SOCIETÀ

Speculare sul cibo con i soldi dei lavoratori? Alcuni fondi europei fanno proprio così

La sicurezza alimentare peggiora drammaticamente per milioni di persone. L’ultimo outlook della FAO e del Programma alimentare mondiale, che include le proiezioni tra questo ottobre e il gennaio 2023, non lascia molto spazio all’immaginazione. Sono almeno 19 i paesi - definiti gli hotspot della fame - in cui la situazione è sempre più deteriore e il numero di chi non riesce ad alimentarsi sempre più consistente. Un numero che integra quelli già preoccupanti del Global report on food crises 2022 dell’International food policy research institute che parla di una escalation dell’insicurezza alimentare nel mondo, con oltre 45 paesi, soprattutto in Africa e Asia, che fronteggiano fasi di crisi acuta. I dati dell’anno in corso indicano che sono cresciute a 222 milioni le persone che vivono in una situazione di insicurezza acuta e che almeno 45 milioni di persone, circa tante quante la popolazione dell’intera Spagna o dell’intera Ucraina, avranno così poco da mangiare da essere a rischio di morte per fame. 

Se i conflitti e le guerre e poi i disastri associati alla crisi climatica sono tra i primi fattori ad avere effetto su questa che le organizzazioni internazionali non esitano a definire una vera e propria escalation della fame, con una crescita dei dati che non si vedeva da anni, non c’è dubbio che un ruolo molto importante lo giochi anche il prezzo dei beni alimentari, che rientra nelle cosiddette commodities, e sul quale influiscono senza dubbio la guerra in Ucraina ma, anche e soprattutto, manovre finanziarie che con la produzione vera e propria di cibo hanno poco a che vedere. Se il meccanismo degli hunger profiteers, degli speculatori sulla fame, è già ben noto ed è stato anche descritto, come vedremo, da una inchiesta giornalistica di Lighthouse Reports, un progetto giornalistico europeo nonprofit, nel corso della scorsa primavera, adesso emergono nuovi dati che dimostrano che queste speculazioni sono fatte, a seconda dei paesi, anche con i soldi dei lavoratori. Cioè, con gli investimenti dei fondi pensione. In questa nuova inchiesta giornalistica, Il Bo Live ha preso parte alla collaborazione coordinata da Lighthouse Reports assieme ad altre testate europee, indicate in calce a questo articolo.

Facciamo un passo indietro

A maggio di quest’anno, Lighthouse Reports usciva con l’inchiesta The hunger profiteers, pubblicata su diverse testate europee, da Der Spiegel a The Wire, da OpenDemocracy a The Continent, che dimostrava con dati e grafici che l’aumento tumultuoso dei prezzi alimentari in seguito all’invasione russa dell’Ucraina non è dovuto tanto o solo alla guerra in sé ma a specifiche manovre speculative messe in atto da investitori “che sfruttano le lacune nella legislazione europea e statunitense”. E questo in assenza di una crisi produttiva, perché in realtà la produzione mondiale di cibo non è affatto in flessione e le riserve globali di cereali sono superiori a quanto serve a soddisfare la domanda e dunque a garantire una sicurezza alimentare. Nella sua newsletter, Thin Ink, la giornalista di Lighthouse Reports Thin Lei Win dà conto di questo dato intervistando il chair del comitato delle Nazioni Unite sulla sicurezza alimentare, lo spagnolo Gabriel Ferrero. Ferrero richiama sì il numero di persone globalmente affamate, circa 828 milioni principalmente residenti in Africa e Asia, e quello delle persone moderatamente o seriamente a rischio di insicurezza alimentare, 2,3 miliardi di persone. Ma questi numeri sono ancora più gravi se confrontati con la realtà della produzione e disponibilità di cibo. “Oggi il mondo produce il 150% in più di cibo utilizzando solo il 13% in più rispetto al 1960” elenca Ferrero “Oggi produciamo abbastanza cibo per nutrire 1 volta e mezzo la popolazione mondiale. Ce n’è già a sufficienza per nutrire 10 miliardi di persone, e siamo per ora solo poco più di 7 miliardi. Ce n’è a sufficienza per tutti. Il problema sta nel nostro sistema alimentare - il modo in cui produciamo, raccogliamo, trasportiamo, processiamo, vendiamo e consumiamo cibo.”

In sostanza, nonostante guerre e crisi climatica remino contro la produzione alimentare, in realtà il problema non è nella produzione. Dove sta dunque? Nel fatto che i contratti alimentari stipulati nelle borse dei cereali sono in parte di natura speculativa, e questa è una tendenza in crescita. Il mercato alimentare ha dei rischi specifici, e dunque si usano meccanismi come quello della vendita della fornitura futura per anticipare all’agricoltore la liquidità necessaria a coprire i costi di produzione. Ovviamente in un certo senso si scommette sulla quantità di prodotto, che non è detto poi si realizzi, per motivi di instabilità politica, per un disastro ambientale, per una guerra. Gli investitori studiano in modo molto accurato il mercato e anche i cosiddetti determinanti ambientali e climatici e si impegnano a scambiare determinate quote di prodotto con i cosiddetti contratti future, a un prezzo fissato prima. Questo di per sé era un meccanismo potenzialmente positivo, prima che la finanziarizzazione spinta dalla globalizzazione avviate a fine anni ‘90 prendesse il sopravvento. Ed è proprio qui infatti che può innescarsi il meccanismo della speculazione: gli investitori interessati possono, attraverso i vari modelli meteo e di mercato, puntare su un prezzo più elevato per lo scambio al momento del raccolto. E se il prezzo effettivamente sale, chi ha investito intasca la differenza. Il problema non è la speculazione di per sé, sostengono diversi esperti: esiste un livello sano di speculazione che permette ai produttori di cereali, ad esempio, di proteggersi dai rischi e avere entrate più prevedibili. Il meccanismo diventa invece manipolatorio, incidendo in modo artificiale sul prezzo, quando la speculazione diventa eccessiva e la crescita del prezzo dei future va ben oltre la legge della domanda e dell’offerta. I contratti future infatti finiscono con il diventare un riferimento per il prezzo degli alimenti e dunque, alla fin fine, finiscono con l’influire proprio sui prezzi del cibo, al di là appunto della domanda e offerta reali.

Il ruolo della guerra in Ucraina

A seguito dell’invasione russa in Ucraina, mostrano le evidenze raccolte da Lighthouse Reports, “le banche internazionali hanno iniziato a definire opportunità per gli investitori di scommettere sull’aumento dei prezzi del cibo.” Il 7 marzo, quanto il grano batteva il prezzo più alto di sempre nelle borse di Parigi e Chicago, “il team di gestione dei portafogli di JP Morgan pubblicava un articolo incoraggiando i propri clienti a investire in fondi agricoli”. Il risultato non si è fatto attendere: in quella settimana i fondi ETF, ossia i cosiddetti “exchange traded funds” che sono legati proprio alle commodities hanno raccolto 4,5 miliardi di dollari di investimenti. In aprile, continua l’inchiesta, i due fondi principali ETF hanno raccolto 1,2 miliardi di dollari di investimenti, una cifra esorbitante a confronto con i 197 milioni di dollari di tutto il 2021. Al di là di questi numeri, però, la realtà nuda e cruda è che secondo diverse pubblicazioni internazionali questa impennata dei prezzi delle commodities alimentari implica un aumento immediato del numero di persone che non hanno più accesso al cibo. La Banca Mondiale, ad esempio, stima che per ogni punto percentuale di aumento del costo del cibo, dieci milioni di persone finiscono in povertà. Soprattutto nei paesi che dipendono dalle importazioni per soddisfare la domanda alimentare. Anche gli aiuti diventano più costosi: l’aumento del costo del cibo diventa un problema anche per il Programma alimentare mondiale, ad esempio, che vede lievitare il costo delle proprie operazioni di intervento a supporto della sicurezza alimentare. Il numero di chi finisce in povertà ed è a rischio di insicurezza alimentare grazie all’aumento dei prezzi è stimato essere di oltre 70 milioni di persone. La cifra viene dettagliata in un report dell’UNDP, pubblicato lo scorso luglio e intitolato “Addressing the cost-of-living crisis in developing countries: Poverty and vulnerability projections and policy responses”, in cui si dice esplicitamente che “l’aumento acuto dei prezzi dell’emergia e del cibo potrebbe spingere 71 milioni di persone in povertà, con chiari hotspot nel bacino del Mar Caspio, nei Balcani, in Africa sub sahraiana.”

Da dove vengono i soldi investiti sul cibo?

Appurato che il meccanismo di speculazione sul cibo ha questi effetti perversi, il passo successivo è capire da dove vengono le risorse utilizzate per stipulare i contratti finanziari sulle commodities. Partendo dalle evidenze raccolte nella prima inchiesta, Lighthouse Reports ha deciso dunque di andare più a fondo e avviare una seconda inchiesta, sempre con il coinvolgimento di diverse testate europee, incluso Il Bo Live. 

L’attenzione in questo caso è stata posta sul ruolo giocato dagli investimenti dei fondi pensioni, in particolare su quelli più grandi e strutturati attivi nel Nord Europa, come vedremo in dettaglio. I dati sono piuttosto chiari: secondo Coalition Greenwich, società di esperti del settore finanziario, le divisioni dedicate alle commodities delle 12 principali banche di investimento hanno guadagnato 10,9 miliardi di dollari nei primi 6 mesi del 2022 in confronto ai 6,5 miliardi dell’intero 2019 o ai 12,5 dell’intero 2020. Complessivamente, secondo dati raccolti da Lighthouse Reports, gli investimenti fatti nel settore commodities dai principali fondi pensionistici europei, tra Regno Unito, Olanda e Danimarca, ammontano a 37,6 miliardi di dollari.

Per misurare il coinvolgimento dei fondi pensione dei diversi paesi europei nella speculazione sui prezzi del cibo, assieme ai colleghi europei e su indicazione degli esperti finanziari, abbiamo analizzato i report annuali di diversi fondi pensione paese per paese, pubblici sui siti dei fondi stessi. Analizzando dunque i report annuali di 75 fondi pensione, scelti tra i principali in Spagna, Italia, Germania, Olanda, Belgio, Danimarca, Gran Bretagna e Finlandia, abbiamo verificato che esistono alcuni casi (e vedremo poi che questo è il caso anche dell’Italia) in cui le regolamentazioni esplicitamente proibiscono la speculazione in ambito delle commodities alimentari. Al contrario, sono almeno 15 i fondi che investono attualmente proprio in questo settore. Con grossi ritorni e rendimenti. 

Interludio: i fondi pensione italiani 

Per l’Italia, abbiamo analizzato i principali fondi pensionistici complementari: Espero, dedicato al comparto della scuola, e Sirio/Perseo, dedicato alla pubblica amministrazione; il fondo Cometa, per il comparto dei metalmeccanici e il fondo Priamo, per il lavoratori del trasporto pubblico. Abbiamo poi guardato al fondo aperto Poste Vita Spa e alle casse previdenziali ENPAM e Cassa forense. Per tutti questi fondi, abbiamo scaricato e analizzato i report annuali dal 2018. Le domande che avevamo erano relative alla presenza e consistenza di investimenti in commodities, particolarmente in commodities alimentari, e poi all’eventuale incremento di questi investimenti nell’anno corrente rispetto agli anni passati.

Tuttavia la situazione italiana è molto diversa da quella dei paesi del Nord Europa. Il sistema pensionistico complementare italiano, introdotto con la riforma Amato del 1992, ha sostanzialmente una finalità anche sulla carta ben differente da quella dei fondi pensionistici più importanti attivi in Gran Bretagna, Olanda e Danimarca. Nel passaggio chiave dalla previdenza interamente pubblica all’introduzione della previdenza complementare, infatti, l’Italia ha fatto una scelta precisa, ancora molto discussa dalle parti interessate. Non solo si è passati da una modalità di composizione delle pensioni retributiva a una contributiva, ma dagli anni ‘90 si è introdotto il concetto delle pensioni complementari come strumento di investimento che sostanzialmente dovrebbe consentire, al momento del pensionamento, di ottenere una pensione che nel suo insieme non sia troppo ridotta rispetto al proprio livello salariale. In altre parole, la pensione dovrebbe consentire ai lavoratori di continuare a godere di un livello di benessere simile a quello del periodo lavorativo.

Sono nati dunque una serie di fondi negoziali, e cioè fondi che vengono proposti a categorie ben precise di lavoratori come parte della negoziazione durante la firma dei contratti nazionali. La legislazione attuale prevede che l’adesione al fondo sia automatica, sia nelle aziende private che nel settore pubblico, se, entro sei mesi dall’assunzione, il lavoratore non dà indicazione diversa. Ci sono poi dei fondi pensionistici aperti, cui i lavoratori possono aderire su base volontaria e dei piani individuali pensionistici che si traducono principalmente in polizze assicurative.

Nell’introdurre i fondi complementari la legislazione, dal decreto 124/1993 al più recente 252/2005, ha anche dato il via a un regolamento e una riorganizzazione dei fondi pensione. Le leggi prevedono che i fondi pensione complementari dovendo soddisfare finalità di previdenza debbano esplicitamente escludere finalità speculative. Come vedremo qualche spazio potrebbe ancora esserci per investimenti in derivati e futures, ma si tratta in larga parte di investimenti minimali, tesi, dove sono presenti a ridurre i rischi e non a generare grandi ritorni. 

Oggi in Italia ci sono 349 fondi pensione attivi contro gli oltre 700 presenti a fine anni ‘90. E, soprattutto, c’è una autorità garante di controllo, la Covip, che monitora l’andamento, i budget, la correttezza di comportamenti e l’adesione alla legge di tutti i fondi pensione, sia quelli complementari che quelli aperti, e, più di recente, include anche le casse previdenziali professionali. Il rapporto annuale Covip dà anche conto del numero totale di persone aderenti ai fondi nel nostro paese, un numero in crescita naturalmente ma ancora limitato rispetto al totale dei lavoratori: i fondi negoziali contano 3,4 milioni di iscritti; quelli aperti 1,7 milioni di iscritti e i piani individuali altri 3,4 milioni di iscritti. Ci sono poi circa 600mila persone che hanno uno dei vecchi fondi, quelli precedenti la legislazione del ‘93. Nulla vieta che una stessa persona abbia sottoscritto più di un fondo pensione, mentre è evidente che la percentuale di lavoratori iscritti a un fondo pensione è ancora meno del 50%.  

Data questo quadro complessivo, non stupisce dunque che l’analisi dei report annuali mostrino l’assenza di investimenti a rischio e di investimenti in ambito derivati e futures. Quando sono presenti, in minime percentuali, gli investimenti su strumenti derivati sono ammessi solo su titoli di stato, indici azionari e valute, solo per finalità di riduzione del rischio di investimento. 

“In realtà, se è vero che i fondi italiani non possono fare investimenti diretti su derivati,” spiega a Il Bo Live, Massimiliano Marzo, docente di Economia e Finanza all’Università di Bologna, “c’è sempre la possibilità che una minima quota di futures rientri in un investimento fatto attraverso un fondo di investimento, come ad esempio un ETF, che abbia come sottostante un derivato su commodities.” Anzi, sostiene Marzo, un investimento di questo genere sarebbe auspicabile per rendere più robusta la capacità del fondo di avere un piccolo boost di rendimento, per rispondere alla necessità di garantire la redditività necessaria a coprire appunto il pagamento delle pensioni complementari agli iscritti. “Il problema del mercato delle commodities,” spiega ancora Marzo, “non è tanto la speculazione, è piuttosto la manipolazione del mercato. E cioè il fatto che in un mercato mal regolamentato, come quello delle commodities, non vengono applicati i meccanismi di sospensione del titolo per eccessivo rialzo come invece avviene in altri settori. Ed è molto grave non aver previsto questo meccanismo.”

La situazione dei paesi del Nord Europa

Andando a fondo nei conti dei più grossi fondi di investimento britannici, olandesi e danesi, per citare quelli più ricchi, i colleghi di Lighthouse Reports hanno individuato in effetti cifre piuttosto significative. Ad esempio, ABP, il principale fondo olandese e uno dei principali investitori al mondo, ha investito 34 miliardi di euro nel 2021, di cui il 30% circa in commodities alimentari. Nello scorso anno, il loro portfolio di commodities complessive (quindi includendo anche energia e altri beni materiali che tendono comunque a essere correlati negli andamenti con quelli alimentari) ha dato un ritorno pari a 8 miliardi di euro. Il fondo britannico National Employment and Savings Trust, sostenuto dal governo, ha aumentato l’investimento in commodities dai 275 milioni di sterline del dicembre 2019 ai 657 milioni del dicembre 2021. Secondo quanto indicato dal fondo stesso, circa un quarto di questi investimenti è nel settore delle commodities alimentari. Nonostante queste cifre e le evidenze, i fondi non ammettono che questi investimenti possano avere un effetto sui prezzi reali. Portavoce del fondo ABP, sentiti dal collega olandese, sostengono che “commerciare in futures sulle commodities non ha alcun effetto sui prezzi, nemmeno nel mercato alimentare”. In linea con questa dichiarazione, un altro fondo olandese, il BpfBOUW, definisce ‘virtualmente impossibile’ che i mercati dei futures condizionino i prezzi del mercato fisico.

Di tutt’altra opinione gli esperti intervistati dai colleghi europei nei diversi paesi. Molto diretta e senza lasciare margine a fraintendimenti anche la posizione di Jayati Gosh, economista indiana attualmente docente di ecponomia all’Università di Massachusetts Amherst, negli Stati Uniti. Gosh, che abbiamo raggiunto via Zoom, sostiene che l’impatto delle fluttuazioni dei prezzi indotte da questi investimenti è davvero molto significativo. Sia direttamente, sui prezzi, che indirettamente sulla vita dei lavoratori stessi. Che in un certo senso vengono dunque messi in una condizione di difficoltà proprio da quei fondi che dovrebbere invece tutelarli. Se l’investimento viene effettuato per rispondere alle necessità di liquidità, come suggerito da alcuni fondi, sostiene Gosh, allora dovrebbe essere comunque contenuto e mai andare oltre queste stesse necessità. Un dato che collide, evidentemente, con investimenti della misura del 30% come quelli effettuati ad esempio da ABP. Ma il punto chiave è un altro, secondo Gosh, e cioè che “beni che non dovrebbero in alcun modo essere soggetti a speculazione sono, al contrario, proprio soggetti a speculazione”. Un punto chiave, che in un certo senso conferma la bontà di una regolamentazione stringente, come pare essere in questo caso quella italiana (ma una situazione simile l’abbiamo riscontrata sia in Spagna che in Belgio), è che un fondo pensione dovrebbe sì massimizzare il rendimento per i propri iscritti ma in nessun caso dovrebbe, spiega Gosh, “avere un impatto sul loro attuale reddito causando un incremento dell’inflazione”. In merito all’idea che sia sufficiente un regolamento stringente del mercato e la sospensione dei titolo in caso di eccessivo rialzo, Gosh è adamantina: “Non si dovrebbe proprio poter investire in strumenti che possono danneggiare le persone. Dobbiamo chiedere una de-finanziarizzazione delle commodities”. In altre parole, non si può continuare a speculare sul cibo, un diritto fondamentale messo sempre più a rischio per milioni di persone al mondo. 

E l’Europa come si pone?

L’Europa sembra essere determinata a deregolamentare ulteriormente i mercati finanziari, secondo Sirpa Pietikäinen, un europarlamentare finalndese del PPE, il partito popolare europeo, che fa parte del comitato per gli affari economici e monetari. La direttiva MiFID (Market in Financial Instruments Directive) è stata messa a punto dopo la crisi del 2007-2008 per contenere la speculazione eccessiva sulle commodities ma nel corso degli anni diverse istituzioni finanziarie sono riuscite nell’intento di fare una lobby efficace per indebolirla. Gli emendamenti dello scorso anno alla versione aggiornata della direttiva, la MiFID II, hanno ulteriormente allentato le regole. Al momento, la MiFID II sta subendo un processo di revisione. 

“Probabilmente avete sentito questo discorsi sulla deregulation da rappresentanti delle aziende. Ora però il fatto è che siamo in una economia di guerra, e le nostre aziende non possono tollerare il carico amministrativo. Per cui adesso è necessario deregolamentare” ha detto Pietikäinen ai giornalisti del consorzio investigativo. 

Pietikäinen si dichiara in realtà una fan della regolamentazione “perché è la base del vivere civile”. “Senza regole,” aggiunge, “c’è sempre la regola del più forte, e io questo non lo voglio. Secondo Pietikäinen, inoltre, l’attuale impegno del Parlamento Europeo di ridurre i vincoli ambientali su fertilizzanti e pesticidi per prevenire la scarsità di cibo è mal indirizzato. “Non ci sarà una scarsità di cibo in Europa. La questione vera riguarda i prezzi del cibo” e per contrastare gli aumenti dei prezzi sarebbe più utile regolamentare i mercati speculativi, secondo lei. 

 

Questa inchiesta è stata coordinata da Lighthouse Reports in collaborazione con  Il Bo Live (IT), EU Observer, Follow the Money (NL), Apache (Belgium), OpenDemocracy (UK), El Diario (ES), LongPlay (FI).

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