SOCIETÀ

Il ballottaggio francese e l'alta posta in palio

Al ballottaggio di domenica prossima, 7 luglio, circa 49 milioni di elettori francesi termineranno di disegnare, dopo aver già votato il 30 giugno scorso, la composizione della prossima Assemblea Nazionale, la “Camera” più importante del Parlamento francese. Inutile minimizzare: la posta in gioco è altissima, per la Francia e non soltanto. Perché il Rassemblement National, il partito guidato da Marine Le Pen, che già al primo turno ha fatto il pieno di preferenze (assieme agli alleati di Les Républicains ha ottenuto oltre il 33%) intravede per la prima volta, dal dopoguerra, la concreta possibilità di conquistare la maggioranza assoluta dei deputati. Sta accadendo oggi perché il presidente francese Emmanuel Macron, appena saputo l’esito delle elezioni europee di giugno, stravinte da Le Pen, ha tentato il più grande azzardo della sua carriera: anticipare di ben tre anni la scadenza naturale per le legislative, sciogliere il Parlamento (nel quale aveva la maggioranza relativa) e indire immediatamente nuove elezioni. «Gli ho lanciato una granata senza sicura tra le loro gambe… Ora vedremo come se la caveranno», aveva commentato spavaldo, secondo la ricostruzione di Le Monde, incontrando un alto funzionario dell’Eliseo. Se l’obiettivo era prendere in “contropiede” l’estrema destra, la mossa è evidentemente fallita: al primo turno il Rassemblement National ha sostanzialmente confermato la sua quota di voti. Mentre il campo centrista del presidente ha riportato una nuova sconfitta, appena il 22% dei voti, il che gli impedirà comunque di mantenere una maggioranza in parlamento. Al secondo posto si trova la coalizione di sinistra Nouveau Front Populaire (Nfp), con il 28% dei voti.

L’arma della “desistenza”

Al “fronte Repubblicano”, chiamato da Macron a unirsi per respingere l’assalto della destra al governo, resta ora l’ultima chance: la desistenza (vale a dire il ritiro “tattico” di un candidato), che nasce da un accordo tra i centristi liberali e il Nouveau Front Populaire di sinistra. La legge elettorale francese prevede l’elezione diretta in ciascuna circoscrizione del candidato che ottiene più del 50% dei voti, mentre si va ballottaggio (tra due, tre, anche quattro candidati) tra coloro che hanno preso più del 12,5% delle preferenze. Dunque, pur di bloccare l’ascesa dei lepenisti, si convogliano i voti sul candidato “non di destra” meglio piazzato al primo turno: con gli altri invitati, per ordine di partito, a ritirarsi. Sorte toccata a 130 candidati del gruppo di sinistra e a 82 tra i centristi, compresi diversi ministri uscenti, tra le quali Sabrina Agresti-Roubache (Cittadinanza e Affari urbani), Fadila Khattabi (Anziani e Disabili) e Dominique Faure (Affari rurali e Enti locali). Con questi numeri, e questo accordo alle spalle, la strada per il Rassemblement National si fa più in salita, anche se poi molto dipenderà dall’affluenza e dalle scelte dei singoli elettori. E secondo due politologi francesi, Céline Braconnier e Jean-Yves Dormagen, non è poi così automatico tradurre in voti reali gli accordi di desistenza.

Il traguardo per ottenere la maggioranza assoluta all’Assemblea Nazionale resta fissato a 289 seggi. Ma secondo le ultime stime Marine Le Pen non dovrebbe riuscire a farcela: al netto delle imprevedibili variabili, RN potrebbe conquistare tra i 190 e i 220 seggi, non sufficienti, ma comunque un’enormità se paragonati agli 88 che deteneva nella precedente composizione dell’Assemblea Nazionale (e in questi numeri c’è tutto il fallimento della “mossa” di Macron). Il gruppo centrista potrebbe vincerne tra i 110 e i 135 (ne aveva 250), mentre la coalizione delle sinistre oscillerebbe tra 159 e 183 seggi. Un eventuale accordo del cosiddetto “arco repubblicano” potrebbe (sempre ammesso che alle urne le stime siano confermate) scongiurare l’ipotesi di una “coabitazione” (quando il presidente e il primo ministro provengono da campi politici opposti: e nella storia repubblicana ci sono tre precedenti) tra un governo guidato dalla destra e un presidente, Macron, che non ha alcuna intenzione di dimettersi e che resterà comunque all’Eliseo fino al 2027. Il Rassemblement National, per voce del deputato Sébastien Chenu, già eletto al primo turno, non ha escluso la possibilità di guidare il prossimo governo anche senza avere la maggioranza assoluta: «Dovremo guardare come sarà composta l’Assemblea Nazionale, ma ci assumeremo comunque le nostre responsabilità davanti al popolo francese». Mentre Marine Le Pen, tradendo un filo di nervosismo che spiega bene la delicatezza del passaggio politico, ha usato parole forti nel commentare la nuova infornata di nomine ad alte cariche statali (una trentina, tra ambasciatori, rettori e alti magistrati) disposta da Macron a pochi giorni dal ballottaggio: nomine che, secondo Le Pen, «impedirebbero al Rassemblement National di governare» se ottenesse la maggioranza assoluta. La leader dell’ultra-destra (costretta a intervenire per far ritirare una candidata che si era fatta ritrarre con un cappello dell’aviazione nazista, la Luftwaffe, con tanto di svastica) ha accusato il presidente di aver pianificato «un colpo di stato amministrativo per impedire a Jordan Bardella di governare il Paese come vuole». L’Eliseo le ha risposto a stretto giro, invitandola a “calmarsi” e a “misurare le parole”.

Occhio alla Frexit

Comunque la paura per quanto potrebbe accadere a spoglio ultimato, lunedì prossimo, è palpabile. E s’intuisce dai toni, dai modi, dagli atteggiamenti dei vari leader politici, francesi e non soltanto. Il presidente del Senato, Gérard Larcher, del partito Les Républicains, contrario all’alleanza del suo partito con quello della Le Pen, ma contrario anche allo scioglimento anticipato dell’Assemblea Nazionale («una decisione irresponsabile», l’aveva definita) è stato convocato dallo stesso Macron all’Eliseo “per discutere le conseguenze di questo brutale scioglimento e il funzionamento delle istituzioni per il futuro”, ha fatto sapere attraverso un comunicato. Il ministro dell’Economia Bruno Le Maire ha messo in guardia gli elettori dal votare sia per il Rassemblement National sia per La France Insoumise (LFI, il partito di estrema sinistra guidata da Jean-Luc Mélenchon) perché entrambi questi schieramenti punterebbero, a suo dire, a una “Frexit mascherata”, all’uscita della Francia dall’Unione Europea. Macron è poi intervenuto per delineare con più precisione eventuali futuri scenari: «Sia chiaro: non governeremo con La France Insoumise. Una desistenza non significa una coalizione». Più focalizzato il primo ministro uscente, Gabriel Attal, che con ogni probabilità sarà costretto a lasciare l’incarico lunedì prossimo. «L’estrema destra è alle porte del potere», ha avvertito. «E il Rassemblement National non dovrebbe ottenere un solo voto al secondo turno. Dobbiamo impedire che RN ottenga la maggioranza assoluta all’Assemblea nazionale, perché sarebbe - e lo dico dal profondo del mio cuore - terribile per il Paese e per i francesi».

Toni da ultima spiaggia. Ma anche in Europa la tensione è assai alta: la Francia non è un paese qualsiasi: è tra gli stati fondatori, è una delle due “colonne portanti” dell’Unione (l’altra è la Germania), sotto un profilo economico e militare, oltre a essere l’unica potenza nucleare dell’UE. E Marine Le Pen non ha mai fatto mistero di mal sopportare le imposizioni di Bruxelles, e di voler “sottrarre potere” al Parlamento Europeo. Un rischio subito individuato dal primo ministro polacco Donald Tusk, che ha anche accusato la Russia di “influenzare” i partiti della destra radicale europea: «Quanto sta accadendo è molto pericoloso. È importante che le forze della ragione, le forze pro-Europa, riescano a trovare risposte intelligenti e convincenti su quali siano le priorità per la gente comune. I leader europeisti saranno percepiti in modo più positivo se si concentreranno sulla lotta contro l’immigrazione illegale, sulla sicurezza, su una maggiore sostenibilità economica e un maggiore coordinamento industriale. I politici – ha ribadito Tusk - dovrebbero, ad esempio, non concentrarsi soltanto sulla lotta contro il cambiamento climatico, ma anche aiutare attivamente coloro che ne subiscono le conseguenze, come gli agricoltori e le aziende. Questa potrebbe essere la ricetta migliore contro i populisti, contro i politici radicali, contro i partiti pro-Putin in Europa, che sono numerosi». I legami finanziari e politici tra Marine Le Pen e Vladimir Putin sono noti da tempo. Secondo l’Associated Press Moscaavrebbe orchestrato una campagna di disinformazione “per danneggiare la Francia, in occasione dei prossimi Giochi olimpici, e personalmente il presidente Emmanuel Macron, che è uno dei più accesi sostenitori dell’Ucraina in Europa». Il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, si è limitato a commentare: «Per noi le preferenze espresse dagli elettori francesi sono chiare».

Lo spettro dei conti pubblici

Ma la questione, oltre che politica, è anche economica. Perché le campagne elettorali sono così: promesse a iosa, poi il problema sarà rispettarle, per un paese che comunque non naviga in buone acque, con un debito pubblico stimato al 112% e un deficit per il 2023 attestato al 5,5%, ben oltre il 3% indicato dall’UE come soglia limite per i disavanzi annuali (e difatti la Francia, come l’Italia peraltro, è sotto procedura d’infrazione per disavanzo eccessivo). Il Fondo Monetario Internazionale prevede una crescita debole per quest'anno, dello 0,7%, in calo rispetto al già modesto 0,9% del 2023. L’aspirante primo ministro della destra, Jordan Bardella, ha promesso di tagliare l’Iva (dal 20% al 5,5%) su carburanti, elettricità e gas, «perché penso che ci siano milioni di francesi che quest'anno non possono più permettersi di riscaldarsi o sono costretti a limitare i loro viaggi». La coalizione di sinistra Nouveau Front Populaire punta invece ad abolire “i privilegi dei miliardari”, promettendo un aumento delle tasse per i redditi più alti. Destra e sinistra si dicono poi pronte a fare marcia indietro sulla riforma delle pensioni imposta lo scorso anno da Macron (con aumento dell’età pensionabile da 62 a 64 anni), che ha scatenato la rabbia delle piazze. Promesse elettorali che avranno comunque un costo. «Le elezioni anticipate potrebbero sostituire il governo centrista zoppicante di Macron con uno guidato da partiti che nelle loro campagne elettorali hanno abbandonato ogni pretesa di disciplina fiscale», ha sintetizzato l’economista Brigitte Granville, docente di economia internazionale e politica economica della Queen Mary University di Londra.

Questo lo scenario nel quale gli elettori francesi dovranno fare le loro scelte. Se dovesse prevalere l’estrema destra “normalizzata” del Rassemblement National assisteremo sicuramente a una contrazione dei diritti (delle donne, delle minoranze) e all’attuazione di misure assai restrittive in tema d’immigrazione (più veloci gli allontanamenti degli indesiderati, più ostacoli nei ricongiungimenti familiari, più lunghi i periodi di reclusione nei centri di detenzione amministrativa, abolizione della doppia cittadinanza, abolizione dello ius soli, la possibilità di acquisire la cittadinanza francese per chi nasce sul territorio da genitori stranieri, purché residenti). Lo scorso gennaio RN aveva inoltre presentato un progetto di legge per vietare alle persone con doppia cittadinanza di accedere ai posti di lavoro nelle pubbliche amministrazioni. Quanto alla politica estera Bardella, senza parlare esplicitamente di un’uscita dall’Unione, ha già detto che difenderà «gli interessi della Francia al di sopra di quelli dell’UE». Se invece dovesse prevalere il “fronte repubblicano” potrebbe profilarsi la possibilità di un governo di unità nazionale, probabilmente tecnico, un governo “dei ragionevoli”, degli europeisti, dal quale sarebbe esclusa sia la destra, sia l’estrema sinistra (La France Insoumise ha già respinto l’ipotesi di partecipare a una grande coalizione). Il problema è: chi guiderebbe un simile governo? Servirebbe una figura “terza”, non eletta, un tecnico appunto (alla Draghi, per intenderci). Trovare un punto d’equilibrio non sarà semplice, in un paese comunque lacerato (socialmente, politicamente), con un presidente che di certo esce indebolito e ridimensionato da questa tornata elettorale, e che ora teme, all’indomani del voto, una risposta violenta nelle piazze: «I programmi dei “due estremi” (Rassemblement National e La France Insoumise) rischiano di portarci alla guerra civile», ha dichiarato Macron pochi giorni fa.

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