La corsa europea alla prontezza militare
Un esercitazione militare. Foto: Kevin S. Abale via Wikimedia commons
Nel cuore di un continente attraversato da una guerra che dura ormai da più di tre anni, la politica di difesa europea si trova di fronte a una trasformazione che nessuno, fino a pochi anni fa, avrebbe ritenuto immaginabile. La guerra in Ucraina e il rischio che essa possa coinvolgere ancora più da vicino un Paese membro dell’UE, ha modificato la percezione stessa della sicurezza collettiva, riportando nel lessico politico europeo parole come “prontezza”, “deterrenza” e “capacità di risposta”.
Al tempo stesso, le pressioni esercitate da Washington sugli alleati europei della NATO hanno aggiunto un ulteriore strato di urgenza. L’amministrazione statunitense, pur ribadendo l’impegno alla difesa comune, ha più volte ricordato che il peso finanziario e operativo dell’Alleanza non può più ricadere in modo “sproporzionato” sugli Stati Uniti. La richiesta di aumentare la spesa militare nazionale oltre la soglia del 2% del PIL non è soltanto un obiettivo contabile, ma un segnale politico: l’Europa deve essere in grado di difendersi da sola.
In questo scenario, la linea di confine tra difesa nazionale e sicurezza comune si è fatta più sottile, e la Commissione Europea ha presentato il primo piano organico di difesa comunitaria che unisce industria, politica e visione geopolitica.
Il pacchetto Readiness 2030
Presentato nel marzo 2025, il pacchetto White Paper for European Defence – Readiness 2030 e il piano operativo ReArm Europe segnano il tentativo più ambizioso, finora, di dotare l’Unione di una vera architettura di difesa. Non si parla di esercito europeo – ipotesi ancora lontana e politicamente divisiva – ma di un sistema di pianificazione e coordinamento capace di integrare le capacità esistenti e colmare i vuoti industriali e tecnologici.
La logica che guida il documento è quella della prontezza collettiva: fare in modo che, entro il 2030, l’Europa disponga di un apparato difensivo interoperabile, sostenuto da una base industriale unificata e da una governance condivisa. La Commissione insiste su un concetto chiave: “spendere insieme” significa “essere pronti insieme”.
Il piano ReArm Europe agisce come un acceleratore di investimenti e di riforme, introducendo strumenti legislativi e finanziari che rendano possibile ciò che finora era frenato da vincoli burocratici e sovrapposizioni nazionali.
La tabella di marcia
La Defence Readiness Roadmap 2030, richiesta dal Consiglio europeo, delinea le fasi e le priorità della costruzione di questa nuova difesa continentale. La roadmap non è un documento programmatico, ma un calendario di azioni: definisce obiettivi misurabili, individua le aree critiche della catena di approvvigionamento e istituisce un sistema di monitoraggio costante delle capacità industriali europee.
L’intento politico è chiaro: evitare che le emergenze del passato si ripetano in forma militare. Una difesa pronta, nel linguaggio della Commissione, starebbe a significare l’insieme di un’industria resiliente, una logistica coordinata e una base tecnologica capace di reagire in tempo reale alle crisi.
I progetti faro
Tra le iniziative simbolo del piano spicca lo European Space Shield, uno dei quattro programmi flagship concepiti come pilastri della nuova difesa europea. Accanto all’Eastern Flank Watch per la sorveglianza del confine orientale, all’European Air Shield per la difesa aerea e all’European Drone Defence Initiative per la protezione dallo spettro dei droni, il progetto spaziale rappresenta la scommessa più strategica e visionaria.
Il suo obiettivo è costruire un’infrastruttura europea di allerta e sorveglianza orbitale, in grado di integrare sistemi di osservazione, comunicazione e risposta rapida. Nella visione di Bruxelles, lo spazio diventa parte integrante della sicurezza continentale: un dominio operativo in cui si incrociano difesa, industria e tecnologica made in UE.
Lo “Space Shield” si basa su tre elementi: l’interconnessione dei sensori satellitari europei (pubblici e privati), la creazione di un livello comune di comando e scambio dati, e la protezione delle infrastrutture spaziali critiche da possibili attacchi cibernetici o cinetici. È un approccio che risponde a una duplice esigenza: garantire autonomia strategica rispetto ai partner extraeuropei e assicurare che le capacità militari e civili condividano la stessa architettura di resilienza.
Il confronto con il Golden Dome americano
Il progetto ricorda, almeno per ambizione, il Golden Dome proposto negli Stati Uniti come rete unificata di difesa antimissile e spaziale di nuova generazione. Presentato nel 2025 come evoluzione dei sistemi di difesa nazionali, il Golden Dome punta a costruire una “cupola digitale” capace di integrare satelliti, radar e piattaforme missilistiche in un’unica architettura coordinata.
La differenza è sostanziale. Negli Stati Uniti l’iniziativa si inserisce in una strategia centralizzata, con un comando unico e una catena di gestione già consolidata. In Europa, invece, lo Space Shield è una costruzione a più livelli: ogni Stato conserva la propria sovranità militare, ma partecipa a una rete di interoperabilità che deve ancora prendere forma.
Se il Golden Dome riflette la potenza di un unico attore globale, lo Space Shield incarna la complessità di un sistema politico multilivello. Per Bruxelles, la vera sfida non sarà tanto tecnologica quanto istituzionale: garantire che le 27 capitali si muovano nella stessa direzione, condividendo dati sensibili e priorità strategiche.
C’è però un aspetto che accomuna i due progetti: la consapevolezza che lo spazio è diventato il nuovo dominio della sicurezza globale. Dalla sorveglianza alle telecomunicazioni, dalla navigazione alla difesa antimissile, la frontiera orbitale definisce ormai il grado di autonomia strategica di una potenza. Con lo European Space Shield, l’UE tenta di ritagliarsi un ruolo autonomo, ma cooperativo, nella costellazione di poteri che si contendono la porzione di spazio appena sopra all’atmosfera terrestre.
La dimensione industriale e finanziaria
Sul piano economico, il pacchetto “Readiness 2030” promette di mobilitare fino a 800 miliardi di euro attraverso fondi pubblici, capitali privati e nuovi strumenti europei. Tra questi, spicca il programma SAFE (Security Action for Europe), che fungerà da catalizzatore per la produzione comune e la ricerca tecnologica.
La Commissione intende anche semplificare le regole di mercato, riducendo le duplicazioni nei programmi di approvvigionamento e incentivando le imprese a cooperare su piattaforme comuni.
Particolare attenzione è riservata alla mobilità militare, ovvero alla capacità di spostare rapidamente truppe e materiali lungo i corridoi europei. Ferrovie, porti e infrastrutture civili dovranno essere adattati per consentire un transito militare efficiente.
Governance e traguardi
La roadmap stabilisce un orizzonte temporale da rispettare: entro il 2030, le principali capacità tecnico-militari dovranno essere operative e monitorate secondo criteri comuni. La Commissione si riserva un ruolo di coordinamento e valutazione, con un sistema di reporting periodico sulle capacità produttive, l’interoperabilità dei sistemi e la resilienza delle filiere.
Si tratta, di fatto, della prima architettura di governance militare sovranazionale europea, ancora embrionale ma potenzialmente destinata a evolvere. Ogni Stato membro dovrà inserire la roadmap nelle proprie pianificazioni nazionali, rendendo compatibili i programmi di investimento e gli obiettivi industriali.
È un passaggio delicato, perché tocca il nodo della sovranità e mette in discussione modelli di difesa che, fino a ieri, si fondavano su logiche puramente nazionali. Tuttavia, la guerra in Ucraina ha dimostrato che la sicurezza europea non può essere frammentata: un attacco o una vulnerabilità in un Paese si possono ripercuotere rapidamente su tutti gli altri.
L’equilibrio con la NATO
Il progetto europeo non nasce in opposizione alla NATO, ma come suo ideale complemento strategico. La stessa Commissione ha più volte sottolineato che la difesa europea non deve duplicare le capacità atlantiche, ma rafforzarle. Ciò che cambia è il baricentro politico. Gli Stati Uniti, pur continuando a garantire la deterrenza nucleare e le capacità strategiche avanzate, chiedono a Bruxelles di assumersi maggiori responsabilità. Readiness 2030 tenta un difficile equilibrio: rafforzare la base industriale e la capacità di reazione dell’UE senza incrinare il legame transatlantico.
Una sfida di coordinamento
Al di là del linguaggio tecnico e delle dichiarazioni d’intenti, Readiness 2030 resta prima di tutto un esercizio di coordinamento politico e industriale. La sua attuazione richiederà un lavoro di armonizzazione tra programmi nazionali, bilanci e priorità strategiche che oggi procedono su binari differenti.
La difficoltà maggiore non riguarda la tecnologia, ma la governance: come conciliare 27 sistemi decisionali con un’unica tabella di marcia. Bruxelles potrà indicare linee comuni e monitorare i progressi, ma la realizzazione concreta dipenderà dalla volontà dei singoli Stati membri e dalla capacità di tradurre le raccomandazioni in atti operativi.