SOCIETÀ

I tempi delle città (e dei negozi aperti nei festivi)

Riaffiora periodicamente come un fiume carsico la problematica della aperture festive dei centri commerciali, resa in Italia possibile dalla liberalizzazione degli orari decisa dal governo Monti. Il vice premier Di Maio ha annunciato una legge entro fine anno per porre fine a questa pratica o per ridurre drasticamente il numero delle aperture. 

Senza entrare nella polemica politica, vorrei portare qualche elemento di riflessione sul più generale problema della sincronizzazione e desincronizzazione della vita sociale ed economica. Entrambe le due soluzioni hanno punti di forza e di debolezza

La sincronizzazione consiste nell’addensamento spazio-temporale di attività umane quali pratiche religiose, commerciali, sportive, lavorative, ricreative, scolastiche e così via. Ne consegue che una grande quantità di persone fanno le stesse cose negli stessi luoghi, negli stessi orari, usando le stesse infrastrutture logistiche o produttive. Le spinte verso la sincronizzazione sono di tipo rituale (identità, senso di appartenenza, effetto comunità), economico (economie di scala e di prossimità), politico (controllo, visibilità, potere), organizzativo (standardizzazione, specializzazione degli addetti e delle strutture), culturale (valori), climatico (le stagioni), urbanistico (spazi e flussi) e così via

Limitandoci alle attività commerciali e alle strutture urbanistiche, uno degli effetti non voluti della sincronizzazione riguarda un possibile disallineamento tra le esigenze della domanda e quelle dell’offerta cui si aggiunge l’impatto negativo sulle singole identità personali attraverso la creazione di non luoghi e non persone. 

I tempi della città

Sul primo punto il quadro non è certo confortante ed è sotto gli occhi di tutti: città inquinate e intasate dal traffico, consumi in calo e contesi tra i tradizionali negozi del centro città e la grande distribuzione e ora l’e-commerce, servizi pubblici inaccessibili. Ci sono città che da qualche lustro hanno elaborato piani territoriali degli orari per il coordinamento dei tempi di funzionamento della realtà urbana (per esempio Vicenza sulla base di una Legge regionale del 2000). L’idea consiste nel dilatare i tempi di vita della città, distribuendo la concentrazione spazio-temporale delle attività su un intervallo più ampio. L’intento di decongestionare il traffico e di creare una maggiore compatibilità tra orari di lavoro, tempo libero e accessibilità dei servizi commerciali, culturali e ricreativi, bancari, di trasporto e pubblici. In una parola, si tratta di desincronizzare la città

Se i luoghi di divertimento, gli spazi per gli acquisti diventano accessibili anche quando la maggioranza della popolazione non lavora, i commercianti potranno finalmente mettere in atto strategie competitive in grado di sfruttare i loro punti di forza. La competizione basata sul tempo, risorsa sempre più scarsa, può spuntarla sulla competizione di prezzo e rivitalizzare interi settori di servizi. Può anche crearne di nuovi. E quello che è accaduto con l’e-commerce dove il caso Amazon è il più eclatante ma non il solo. Gli imprenditori invece di lamentarsi per questo successo dovrebbero rimettere in moto la fantasia e trovare le forme per valorizzare le loro competenze distintive. Senza bloccarsi sulle sfasature temporali che portano a richiedere provvedimenti rigidi e generalizzati. 

Ci sono sfasature di ben più ampia portata. Si pensi a un’azienda con filiali o semplicemente clienti in Asia e in America che si trova quindi nella situazione di Carlo V nel cui regno non tramontava mai il sole. Trovare le compatibilità dei tempi e degli spazi d’interazione richiede flessibilità. In termini strategici, flessibilità evoca la capacità di ricombinare i fattori produttivi con rapidità ed efficacia per rispondere alla variabilità dei mercati. In termini operativi flessibilità significa capacità di soddisfare le esigenze dei clienti adattando qualità, quantità, tempi

Questo tipo di flessibilità definisce il livello di servizio. Il cliente lo apprezza molto anche se non sempre è disposto a pagarlo e, per quanto paradossale possa apparire, non sempre l’impresa ha la consapevolezza del valore che esso genera e non se lo fa pagare. Questo è un punto decisivo, perché la flessibilità costa. Ha un costo umano e sociale oltre che aziendale. Il costo umano deriva da ritmi biologici e psicologici che soffrono per le alterazioni, quello sociale da esigenze di sincronizzazione e desincronizzazione che la ritualità sociale impone per assolvere alle sue funzioni.  A volte questi costi sono drammatizzati anche quando potrebbero nascondere vere e proprie opportunità. Altre volte sono sottovalutati. 

Flessibilità vo cercando

La domanda di flessibilità nasce da rigidità di processi le cui caratteristiche sono ritenute immutabili. Un esempio: nella progettazione di un impianto un tempo si mettevano in sequenza le varie fasi ognuna con i suoi tempi di realizzazione; per arrivare prima era necessario lavorare sui ritmi. Il simultaneous engineering ha drasticamente ridotto i tempi. Si è rivelato cruciale passare dalla sequenzialità alla simultaneità. Per capire la differenza tra i due concetti, si pensi per la musica o i film alla cassetta e al disco. Con la cassetta per trovare quello che interessa si deve scorrere tutto il nastro. Con il disco si ha accesso diretto ai vari contenuti. Ora la tecnologia del cloud consente una desincronizzazione quasi totale rendendo l’accesso indipendente da tempo e spazio. Si pensi a Spotify, Netflix, Aruba, iCloud, Google Drive o ai portali delle emittenti radio e tv che rendono la sequenzialità oraria dei palinsesti un qualcosa che sopravvive per inerzia. 

La flessibilità necessaria per affrontare senza impatti traumatici l’estensione dei tempi di apertura giornaliera o settimanale delle attività commerciali è facilitata dalla desincronizzazione. Questa si ottiene nell’organizzazione della produzione e dei servizi attraverso la rimodulazione di orari e spazi di lavoro e che ha portato allo sviluppo del part time, dell’orario flessibile e di quello che viene un po’ enfaticamente definito smart work (lavoro prestato al di fuori dell’azienda). Per rapporto di lavoro a tempo parziale o part time si intende ogni rapporto che preveda un numero di ore inferiore a quello standard. Questo tipo di contratto può assumere diverse forme: può essere di tipo orizzontale, con un orario corrispondente a una parte dell’orario giornaliero standard, o verticale. In questa seconda ipotesi il lavoro può riguardare alcuni giorni della settimana, alcuni giorni del mese o anche alcuni periodi dell’anno. 

L’orario flessibile consiste nella possibilità di desincronizzare le entrate e le uscite dal lavoro pur nel rispetto delle ore di presenza contrattuali che possono essere raggiunte nella stessa giornata, nella settimana o nel mese o, in taluni casi, in periodi ancora più lunghi. A volte si parla di una vera e propria banca delle ore dove si depositano o si prelevano ore per rispondere a esigenze di tipo personale o sociale. Per un approfondimento di queste tematiche è d’obbligo rimandare a Cappellari R., Il tempo e il valore. Flessibilità e gestione dell’orario di lavoro, Utet Libreria, Torino, 2002. 

Le forme della flessibilità

I rapporti di lavoro a tempo parziale consentono alle imprese di assumere lavoratori da impiegare nei momenti dell’anno, della settimana o del giorno in cui si manifesta l’esigenza di avere più risorse e quindi rappresentano uno strumento per adattare la capacità produttiva all’andamento della domanda. Il vantaggio del part time per i lavoratori consiste nella possibilità di conciliare il lavoro con altre esigenze individuali, in particolare quelle di cura familiare e di studio, ma anche di svolgere un’altra attività lavorativa. 

Orari e rapporti di lavoro flessibili sono oggi al centro di un’attenzione critica per le ripercussioni sociali negative che possono prodursi. Attorno al nucleo duro delle occupazioni strutturate tradizionalmente, ci sarà sempre una cintura di occupati flessibili.  Ai fini di una valutazione sociale, non è rilevante lo stock di occupati nell’una o nell’altra posizione, ma lo sono i flussi dall’una all’altra. Il dato da monitorare non è la percentuale di occupazione che sta nella cintura della flessibilità, ma la permanenza media in tale posizione e la durata della transizione. Permanenza e durata che sono in drammatico aumento e che pongono una rilevante sfida alla capacità dei sistemi retributivi e previdenziali di assicurare un livello accettabile di efficacia ed equità. Detto in termini più semplici, bisognerà pagare di più la flessibilità piuttosto che tentare di negarne la necessità. 

Desincronizzazione e identità  

La sincronizzazione facilita i processi identitari, la desincronizzazione li rende più problematici. L’identità è una dimensione che l’economia standard ha rimosso creando modelli, spazi e strutture che per funzionare hanno bisogno di negarla. Marc Augé è il creatore del concetto di “nonluogo”, inteso come spazio di concentrazione di persone dove lo scambio sociale e affettivo è praticamente nullo: aeroporto, supermercato, autostrada (Augé M., Nonluoghi. Introduzione a un’antropologia della surmodernità, Elèuthera, Milano, 1993). Recentemente egli ha spostato l’attenzione sulle non persone, individui cui sono negate identità e cittadinanza. Parafrasando le negazioni di Augé si può ricostruire lo scenario teorico ed empirico entro cui siamo immersi. Uno scenario fatto di non persone (l’individuo ridotto dagli economisti a operatore logico) che si aggirano per non luoghi (i mercati che postulano l’irrilevanza della specifica identità delle parti contraenti) e si scambiano non beni (gli indici) o non notizie (fake news) pagando con la non moneta degli alchimisti finanziari (criptovalute e simili) o dei predatori di informazioni sensibili. Non sarà semplice uscirne e tornare all’economia reale, alle persone vere. Forse è ozioso chiedersi se siano i non luoghi a creare le non persone o viceversa. Certo è che esiste il problema di gestire le compatibilità tra persone e luoghi, tra spazio e tempo. E non è una questione di orari di apertura dei negozi.

Dare identità, consistenza e continuità temporale ai luoghi di produzione, consumo e divertimento significa porre le premesse per costruire (o ricostruire) un’identità in cui ciascuno possa riconoscersi e attraverso cui farsi riconoscere, sviluppare un sistema di relazioni, identificare i gruppi sociali di riferimento e i tratti distintivi che li differenziano da altri. Differenziare e integrare sono le due polarità attraverso cui passa la soluzione di problemi apparentemente lontani quali l’organizzazione produttiva e sociale o semplicemente la modularizzazione degli orari. Nella differenziazione il pericolo è di creare un eccesso di frammentazione, costruire barriere mentali che inducono una visione stereotipata dell’altro, un eccesso di fiducia nelle proprie forze e capacità, una sistematica sottovalutazione dei segnali che provengono dall’esterno e una sostanziale incapacità di cambiare, di metabolizzare il diverso. Nell’integrazione il pericolo da evitare riguarda l’appiattimento sullo stesso modello, la negazione delle differenze e della pluralità di esperienze e bisogni. Le economie di scala e di replicazione sono perseguite a scapito delle economie di varietà e di innovazione. I modelli di consumo e produzione convergono a livello globale in una desolante uniformità che genera stagnazione.

Ubiquità nomade 

La contrapposizione tra sincronizzazione e desincronizzazione, tra differenziazione e integrazione sembra essere superata da quella che Jacques Attali chiama l’ubiquità nomade che è la situazione che grazie alle nuove tecnologie consente alle persone di essere sempre connesse senza limitazioni di spazio e di tempo (Attali J., Breve storia del futuro, Fazi editore, Roma, 2007). L’ubiquità per l’impresa come per il lavoratore significa non restare vincolati a una sola specializzazione, essere flessibili, capaci di muoversi rapidamente e ricombinare le proprie competenzeper una nazione significa l’apertura alle culture e alle idee degli altri, la disponibilità ad apprendere da esse e a mettere in discussione il primato delle proprie. Sono concetti destinati a entrare in rotta di collisione con l’emergente sovranismo che sull’identità e sul radicamento territoriale pensa di (ri)costruire il vantaggio competitivo delle nazioni e dei popoli.       

 

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