SOCIETÀ

La Bolivia archivia l’era Morales: vince il trumpiano Rodrigo Paz

Un nuovo presidente, una nuova traiettoria geopolitica rivolta non più verso Pechino e Mosca, ma che punta decisamente in direzione Washington, con l’obiettivo e la speranza di porre fine ad anni di sofferenza sociale, di povertà estrema, per risollevare un’economia scivolata in una drammatica recessione. La Bolivia, che ha appena festeggiato i 200 anni d’indipendenza, ha voltato pagina, mettendo bruscamente fine ai vent’anni dell’illusione socialista, prima con Evo Morales, il primo presidente indigeno del paese, poi con il delfino-nemico Luis Arce (al primo turno delle presidenziali il candidato del Movimiento al Socialismo è crollato al 3% delle preferenze, per dire dell’esasperazione degli elettori). Il nuovo presidente della nazione sudamericana è Rodrigo Paz Pereira, 58 anni, economista, ex senatore, leader del Partito Cristiano Democratico, un centrista di destra moderato, che ha sconfitto al ballottaggio di domenica scorsa l’altro candidato nazionalista e di estrema destra Jorge “Tuto” Quiroga Ramírez, sostenuto dalla coalizione Alianza Libre. Ha due slogan preferiti. Il primo, comune a tutte le destre, è la triade “Dio, Patria e Famiglia”. Il secondo è “Capitalismo per tutti”, proprio a segnare la distanza dalle precedenti amministrazioni socialiste. 

Austerità e riforme dietro l’angolo

Ora per la Bolivia, una delle nazioni politicamente più inquiete dell’America Latina, si apre un nuovo corso. Stando alle promesse disegnate dai due candidati al ballottaggio, per larghi tratti sovrapponibili, è assai probabile una richiesta di aiuto al Fondo Monetario Internazionale, che non sarà gratis, per stabilizzare l’economia (l’inflazione è al 23%, il debito pubblico in aumento, con una carenza cronica di carburante, al punto che lo scorso marzo il governo Arce aveva disposto una riduzione delle lezioni in presenza per gli studenti e il divieto delle pause pranzo per i dipendenti pubblici, proprio per risparmiarne il consumo), una nuova apertura alle esportazioni, una liberalizzazione marcata del commercio, favorendo il settore privato, la fine del tasso di cambio fisso e soprattutto una diminuzione della presenza dello Stato negli asset principali del paese. Promesse abbastanza semplici da fare, vista la drammatica situazione sociale, tra povertà strutturali (soprattutto nelle zone rurali del paese) e disuguaglianze crescenti. Ma realizzarle, come è indispensabile fare, non sarà semplice, perché avrà un costo molto alto in termini di sacrifici, soprattutto per i più fragili. L’analista Daniela Osorio, del German Institute for Global and Area Studies, aveva lanciato l’allarme ancor prima del ballottaggio: «La pazienza dei boliviani si sta esaurendo», aveva detto. «Se il nuovo presidente non prenderà misure per aiutare i più vulnerabili, questo potrebbe portare a una rivolta sociale». Uno degli scogli principali riguarda proprio la fornitura di carburante. Paz ha già annunciato che se da un lato punta a far aumentare entro pochi giorni il flusso di benzina e diesel alle pompe, attraverso accordi di pagamento differito con i fornitori (in realtà avrebbe già in tasca un accordo da 1,5 miliardi di dollari con gli Stati Uniti per accelerare la fornitura necessaria a superare la crisi), dall’altro punta a eliminare gradualmente i sussidi universali per il carburante. Un sostegno mirato andrebbe soltanto ai gruppi vulnerabili, mentre le industrie più grandi, come l’agroalimentare, dovrebbero pagare i prezzi di mercato. Una mossa che comporta più di qualche pericolo: il più importante sindacato della Bolivia, il Central Obrera Boliviana, ha già dichiarato che si opporrà a qualsiasi attacco “alle conquiste sociali ed economiche ottenute finora”. Come dire: il rischio di proteste di massa resta altissimo. Un rischio sostenuto da diversi economisti: il pareggio di bilancio non è compatibile con il mantenimento dei programmi di welfare.

Intanto per Rodrigo Paz, figlio dell’ex presidente Jaime Paz Zamora (che ha ricoperto l’incarico dal 1989 al 1993) è il tempo della festa, dei cortei in strada, dei fuochi d’artificio a suggellare quel cambio di traiettoria che in tanti sperano possa portare la Bolivia fuori dal tunnel della crisi cronica. «Comincia oggi una nuova era per la Bolivia», ha dichiarato il nuovo presidente nel discorso di vittoria. «Lavoreremo con tutti, uomini e donne, del Parlamento e delle organizzazioni sociali. Dobbiamo costruire un’economia per il popolo in cui lo Stato non sarà più l’asse centrale. Più forte è la nostra democrazia, maggiore sarà la serenità per il popolo boliviano». Paz, che presterà giuramento il prossimo 8 novembre, ha conquistato il 54% dei voti, non abbastanza per avere una maggioranza parlamentare. Il suo partito potrà contare su 49 dei 130 seggi della Camera bassa e 16 dei 36 del Senato, appena davanti alla coalizione di Quiroga, che si è assicurata 43 seggi alla Camera bassa e 12 al Senato. Dovrà quindi cercare alleanze, mediazioni, compromessi. Il Partito Cristiano Democratico punta a spezzare l’accentramento statale imposto negli ultimi due decenni dai Socialisti, puntando a redistribuire le entrate fiscali direttamente a regioni e comuni, con l’introduzione di un programma di prestiti agevolati e agevolazioni fiscali per sostenere le piccole e medie imprese.

Trump e la nuova “crisi” con la Colombia

Non meno complicata sarà la partita in politica estera: dando per scontata una ripresa delle relazioni diplomatiche tra Bolivia e Stati Uniti, interrotte bruscamente nel 2008, quando Evo Morales espulse l’allora ambasciatore americano Philip Goldberg, con l’annullamento della collaborazione con la Drugs Enforcement Administration, l’agenzia antidroga statunitense, mentre si moltiplicavano le attività illecite dei “cocaleros” (la Bolivia, con Perù e Colombia è tra i principali produttori di cocaina), da sempre vicini a Evo Morales. Il segretario di Stato americano, Marco Rubio, ha accolto con entusiasmo la notizia dell’elezione di Rodrigo Paz: «Gli Stati Uniti si congratulano con il presidente eletto e anche con il popolo boliviano per questo momento storico per il paese. Dopo due decenni di “cattiva gestione”, il cambio di leadership rappresenta un’opportunità trasformativa per entrambe le nostre nazioni». Anche Trump, stando a quanto riferito dallo stesso Paz, l’ha chiamato per congratularsi. Stati Uniti che, è bene ricordarlo, sotto l’amministrazione Trump hanno intrapreso una dura battaglia non soltanto verbale o diplomatica contro le nazioni politicamente “non allineate” (soprattutto Venezuela e Colombia), prendendo a pretesto proprio la lotta ai trafficanti di droga. Con il presidente americano Trump, che appena poche ore fa, in un post sul suo social Truth, ha accusato il suo omologo colombiano, Gustavo Petro, di essere «un leader del narcotraffico illegale che incoraggia fortemente la produzione massiccia di droga, in grandi e piccole piantagioni in tutta la Colombia»: sospendendo perciò tutti i sussidi provenienti da Washington. Le reazioni del governo colombiano («dichiarazioni irrispettose e di inaudita gravità») sono la riprova che la crisi è aperta e sanarla non sarà semplice. E proprio sul tema droga, come lo affronterà il nuovo presidente? Tenterà davvero di contrastarlo con la forza, rischiando rivolte sociali? Morales, a quel che si sa, vive ancora nascosto nel suo feudo a Cochabamba, nel centro del paese, protetto da un servizio di sicurezza offerto dagli stessi cocaleros. E non si arrenderà facilmente.

Paz inoltre dovrà decidere dove e come posizionare la Bolivia nei prossimi anni: se continuare a far parte come paese partner dei BRICS (il blocco di economie mondiali emergenti, guidato da Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, promotore di un’alternativa politico-economica all’Occidente) o se invece recidere quel cordone e salire sul carro di Donald Trump. Lui al momento predica equidistanza: «Dobbiamo aprire la Bolivia al mondo: dialogheremo con tutti, dall’Unione Europea alla Cina, dai Brics al Mercosur». La Bolivia è una piccola nazione, con 7,5 milioni di elettori e un PIL inferiore a 50 miliardi di dollari. Ma ha un tesoro nascosto e non ancora sfruttato appieno: il litio, il cosiddetto “oro bianco”, componente indispensabile, tra l’altro, nella fabbricazione delle batterie per auto elettriche, per i peacemakers, e per diversi dispositivi biomedici. Le riserve nel suo territorio, quasi tutte nel Salar de Uyuni, la più grande distesa salina al mondo, a 4mila metri di altitudine, sono stimate in 23 milioni di tonnellate, più di Argentina e Cile. Gran parte di quel litio, grazie ad accordi siglati dalle precedenti amministrazioni (il rigido controllo statale sulla produzione e la vendita era previsto per garantire la “sicurezza nazionale”), finivano nelle disponibilità di aziende cinesi e russe. Il nuovo presidente ha già annunciato che quegli accordi saranno abrogati. 

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