Sesto appuntamento del ciclo Aspettando Genova. L’Onda Covid: capire per reagire, percorso di avvicinamento alla diciottesima edizione del Festival della Scienza di Genova che si terrà dal 22 ottobre al primo novembre e che avrà al suo interno una sezione dedicata al tema del nuovo coronavirus.
Nelle precedenti interviste abbiamo approfondito diversi aspetti legati all’infezione da SARS-CoV-2: con Paolo Vineis abbiamo parlato di epidemiologia e della prima pandemia del mondo globalizzato, con Maria Rescigno ci siamo soffermati sulle conoscenze relative all’immunità, con Walter Ricciardi abbiamo ragionato su come si gestisce una pandemia, con Paolo Rossi abbiamo fatto il punto su Covid-19 e bambini e con Giuseppe Ippolito abbiamo focalizzato l’attenzione sui sintomi della malattia e sui progressi delle terapie.
Oggi con il virologo Giorgio Palù, past president della Società europea di virologia e professore emerito dell’università di Padova, ripercorriamo la storia dei coronavirus e le caratteristiche di questa ampia famiglia di patogeni in cui sono inclusi i sette virus di interesse umano, suddivisi tra le quattro tipologie responsabili del raffreddore comune (229E, OC43, NL63 e AKU1) e le tre tipologie più temibili (SARS, MERS e SARS-CoV-2) capaci di provocare una grave sindrome respiratoria. Il professor Palù ci spiega anche perché il salto di specie avviene quasi sempre in due fasi, attraverso il passaggio in un ospite intermedio e quali mutazioni significative si sono finora riscontrate nel nuovo coronavirus.
Il professor Giorgio Palù approfondisce la storia e le caratteristiche dei sette coronavirus di interesse umano
"I coronavirus - introduce Giorgio Palù, past president della Società europea di virologia - sono noti, sia in ambito veterinario che umano, almeno dagli anni ’60. All’epoca i primi virus riscontrati erano quelli che causano il raffreddore comune o sindromi delle vie respiratorie superiori. Oltre 100 specie di coronavirus sono presenti in quasi tutti gli animali, compresi cani, gatti, bovini e suini, e possono causare forme morbose che variano tra manifestazioni polmonari, gastroenteriche ed epatitiche. L’aspetto interessante è che i primi due coronavirus di interesse umano, 229E e OC43, sono stati identificati negli anni ’60 e ne conosciamo l’evoluzione: sono un’Alphacoronavirus e un Betacoronavirus e arrivano uno dal pipistrello e l’altro dal topolino. Poi ne abbiamo conosciuti degli altri: nel 2005-2006 a Rotterdam è stato identificato NL63, un altro virus del raffreddore, e ad Hong Kong HKU1.
L’uomo è colpito da due generi, Alpha e Beta, mentre in natura esistono anche Gamma e Delta. Dagli anni ’80 sappiamo che questi virus inducono una risposta immunitaria protettiva. Poi nel 2002 abbiamo conosciuto il virus della SARS che è partito dalla provincia cinese di Guangdong: in una cerimonia nuziale ad Hong Kong un medico cinese ha infettato un suo collega canadese che, a sua volta, quando è tornato a Toronto ha contagiato oltre 150 persone tra personale ospedaliero e universitario. Della SARS sappiamo che ha origine nel pipistrello, ha un recettore che si chiama ACE2, normalmente i recettori per gli Alphacoronavirus sono delle dipepditasi, e aveva un ospite intermedio, come anche quelli del raffreddore: per quanto riguarda 229E è stato il lama, per OC43 i bovini. L’ospite intermedio della SARS è stato invece individuato nelle civette delle palme, nel procione e nello zibetto. Nel 2012 appare la MERS, in Arabia Saudita e in questo caso si è scoperto che l’ospite intermedio è il dromedario".
Il professor Palù, docente emerito dell'università di Padova, si sofferma sul ruolo di questo passaggio nel collegamento tra animale e uomo. "La necessità di un ospite intermedio - sottolinea - è motivata dal fatto che i coronavirus sono gli unici virus a RNA, insieme agli oncoretrovirus, capaci di dare origine alla ricombinazione, un fenomeno rarissimo nei virus a RNA. Si tratta di un meccanismo molto comune nel mondo del DNA dove con il template switching la DNA polimerasi passa da un filamento all’altro ed è il motivo per cui la progenie non è mai identica ai genitori. Negli oncoretrovirus il fenomeno avviene perché hanno un genoma diploide, quindi sono due filamenti di RNA e si scambiano in modo naturale l’informazione. La ricombinazione è un evento naturale anche nei coronavirus che sono i virus a RNA più grandi che conosciamo, con un genoma di 30 mila basi, codificano dalle quattro alle cinque proteine strutturali, almeno 16 proteine non strutturali e altre cinque o sei accessorie di cui non conosciamo benissimo la funzione. L’evento della ricombinazione avviene solitamente nell’ospite intermedio ed è probabilmente in questo modo che il virus che proviene dall’ospite naturale ottiene quelle sequenze che servono per fare il salto di specie. Stiamo quindi parlando di virus zoonotici che passano dall’animale all’uomo per un salto che avviene quasi sempre in due fasi, attraverso il passaggio in un ospite intermedio.
Solitamente noi alberghiamo nel nostro organismo virus che si sono originati milioni di anni fa, come la specie Homo, almeno 4 o 5 milioni di anni fa e sono coevoluti con noi. Ecco che abbiamo la barriera di specie: abbiamo degli herpesvirus che sono solo nell’uomo, mentre gli herpesvirus del coniglio, del cavallo, del bovino o del serpente non possono infettarci. Ciò non avviene per alcuni virus zoonotici che possono invece operare il salto di specie".
Nel caso di SARS-CoV-2 inizialmente si era pensato che l'ospite intermedio potesse essere il pangolino ma questa ipotesi è stata in seguito scartata e proseguono le ricerche per comprendere la potenziale suscettibilità di altri animali con l'obiettivo di arrivare chiarire la via di introduzione nella popolazione umana.
Tra le caratteristiche chiave del nuovo coronavirus c'è l'efficacia della porta di accesso nelle cellule umane, il recettore ACE2, l'enzima di conversione dell’angiotensina 2, uno degli ormoni coinvolti nei meccanismi di regolazione della pressione sanguigna. " E' lo stesso di SARS e di NL63 - precisa Giorgio Palù - con la differenza che nel caso di SARS-CoV-2 ha un’affinità venti o trenta volte superiore e ha caratteristiche che lo rendono molto più capace di contagiare l’uomo e questa è una cosa che avviene molto raramente perché è un virus che aveva sin dall’inizio un’alta capacità di legare il recettore delle cellule umane".
Come tutti i coronavirus anche SARS-CoV-2 ha un meccanismo di proofreading molto efficiente che tende a correggere gli “errori” durante la replicazione. Sono virus più conservativi rispetto ad altri e questa è una buona notizia sia sul fronte dell'efficacia di un futuro vaccino, sia in termini di protezione per le persone che hanno già incontrato il patogeno. "Sappiamo - conferma il professore emerito di Virologia dell'università di Padova - che muta meno del virus HIV e dell’influenza. Ricordo che per HIV non siamo ancora riusciti a trovare un vaccino efficace e tutti quelli che sono stati provati hanno dato esiti fallimentari. Nel caso del virus dell’influenza quando viene isolato nell’emisfero australe, dove lì è inverno, poi fa in tempo a mutare prima di arrivare nell’emisfero boreale. Per quanto riguarda SARS-CoV-2 sappiamo che ha un enzima in grado di riparare gli errori che avvengono normalmente nella replicazione dei virus a RNA. Quelli meno evoluti, come HIV e influenza, non hanno questi sistemi che sono invece tipici dei virus a DNA e delle nostre cellule. Questo fa sì che il virus muti dalle cinque alle dieci volte meno rispetto ad HIV e al virus influenzale. Il fatto che il virus si conservi di più è una buona notizia per l’efficacia di un eventuale vaccino e lo è anche nel caso esista un’immunità di gruppo perché vuol dire che può essere protettiva e sterilizzante in quanto se gli anticorpi bloccano il sito che lega il recettore il virus non riesce ad entrare all’interno delle cellule".
Tuttavia, precisa Palù, anche questo virus è già evoluto. "Si è ricombinato nell’uomo e quindi due virus diversi di origine umana che infettano la stessa persona si possono ricombinare. SARS-CoV-2 si sta differenziando in diversi sottotipi o clavi: ne sono già stati classificati sei, vale a dire raggruppamenti di diversi genotipi che hanno un unico progenitore. Quindi dal progenitore di Wuhan, che sembrava anche avesse una patogenicità ridotta, siamo arrivati a sei ceppi e tutti presentano una mutazione nel gene S, la mutazione D614G, un aspartico che viene sostituito con una glicina, vicino al receptor binding site, e che conferisce un vantaggio selettivo al virus, come dimostrato in un lavoro pubblicato su Cell. E’ una gain of function che gli permette di replicare meglio anche con cariche virali più elevate. Noi ci stiamo già confrontando con questo virus, con il mutante D614G. Esistono almeno altre mille mutazioni: molte sono sinonime, ma altre producono un cambiamento significativo a livello di aminoacido con polarità diversa, basicità o acidità diversa e quindi queste mutazioni possono avere un impatto", spiega il docente.
In merito al dibattito che nei mesi scorsi ha riguardato l'ipotesi di indebolimento del virus Palù ha sottolineato che "durante l’estate c’è stata un’evoluzione che, almeno nel nostro emisfero, ha portato ad una riduzione della virulenza" ma ha precisato che "questo è vero in termini clinici. Non possiamo invece affermarlo nè in termini genetici, nè virologici. Abbiamo accertato che la carica virale si era ridotta, e questo è un elemento importante nella trasmissione, ma può essere dovuto semplicemente alla barriera che abbiamo introdotto noi con il lockdown, l’uso delle mascherine, il distanziamento, la disinfezione. Inoltre c’è anche un ruolo della barriera naturale e a tale proposito dobbiamo ricordare che in estate tutti i virus a trasmissione aerea, come quelli influenzali, parainfluenzali e gli stessi coronavirus del raffreddore, hanno una mitigazione. Lo stesso virus pandemico del 2009, la variante suina dell’H1N1, partì a marzo, si mitigò durante i mesi estivi, ebbe una piccola recrudescenza e poi si adattò progressivamente all’uomo tanto è vero che lo abbiamo qui tutti gli anni. Allo stesso modo abbiamo ancora l’H3N2 che fu responsabile della pandemia ad Hong Kong nel 1968".
Abbiamo infine chiesto al professor Palù una valutazione dei rischi collegati al ritorno della stagione autunno-invernale e una riflessione su come è cambiata in questi mesi la capacità di rispondere al virus. "Va detto molto chiaramente che essere positivi non vuol dire necessariamente essere ammalati. Inoltre - puntualizza il professore - quando sono stati condotti studi di sieroprevalenza su strati molto significativi di popolazione per genere, età, occupazione, localizzazione - come hanno fatto in Cina, negli Stati Uniti, in Germania e in Islanda che è un’isola che ha rappresentato un’ottima occasione di studio - quando si è andati a valutare la produzione di anticorpi e indirettamente si è calcolato qual è il vero denominatore, cioè quante persone sono state colpite dal virus, la mortalità risulta variabile tra lo 0,3% e lo 0,6%. SARS-CoV-2 si diffonde molto in maniera asintomatica e i cinesi lo avevano capito dall’inizio: l’80% delle infezioni sono paucisintomatiche o asintomatiche, il rischio per la vita può verificarsi tra il 4% al 6% dei casi e tra il 14% e il 16% l’infezione è seria".
"Sappiamo che, a differenza dell’influenza, SARS-CoV-2 non colpisce le prime vie aeree ma va in profondità, i recettori sono negli alveoli ma sono anche ubiquitari e presenti nel sistema nervoso centrale, nei reni, nel fegato, nell'intestino ma soprattutto nell’endotelio. Abbiamo imparato a conoscere il virus, sappiamo che la battaglia si può perdere quando l’infezione è disseminata e c’è una tempesta citochinica che è evocata da questo virus proprio legando il recettore e che può portare anche ad una coagulazione intravascolare estesa, a problemi tromboembolici ed embolie polmonari che possono determinare una morte rapida".
"In conclusione voglio dire che adesso conosciamo meglio SARS-CoV-2 e che la mortalità non è quella che temevamo all'inizio. E’ un virus più mortale dell’influenza ma non è Ebola, non è SARS, non è MERS e tutti i virus che hanno una letalità relativamente bassa, diversamente da quelli che hanno una letalità più alta, tendono a coesistere. I virus sono parassiti obbligati e non hanno interesse ad estinguersi, quindi ad uccidere l’ospite e ad essere letali. In un lavoro che ho pubblicato tra gennaio e febbraio 2020 ho tracciato i due possibili panorami: o il virus scompare, ma credo che sia inverosimile, o rimane e si adatta un po’ a noi. Ma questo lo scopriremo nei mesi a venire", ha concluso Giorgio Palù.