CULTURA

Strega e Campiello: vincitori diversissimi

Qualche giorno fa Bernardo Zannoni, classe 1995, esordiente, vinceva il Premio Campiello con I miei stupidi intenti (Sellerio), mentre lo scorso luglio Mario Desiati, all’attivo undici libri e in curriculum già diversi premi importanti (tra cui il Volponi e il Mondello), si aggiudicava l’altro importante premio letterario italiano, lo Strega, con Spatriati (Einaudi). Sono due libri diversi – una favola nera il primo, un romanzo di formazione e di indagine interiore il secondo – anzi, così diversi da spingere a chiedersi in che misura siano lo specchio del panorama letterario italiano (se lo sono) e che sensibilità del Paese e del momento rappresentino.

Prima però va detto che i due principali premi italiani hanno meccanismi di selezione ben differenti. I titoli che approdano al premio gestito dalla Fondazione Bellonci sono selezionati da una giuria “dotta” costituita da 400 esponenti del mondo culturale italiano (principalmente letterario), i cosiddetti “Amici della Domenica”, che in prima istanza possono scegliere un titolo a testa fino poi a selezionarne dodici e poi i cinque finalisti (al limite sei, per includere sempre un romanzo edito da un piccolo editore, quest’anno per un ex aequo addirittura sette), quindi a decretare il vincitore.

Al Campiello invece i libri arrivano in autonomia, una giuria di dieci letterati più un presidente ne seleziona cinque e questi vengono poi letti da una giuria popolare nota come “Giuria dei Trecento” che determina quindi l’esito del Premio. Il Campiello, quindi, rispetto allo Strega, dà espressione, almeno teoricamente, alla sensibilità lettore “medio” italiano.

E questa giuria ha premiato il racconto, feroce, della vita di una faina. Archy la faina, rappresenta chiaramente, secondo una tradizione che dire antica è dire poco (da Esiodo a La Fontaine, solo per citare l’ovvio), l’uomo in modo archetipico, e quel che gli accade è principalmente governato dalle leggi di una Natura maligna che Zannoni mette sulla pagina in modo piano, con scrittura liscia e molto godibile. La vita è questo, pare dire l’autore. Nessun particolare pathos quindi quando Archy si azzoppa per fuggire, la sorella viene picchiata dalla madre perdendo un occhio, i fratelli sottoposti alla legge del più forte, quando lui stesso sente l’impellente bisogno di placare la fame e tenta di mangiarsi suo figlio. Certo che chi legge s’inquieta, e non poco. E certo che c’è la volontà del narratore di metterci davanti al paradosso: non a caso il protagonista incontrerà Salomon l’usuraio (ch’è una volpe) che gli insegnerà a leggere e lo avvicinerà al pensiero dell’uomo e di Dio. C’è una ricerca di tipo filosofico ne I miei stupidi intenti, ma di fatto la sensazione è che non ci sia assolutamente niente di trascendente nella vita, e soprattutto nessuna speranza. È un libro pervaso dall’idea della morte (Salomon ne è ossessionato) e dal suo superamento (la scrittura?) anche se non offre salvezza. I protagonisti di questa favola soffrono, hanno fame, sognano, si accoppiano, amano, cercano – alcuni – un senso che sfugge, ma alle fine sono soggetti alla legge della Natura. Implacabile.

Gioele [il cane] si era lanciato dal suo nascondiglio dopo averci seguiti, e gli aveva spezzato il collo con un morso. Con un solo lamento, senza guardare nessuno, Biko morì. Mentre placavo il mio cuore, pensai che non ci fosse morte più dolce”.

Se potessimo quindi pensare che i libri vincitori di importanti premi letterari siano in qualche misura rappresentativi di una certa temperie culturale (o letteraria, o antropologica), dovremmo restare colpiti dalla vittoria de I miei stupidi intenti (molto amato dai lettori, oltre che stimato dalla critica) proprio perché dà una rappresentazione delle possibilità dell’uomo strettamente legata a un concetto di Natura quantomeno di recente osteggiato. Quante volte in tempi di Covid, di dissertazioni no vax e controdeduzioni vacciniste (solo per citare la Storia recentissima) abbiamo sentito dire che l’aggettivo “naturale” non significa nulla? Sebbene Zannoni non usi mai questa parola, il suo libro descrive comportamenti che si manifestano in un mondo pressoché animale: quel che accade ai personaggi è il risultato della lotta tra istinto e “ragione”, tra reazioni ataviche e barlumi di pensiero evoluto che cerca la trascendenza.

Di contro Spatriati ha suscitato scalpore. È la storia di Claudia e Francesco, nati in un paese di provincia ma incapaci di adeguarsi al pensiero “provinciale”. Sono degli irregolari, per come si sentono e per le scelte che fanno, o tergiversano a fare. I loro genitori sono stati amanti, loro stessi si sono più volte inseguiti in un rapporto non convenzionale che li ha portati a più riprese a cercarsi e mancarsi. Spatriati è stato accusato di essere un romanzo “gender fluid” come se l’autore avesse scelto un tema mainstream e strizzato l’occhio alla "diversità" per catturare chissà quale plauso o facile pubblico. Probabilmente Claudia e Francesco traslati nel bosco dove vive la faina Archy non sarebbero sopravvissuti un giorno. E Spatriati fa proprio da contraltare a quel bosco: la Berlino che descrive è invero una giungla ma interiore, e i tormenti di Francesco e di Claudia nascono proprio dall’impossibilità di adeguarsi a uno schema dove le soluzioni sono quelle offerte dalla “legge della Natura”. Anche se Claudia e Francesco mangiano, hanno sempre fame.

A proposito della relazione clandestina tra i genitori dei protagonisti, per esempio, si legge tra le prime pagine: “A Vincenzo ed Etta toccava il legame con la terra, i figli, le cose pratiche, agli adulteri una felicità che a me pareva inspiegabile, ultraterrena. Quella felicità che avrei cercato tutta la vita”, come se, appunto, uscire dalla regola per i personaggi di Desiati a volte fosse l’unica via di salvezza, l’unica forma di sopravvivenza.

Anche la struttura della narrazione di Desiati è più complessa della linearità del racconto di Zannoni (una voce narrante che rende conto di due individualità forti, assolutamente coprotagoniste) ma, indipendentemente dal merito di un romanzo o dell’altro, o da quale possa piacere di più o di meno a chi legge, quello che colpisce nell’esperimento di accostare le due opere vincitrici è proprio apprezzarne l’assoluta diversità. Anche nella reazione di pubblico e critica, per certi versi imprevista. Una diversità ch’è di linguaggio, di forma, di suggestioni, di riferimenti letterari e, in fondo, anche di approccio all’esistenza. Ma questa diversità è proprio la dimostrazione della ricchezza del nostro panorama letterario che sconfessa chi dice che il romanzo italiano è ombelicale, ripetitivo, stantio, in definitiva debole.

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