SCIENZA E RICERCA
La rivoluzione delle piante (anche in formato robot)
“Più di 31.000 differenti specie hanno un uso documentato; fra queste quasi 18.000 sono utilizzate a scopi medicinali, 6.000 per la nostra alimentazione, 11.000 come fibre tessili e materiali da costruzione, 1.300 a fini sociali… 1.600 quali fonte energetica, 4.000 come cibo per animali, 8.000 a scopi ambientali, 2.500 come veleni eccetera. Il conto è presto fatto: circa un decimo delle specie ha un uso immediato per l’umanità”. Fin dalle prime pagine del suo libro Plant revolution (Giunti 2017), in finale al Premio Galileo per la divulgazione scientifica, Stefano Mancuso sottolinea l’importanza che le piante, per molti aspetti, hanno per la vita dell’uomo.
Autonomia energetica, capacità di resistenza, adattabilità sono solo alcune delle soluzioni che le piante hanno trovato a molti dei problemi che affliggono l’umanità. E anche per questo sono, secondo l’autore, un modello di modernità. “Le piante – spiega Mancuso a Il Bo – seguono un modello che è completamente diverso rispetto a quello animale. Gli animali rispondono a un modello centralizzato, costruito su un cervello che governa organi specializzati in particolari funzioni. Le piante invece non hanno organi né singoli né doppi, perché averli sarebbe un punto debole. Basterebbe infatti il danneggiamento minimo di un insetto per uccidere la pianta. Le piante, dunque, si sono evolute seguendo un modello opposto rispetto a quello animale e distribuiscono le loro funzioni sull’intero corpo. Il modello delle piante è un modello distribuito e diffuso”. Secondo l’autore, si tratta di un modello molto più moderno rispetto a quello gerarchico e centralizzato animale. Gli uomini, che sono animali, hanno realizzato società, organizzazioni, strumenti basandosi su questo modello. Ma tutto ciò che oggi è considerato moderno (e Mancuso cita Wikipedia, le criptovalute, i bitcoin) è pensato secondo un modello decentralizzato e distribuito. Questa è la ragione, nell’opinione dell’autore, per cui le piante sono il vero modello della modernità.
I settori che potrebbero trarne ispirazione sono molti, a partire da quello energetico. “Se riuscissimo a imitare la fotosintesi, riuscendo a risolvere tutti i passaggi ancora ignoti, avremmo un sistema di produzione di energia pulita che fissa anidride carbonica”. Che dire poi degli sviluppi in campo medico: una larga parte dei principi medicinali che l’uomo utilizza sono stati per la prima volta identificati, studiati o copiati a partire da molecole vegetali. Lo stesso discorso vale per l’architettura: nel 1956, per citare solo un esempio, Pier Luigi Nervi e Annibale Vitellozzi imitano la struttura delle nervature della foglia di Victoria amazonica per la costruzione del palazzetto dello sport di Roma.
Anche il settore della robotica potrebbe beneficiare dello studio delle piante. “La robotica fin dalla sua nascita è stata sempre fissata sull’imitazione per lo più del mondo umano, nella creazione di androidi o al limite di animaloidi, con tutto ciò che ne consegue in termini di organizzazione e di funzionalità”. Convinto dell’importanza di robot bioispirati, lo scienziato racconta di essersi dedicato con Barbara Mazzolai alla realizzazione di “plantoidi”, macchine con foglie e radici in grado di crescere nel terreno, che potrebbero rivelarsi utili in varie circostanze come la mappatura di campi minati, le ricerche minerarie, le bonifiche speciali e, non da ultima, l’esplorazione spaziale. Un argomento, questo, su cui Mancuso indugia.
“Quando parliamo di esplorazione spaziale, non dobbiamo dimenticare che non siamo una specie indipendente. Noi uomini non possiamo sopravvivere senza le altre specie viventi e principalmente senza piante, facciamo parte di un habitat, di un ecosistema particolare. Non è possibile pensare a nessun tipo di colonizzazione a lungo termine dello spazio che non preveda l’uso di vegetali. Da loro dipende la produzione di ossigeno e di alimenti”. Per questo Mancuso ritiene fondamentale trovare un modo per portare anche le piante sui pianeti che si intendono esplorare. “Allontanarci in maniera improvvisa dal mondo vegetale, all’interno del quale ci siamo evoluti, può provocare anche scompensi di tipo psichico ed è per questo che sia l’Esa che la Nasa si stanno occupando anche di questi aspetti: la presenza di piante riesce a tranquillizzare e a focalizzare l’attenzione degli astronauti e a rendere più piacevoli gli spazi e i soggiorni in spazi ristretti”.
Da lunghissimo tempo il mondo vegetale è oggetto di attenzione. Andando indietro solo di un paio di secoli, lo stesso Charles Darwin, celebre autore dell’Origine della specie e noto soprattutto per le sue teorie sull’evoluzione, si interessò anche a temi di botanica e scrisse diverse opere sulle sue ricerche sulle piante. Erano tematiche con cui il naturalista e biologo aveva una certa familiarità, dato che anche il nonno paterno si interessava a questi argomenti e scrisse due volumi dal titolo The Botanic Garden. Charles Darwin scriveva lettere ricche di osservazioni sulla flora e sulla fauna dei luoghi che visitava a John Stevens Henslow, botanico di cui era stato allievo a Cambridge, ed era intimo amico dell’inglese Dalton Hooker e dello statunitense Asa Gray. A descrivere questi scambi, e il contributo che tali studi dettero alla storia della botanica, è Oliver Sacks nel suo ultimo libro uscito postumo Il fiume della coscienza (Adelphi 2018). “Conoscere la mia unicità – commenta l’autore nel suo lavoro – e la mia antichità biologica, sapere che sono biologicamente imparentato con tutte le altre forme di vita, mi riempie di gioia. Questa conoscenza mi radica, permette che io mi senta a casa nel mondo della natura, che io abbia una percezione del mio significato biologico – quale che sia il mio ruolo nel mondo degli esseri umani e della cultura. E benché la vita animale sia di gran lunga più complessa di quella vegetale, e la vita umana di gran lunga più complessa di quella degli altri animali, io riconduco questa percezione del significato biologico all’epifania di Darwin sul significato dei fiori, e agli indizi che io stesso ne colsi, in un giardino londinese, ormai quasi una vita fa”.
Monica Panetto