SOCIETÀ

La svolta a sinistra (e nazionalista) dell'Irlanda

Il ciclone Sinn Féin irrompe sulla scena politica irlandese incrinando le tradizioni centriste dell’isola verde e spingendo sull’acceleratore verso il referendum che potrebbe sancire la riunificazione del paese, di Dublino con Belfast, dopo cent’anni di separazione. Il partito nazionalista di sinistra, ex braccio politico dell’Ira (Irish Republican Army) durante la guerra civile irlandese, ha conquistato il 24,5% dei voti sorpassando i due partiti moderati che per decenni hanno dominato la scena politica del paese: il Fine Gael del premier uscente Leo Varadkar (centrodestra) ha raccolto il 20,9%, mentre il Fianna Fáil  di Michael Martin (liberali) è secondo con il 22,2% (ma con il maggior numero di seggi: 38, contro 37 del Sinn Féin e i 35 di Fine Gael, che ne ha persi 15). Un risultato storico per la leader dei nazionalisti, Mary Lou McDonald, che ha definito l’esito del voto “rivoluzionario”. Anche se difficilmente i nipotini di Gerry Adams (storico presidente del Sinn Féin fino al 2018) riusciranno a salire al governo, comunque non senza il coinvolgimento di uno degli altri due principali partiti. 

Una situazione di “tripolio” che per l’Irlanda è un’assoluta novità e che pone più di un problema per la costituzione del futuro governo: servono accordi, e non sarà semplicissimo trovarne. L’ipotesi che Sinn Féin possa tentare di formare un governo di minoranza sostenuto dalle forze di sinistra (Verdi, Laburisti e Socialdemocratici sono tutti in crescita) appare al momento troppo fragile. Il premier Varadkar ha già scartato qualsiasi possibilità di accordo con Sinn Féin (pesa il passato del movimento, anche se dal ’98, dalla firma degli Accordi del Venerdì Santo, ha preso le distanze da qualsiasi forma di violenza), mentre Michael Martin, dopo aver condotto una campagna elettorale intransigente, si è mostrato possibilista: «Sono un democratico e rispetto il verdetto del popolo». Anche la vice leader di Fianna Fáil, Dara Calleary, ha detto che il suo partito sarebbe «certamente disposto a parlare» con il Sinn Féin. Mary Lou McDonald non chiude la porta: «Le persone adulte si siedono e parlano». Altrimenti c’è la possibilità (più teorica che pratica) di una grande coalizione del centrodestra con i nazionalisti all’opposizione (ma non sarà semplice, con questi risultati, escludere la sinistra). Se la soluzione non salterà fuori, si tornerà a votare.

Perché ha vinto il Sinn Féin

Per comprendere cos’è accaduto lo scorso fine settimana nella Repubblica d’Irlanda bisogna partire dall’analisi della sconfitta di Leo Varadkar, 41 anni, il più giovane taoiseach (primo ministro in gaelico) della storia irlandese, che dal 2017 ha guidato un governo di minoranza. Sperava di rafforzare la posizione del suo Fine Gael portando i successi del suo premierato: l’Irlanda ha un Pil superiore al 5%, meglio di qualsiasi altro stato europeo, mentre il tasso di disoccupazione è fermo al 4,8%. Ma anche i successi economici hanno un prezzo: e questo sta ricadendo sulle fasce più basse della popolazione. Varadkar ha imposto in questi anni un regime di austerity, con tagli alla spesa sociale, all’assistenza sanitaria, alle politiche abitative. L’età pensionabile passerà da 66 a 67 anni nel 2021 e a 68 anni nel 2028, cosa che ha provocato rabbia nell’elettorato più anziano. E gli elettori irlandesi si sono mostrati molto preoccupati dai problemi interni. Secondo l’organizzazione Focus Ireland il numero di famiglie irlandesi senza tetto è aumentato del 280% da dicembre del 2014 a oggi. Dunque un voto di protesta. Nel programma del Sinn Féin (che in gaelico vuol dire “noi stessi”) c’è anche la promessa di riportare il tetto dell’età pensionabile a 65 anni. 

Effetto Brexit

Ma il voto irlandese apre scenari ben più ampi. Perché è indubbio che la Brexit abbia non soltanto influenzato, condizionato l’esito del voto in Irlanda, ma ha anche impresso un’accelerazione al battito indipendentista mai sopito nel Regno Unito. E il progetto del Sinn Féin, premiato dagli elettori, è chiaro: indire al più presto (si diceva entro 5 anni, ma alla luce dei risultati e degli eventi l’attesa potrebbe essere più breve) un referendum per sancire la riunificazione delle due Irlande (la Repubblica d’Irlanda, che fa parte dell’Unione Europea con l’Irlanda del Nord, che appartiene ancora al Regno Unito). Anche alla luce di quanto accaduto alle elezioni in Ulster del dicembre scorso, quando si votò per il Parlamento britannico nelle elezioni volute dal premier Boris Johnson: grande successo dei partiti nazionalisti e Sinn Féin per la prima volta in una coalizione di governo, con gli Unionisti. Scrive Ispi, l’Istituto per gli studi di politica internazionale: «Brexit ha chiaramente accelerato le forze centrifughe delle nazioni del Regno Unito. I piccoli movimenti tellurici di questi risultati elettorali preludono a scosse molto più grandi in futuro, soprattutto se la Brexit non si rivelerà nei fatti e per la vita della gente quel successo che i suoi paladini hanno sempre promesso. Allora davvero anche tra gli Unionisti lealisti dell’Ulster potrebbe insinuarsi il dubbio che sia meglio stare tutti insieme in una Irlanda riunificata». 

Irlanda da un lato, Scozia dall’altro: la premier Nicola Sturgeon, leader dello Scottish National Party e dichiaratamente a favore della secessione, ormai non si nasconde più: «Il nostro obiettivo è tornare nel Parlamento europeo come una nazione indipendente», ha dichiarato pochi giorni fa. «E' risaputo che la maggioranza degli scozzesi ha scelto di rimanere nell'Ue quando è stata fatta loro la domanda durante il referendum del 2016». E per essere ancora più esplicita ha aggiunto: «Stiamo lasciando l’Unione Europea in un momento in cui non abbiamo mai beneficiato così tanto dell’Unione, in cui non c'è mai stato così tanto bisogno di Ue». La prima conseguenza di una Scozia fuori dall'Unione europea, secondo Nicola Sturgeon, sarebbe un netto impoverimento della popolazione, «con un rischio diretto per l'occupazione, la prosperità e gli investimenti e una pericolosa divergenza dall’Unione Europea su questioni vitali come la protezione ambientale, le norme alimentari e i diritti dei lavoratori». Anche in Galles la spinta indipendentista ed Europeista è tornata a farsi sentire. 

Boomerang Brexit: ora Boris Johnson trema

La Gran Bretagna rischia così di implodere. La Brexit potrebbe presto trasformarsi in un micidiale boomerang. Il governo di Boris Johnson tenterà di opporsi come potrà alle spinte indipendentiste (finora ha proposto la costruzione di un mastodontico ponteche unisca la Scozia all’Irlanda del Nord), ma è pur vero che in questo caso non si tratta di movimenti secessionisti al di fuori delle costituzioni (come nel caso catalano). Il referendum è uno strumento lecito e già utilizzato in passato. Per l’Ulster, peraltro, è previsto anche nei trattati di pace firmati a Belfast nel 1998, gli Accordi del Venerdì Santo, che posero fine a trent’anni di guerra civile irlandese, i “troubles”. Dallo scorso 31 gennaio, con la formalizzazione dell’entrata in vigore della Brexit, il confine tra Irlanda e Irlanda del Nord è diventato la nuova frontiera tra il Regno Unito e l’Europa. E l’Europa aspetta: l’affaire Brexit potrebbe riservare nuove sorprese.

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