SOCIETÀ

L’Europa e il rischio di sindrome maliana

Il Mali è un paese subsahariano senza sbocco al mare, grande circa quattro volte l’Italia e con un quarto della popolazione. Probabilmente pochi italiani saprebbero indicarlo su una carta geografica, eppure negli ultimi giorni è balzato in cima alle rassegne internazionali, in particolare dopo l’intervento militare francese, conseguente all’espansione di Al Qaeda nell’area. Una presenza che ha le sue radici nella sanguinosissima guerra civile che oppose islamisti e militari in Algeria negli anni ’90 – in Mali si rifugiarono i militanti dei gruppi islamisti armati dopo la sconfitta – e che sta scatenando instabilità e conflitti anche nei paesi vicini.

Cosa sta accadendo veramente? Lo chiediamo a Renzo Guolo, docente di sociologia all’Università di Padova ed esperto del mondo e della cultura islamici: “Sicuramente un aspetto fondamentale della questione è il fallimento e la ‘decomposizione territoriale’ di alcuni paesi africani, incapaci di controllare il territorio e di soddisfare le richieste della popolazione, sia di natura economica che in termini di autonomia territoriale”. Perché proprio il Mali? “Il paese è diviso tra la popolazione nera del sud e quella araba al nord, con in più una forte componente tuareg. Recentemente il malessere dei nomadi, che da tempo chiedono l’indipendenza, ha dato vita ad alcuni gruppi radicali come Ansare Dine (‘seguaci della fede’) e Mujao (Movimento per l'Unicità e la Jihad in Africa Occidentale), che operano nel nord del paese”.

Al Qaeda allora cosa c’entra? “Agli indipendentisti del nord negli ultimi tempi si sono uniti anche i gruppi qaedisti che operano nel Maghreb islamico, in particolare i reduci della guerra algerina degli anni ’90, che hanno aggregato anche persone provenienti da altre nazioni, come tunisini e marocchini. Da tempo Al Qaeda si è insediata nell’area tra Algeria e Mali, desertica e difficile controllare, lucrando con i sequestri dei turisti e i traffici clandestini di migranti e di droga, che passano da quelle parti per arrivare in Europa. La novità è che adesso questi movimenti puntano a costituire dei veri e propri emirati, avendo occupando importanti città del nord come Gao e Timbuctù”.

Il pericolo che il Mali si trasformi in un non-stato, preda e rifugio dei terroristi, è certamente reale, anche perché di fatto i governi africani sono incapaci di garantire l’ordine nell’area. Fin da subito però, anche da parte della stessa opposizione francese, si è parlato anche di ingerenza negli affari interni e di neocolonialismo: “È chiaro che la Francia ha degli interessi economici e strategici rilevanti nell’area – risponde Guolo –; credo comunque che l’intento principale sia quello di evitare l’espansione del qaedismo a paesi vicini, ricchi di risorse naturali come petrolio, gas e uranio. C’è poi l’aspetto irrisolto della relazione della Francia con il suo ex impero, con forti implicazioni di carattere ideologico e culturale: anche dopo la fine della colonizzazione i francesi sentono di avere delle responsabilità morali e politiche in quell’area”. Anche i dettagli, in questi casi, sono spesso significativi: “il Serval, il felino scelto per dare il nome all’operazione militare, è noto in Africa per l’abitudine di marcare ossessivamente il proprio territorio. Un po’ come spesso è accusata di fare la Francia nell’Africa francofona – o Françafrique, come a volte si dice polemicamente”.

La vicenda comunque non è solo maliana: “I gruppi terroristi hanno iniziato da tempo a gridare all’invasione da parte della ‘Francia crociata’, cercando di far passare l’intervento come un’aggressione dell’Occidente nel territorio dell’Islam. Si tratterà di una guerra difficile, condotta contro gruppi sparsi di guerriglieri in territori molto grandi e disabitati”. Il conflitto rischia inoltre di internazionalizzarsi; “Eventuali rappresaglie potranno avvenire a migliaia chilometri di distanza, proprio come è recentemente accaduto in Algeria, con il sequestro di ostaggi occidentali finito nel sangue. Oggi anche i conflitti locali possono essere combattuti in logica globale”.

Cosa devono fare quindi l’Onu, L’Unione Europea e in particolare l’Italia? “Difficile dirlo, dal momento che nei fatti l’intervento è già iniziato. Occorre comunque ricordare che da tempo l’Onu aveva aperto la porta a una forza di pace africana, e che la Francia è intervenuta solo dopo due anni di rinvii. Anche Romano Prodi, inviato speciale dell'Onu per il Sahel, si è espresso a favore dell’operazione”. Così però non si rischia una nuova Afghanistan? “Come sempre il problema sarà il Nation building: se a un gruppo dirigente corrotto se ne sostituirà un altro altrettanto incapace il problema non sarà mai risolto definitivamente. Se invece si coglie l’occasione per ripensare alla struttura politica ed economica di quell’area, allora può essere un’opportunità anche per altri stati vicini, come il Burkina Faso e la Mauritania, che hanno problemi enormi e che non possono essere lasciati a loro stessi”.

Il problema per l’Occidente è anche di cambiare mentalità, smettendo di pensare all’Africa solo quando si parla di guerre e di povertà: “Oggi quello africano è uno scacchiere fondamentale della politica e dell’economia internazionale – conclude Guolo –, su cui si confrontano le visioni strategiche di grandi potenze come Usa e Cina. Non una realtà omogenea ma composita: un continente enorme, demograficamente in grande ascesa e con risorse naturali importanti, che negli ultimi anni è cresciuto molto anche dal punto di vista economico”.

Daniele Mont D’Arpizio

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012