SCIENZA E RICERCA
Specie aliene nella laguna di Venezia: non solo il granchio blu
La laguna di Venezia da una ripresa aerea
Nella Laguna di Venezia, ogni mattina (o forse sarebbe meglio dire ogni notte?) un pescatore si alza e sa che dovrà combattere contro delle specie aliene. No, nessun essere proveniente da altre galassie: stiamo parlando di specie animali non indigene, di cui il granchio blu in Adriatico è un famoso esempio, che vengono definite “invasive” e rappresentano un importante fattore di rischio per la biodiversità marina, così come per la pesca, arrecando ingenti danni agli ecosistemi.
Le specie invasive sono spesso facilitate dal cambiamento climatico che ne favorisce gli spostamenti geografici e che, assieme agli altri impatti umani, perturba gli ecosistemi costieri diminuendone la capacità di resistere alle invasioni biologiche. La Laguna di Venezia è un ambiente in forte cambiamento, soggetto ad un intenso traffico navale e numerose altre attività umane: è quindi particolarmente colpita dalle specie invasive. Nell’ambiente marino, in particolare, la gestione delle specie aliene invasive è particolarmente impegnativa a causa della difficoltà di individuarle, controllarle ed eliminarle.
Uno studio del dipartimento di Biologia dell’Università di Padova, in collaborazione con l’Istituto nazionale di Oceanografia e Geofisica sperimentale di Trieste, dal titolo Assessing the impact of the invasive ctenophore Mnemiopsis leidyi on artisanal fisheries in the Venice Lagoon: an interdisciplinary approach e pubblicato sulla rivista internazionale Hydrobiologia, ha documentato la recente massiccia invasione nella Laguna di Venezia da parte di Mnemiopsis leidyi, una specie nota come noce di mare. Lo studio chiarisce come l’esplosione di abbondanza della noce di mare a partire dal 2014 sia connessa all’aumento della temperatura delle acque ed evidenzia l’enorme impatto negativo di questa specie sulla piccola pesca tradizionale lagunare svolta coi cogolli.
La specie Mnemiopsis leidyi
Il ctenoforo lobato Mnemiopsis leidyi, comunemente chiamato noce di mare, si trova nell’elenco stilato dall’Unione Mondiale per la Conservazione della Natura (IUCN) delle 100 specie più invasive al mondo. Questa specie è originaria della costa atlantica dell’America e dall’inizio degli anni Ottanta ha iniziato a invadere i mari europei a causa dell’acqua di zavorra delle navi cisterna. È stata avvistata nel Mare Adriatico per la prima volta nel 2005, nelle acque slovene del Golfo di Trieste; successivamente non è stata più vista per un decennio, cioè fino al 2016, quando se ne è registrata la presenza e da allora prospera massicciamente ogni estate nel Mare Adriatico settentrionale (ma è stata individuata anche nel mare Adriatico meridionale).
I fattori che determinano l’abbondanza di questa specie sono quattro: temperatura dell’acqua, salinità, disponibilità di cibo e pressione predatoria. L’elevata fecondità che caratterizza la noce di mare rappresenta uno dei fattori più importanti del suo successo ecologico: nel Mediterraneo la fecondità più elevata è stata registrata nelle aree costiere del Mare Adriatico settentrionale, specialmente in ecosistemi eutrofici come le lagune, ambienti biologicamente molto produttivi.
Nonostante la noce di mare sia gelatinosa, quindi praticamente invisibile, e lunga tipicamente pochi centimetri, essa intasa completamente le reti dei pescatori ed è una vorace predatrice di plancton e di larve di specie pregiate per la pesca.
L’area di studio: perché la Laguna di Venezia
Il Mare Adriatico settentrionale è un bacino semichiuso, che negli ultimi decenni ha subito profondi cambiamenti ecologici a causa delle molteplici pressioni antropiche e dei cambiamenti climatici. È uno dei bacini socio-economici più importanti del Mediterraneo, ma anche uno di quelli maggiormente colpiti dall’impatto umano a causa delle attività che si svolgono in mare (pesca), sulle coste (turismo) o nelle sue acque (grandi insediamenti umani, produzione industriale, zootecnica e agricola e relative emissioni di inquinanti).
La Laguna di Venezia è la più grande laguna costiera del Mediterraneo (550 km2). Questo ecosistema sperimenta forti variazioni nei parametri ambientali quali temperatura, salinità, torbidità e ossigeno disciolto a causa dell’effetto combinato delle maree e dell’afflusso di acqua dolce di alcuni fiumi locali. Essendo un ecosistema altamente produttivo, questa laguna è un luogo ideale per la diffusione di questo ctenoforo ma anche di altre specie esotiche invasive e specie non indigene arrivate principalmente attraverso le acque di zavorra.
Siti di campionamento nella Laguna di Venezia. I punti gialli indicano i siti di campionamento dei cogolli appartenenti ai pescatori lagunari. Il punto rosso indica la Stazione Idrobiologica “Umberto d’Ancona” dell’Università di Padova, situata a Chioggia, dove è stata misurata la temperatura dell’acqua
La Laguna di Venezia è un’area importante per la piccola pesca, soprattutto perché mantiene tradizioni – altrove scomparse – che rappresentano un antico patrimonio culturale, come la rete da pesca nota come “cogollo” (utilizzata per la pesca in laguna e nelle acque basse costiere): la diffusione di Mnemiopsis leidyi potrebbe avere un impatto negativo molto significativo su queste attività.
La ricerca in collaborazione con i pescatori lagunari
“Questo progetto nasce dalla collaborazione fra i ricercatori della sede di Chioggia dell’Università di Padova e i pescatori lagunari. Sono stati loro i primi a vedere l’intruso in Laguna e a subirne le conseguenze. Lo studio è il primo esempio di quantificazione dell’impatto che una specie invasiva ha avuto e sta purtroppo tutt’ora avendo sulla piccola pesca lagunare. Non c’è solo il granchio blu e il rischio di queste invasioni biologiche è quello della perdita totale di una tradizione di pesca lagunare quasi millenaria che utilizza attrezzi estremamente sostenibili” dice Filippo Piccardi, dottorando nel programma europeo PON ricerca e innovazione all’Università di Padova, primo autore dello studio.
Grazie all’approccio interdisciplinare utilizzato in questo lavoro i ricercatori hanno indagato a fondo il problema della noce di mare: la conoscenza ecologica locale dei pescatori ha permesso di datare l’arrivo della specie in Laguna attorno al 2010 e la successiva esplosione demografica dal 2014. Successivamente, la modellazione statistica ha chiarito come tale esplosione demografica coincida con un aumento significativo della temperatura delle acque lagunari. Infine, un’analisi delle serie temporali di sbarcato lagunare e i monitoraggi sul campo in affiancamento ai pescatori hanno permesso di dimostrare la connessione fra l’invasione di questa specie e il calo del pescato lagunare, diminuito di quasi il 40% già negli anni (2014-19) precedenti l’esplosione del granchio blu.
“Specie invasive come noce di mare e granchio blu – ha aggiunto Alberto Barausse dell’Università di Padova, che ha coordinato questo studio – sono una tragedia ambientale e sociale che va affrontata cercando strategie di mitigazione e adattamento sostenibili, che rispettino cioè anche gli ecosistemi locali i quali, come mostra chiaramente la ricerca, con la loro capacità di autoregolarsi nel lungo periodo sono la nostra principale protezione contro le specie invasive”.