SOCIETÀ

Il Mediterraneo al di là dei suoi confini

Cosa rimane oggi del mito del “grande Mare”, il Mediterraneo? A prima vista ben poco: qualche scenario buono per invogliare il turismo di massa, la disperazione e il sogno dei migranti che compiono il loro viaggio della speranza verso Nord; una cultura del cibo – la “cucina mediterranea” – celebrata in tutto il mondo ma in quanto tale forse davvero mai esistita. Soprattutto rimane il senso e l’eredità di un luogo che ha avuto un ruolo fondamentale nella storia dell’umanità, ed è questo il tema de Il grande mare. Storia del Mediterraneo (Mondadori, 2013), il libro dello storico inglese David Abulafia recentemente pubblicato in Italia.

Uno studio che, pur volendo mantenere un taglio divulgativo, si presenta subito come ambizioso: perché copre in 650 pagine un periodo eccezionalmente vasto (dalla preistoria ai giorni nostri), ma anche perché fin dall’inizio lancia una sfida a Fernand Braudel (1902-1985) e al suo ormai classico Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, pubblicato la prima volta nel 1949. Mentre lo storico francese, sulla scia della scuola delle Annales, prediligeva nella ricerca storica lo studio dei fattori ambientali e delle tendenze di lungo periodo, Abulafia intende valorizzare soprattutto la dinamica politica. Dunque i fatti contro le linee di sviluppo, la storia contro la geografia, sulla base dell’assunto che “l’iniziativa umana ha contribuito a plasmare il corso della storia mediterranea molto più di quanto Braudel sia stato disposto ad ammettere”. Un approccio quindi cronologico e analitico, che può costituire allo stesso tempo l’aspetto interessante e il limite del libro.

L’opera divide la storia del Mediterraneo in cinque grandi periodi, in un’alternanza di processi di integrazione e di disgregazione economica, politica e culturale. Come quello che dalla preistoria porta al mare nostrum romano, prototipo e archetipo di tutti i successivi domini e potentati marini. I romani, marinai riluttanti, costretti a tempo di record a costruire la loro flotta durante la prima guerra punica, portano sul mare le tecniche del combattimento terrestre, e dopo la vittoria di Ottaviano Augusto su Antonio per la prima volta riusciranno a garantire la sicurezza dei traffici da Gibilterra alla Palestina, trasformando il “mare tra le terre” in un grande lago romano.

Un mito che riceve un colpo decisivo quando l’invasione araba (preceduta per la verità da quella degli Alani/Vandali) scinde le due sponde – che fino ad allora, pur nella pluralità di culture, avevano vissuto in una sorta di koiné culturale – in due universi contrapposti e per molto tempo non comunicanti, se non attraverso il cozzare delle armi. E l’unità non sarà ricostituita fino all’epoca moderna, prima dagli inglesi e poi dagli americani, grazie al predominio tecnologico e militare.

L’ultima fase della storia del grande Mare si apre con l’apertura del canale di Suez, avvenuta il 17 novembre 1869. Il Mediterraneo si trasforma progressivamente da punto di partenza e di arrivo a luogo di passaggio, lungo la grande arteria che collega l’Atlantico all’Oceano Indiano. L’economia declina, anche perché bacini produttivi che si affacciano sul mare interno sono ormai esposti alla feroce concorrenza mondiale (che si tratti del grano canadese, del tabacco americano o del cotone indiano).

Oggi il Mediterraneo è sempre più avulso dalle vie dei grandi traffici, che dall’Atlantico si stanno progressivamente spostando alle due sponde del Pacifico. Eppure l’importanza strategica di questo mare chiuso, relativamente piccolo, rimane tale da attrarre persino una potenza lontana ed essenzialmente continentale come la Cina, come del resto era già successo con l’Unione Sovietica. Un “lago salato” che continua a fare da cerniera in mezzo a tre continenti, che da soli mettono insieme quasi l’85% della popolazione mondiale. Un mare che unisce e che divide, il “talamo nuziale” (secondo l’espressione di Barthélemy Prosper Enfantin, avventuriero e aspirante messia dell’800) dove continuano a incontrarsi e a scontrarsi Nord e Sud, Oriente e Occidente e le varie anime di Cristianesimo, Islam ed Ebraismo.

In tutto questo sta il problema dell’identità e della particolarità mediterranea, che l’autore intravede nella “vorticosa mutevolezza” del suo ambiente umano e culturale, costituito da “sponde abbastanza vicine da agevolare i contatti, ma abbastanza lontane da consentire lo sviluppo di società con caratteri diversi”. “Il Mediterraneo – scriveva Braudel nelle Memorie del Mediterraneo, pubblicato postumo nel 1998 – non si è mai rinchiuso nella propria storia, ma ne ha sempre rapidamente superato i confini” verso gli oceani, i deserti e gli altri territori che ne lambiscono le sponde. Fattori questi che hanno contribuito a farne, sempre secondo Abulafia, “il più dinamico luogo di interazione tra società diverse sulla faccia del pianeta, giocando nella civiltà umana un ruolo assai più significativo di qualunque altro specchio di mare”.

Daniele Mont D’Arpizio

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