O per lo me non lo siano più come in passato: “è prioritario ripensare a quali siano le produzioni agricole meritevoli di essere incentivate e quali invece da disincentivare, in un’ottica di sicurezza alimentare, privilegiando ad esempio le colture meno idroesigenti”.

 

Il principale effetto negativo sull’ambiente è che i bacini ostruiscono il flusso naturale, per esempio per la migrazione dei pesci Niko Wanders, Università di Utrecht

I soci di CIRF non condannano in assoluto la costruzione di nuovi invasi, che reputano soluzioni di corto-medio termine. Sottolineano però come “il luogo migliore dove stoccare l’acqua è la falda, ogni qual volta ce n’è una”. Decenni di interventi sui corsi dei fiumi, con prelievi eccessivi di acqua per le più svariate esigenze, avrebbero però compromesso la naturale vita di molti corsi d’acqua italiani. La proposta, quindi, è di lavorare a più lungo termine salvaguardando habitat. biodiversità e salute dei fiumi.

Anche per Wanders, un aspetto importante sul medio-lungo termine è cercare di ridurre la domanda di acqua. “Per esempio, la gestione sostenibile delle falde acquifere sotterranee, non estraendo eccessivamente e utilizzando l’irrigazione a goccia anziché l’irrigazione a pioggia, potrebbe già fare molto. Chiaramente questo comporta costi elevati, ma a lungo termine ci sarà un ritorno dell’investimento visti i cambiamenti significativi nella siccità che ci si aspetta a causa del cambiamento climatico”.

Le due visioni non sono necessariamente in contrasto: sembrano piuttosto guardare a due orizzonti temporali diversi. Al centro, però, emerge chiaramente come anche nel caso della gestione dell’emergenza idrica sia necessario guardare oltre il problema specifico e interrogarci ancora una volta sul modello di sviluppo che è alla base della nostra società.

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