SOCIETÀ
Stati Uniti: e se finisse in pareggio?
Obama e Romney al termine del loro ultimo dibattito. Jason Reeds/Reuters
Il 7 novembre, mercoledì prossimo, gli americani potrebbero svegliarsi con Mitt Romney votato dalla maggioranza degli elettori ma Barack Obama eletto presidente grazie al sistema del Collegio Elettorale. Se così fosse, lo choc politico e istituzionale sarebbe enorme: sarebbe la quinta volta nella storia degli Stati Uniti che il presidente eletto non sarebbe quello scelto dalla maggioranza degli americani. Si tratta di un caso già verificatosi nel 1824, nel 1876, nel 1888 e nelle controverse elezioni del 2000. Sarebbe però la prima volta che questo capiterebbe a un presidente uscente in lizza per un secondo mandato. E, inevitabilmente, tale evento creerebbe un problema di legittimazione del presidente eletto e attizzerebbe le discussioni relative alla necessità di riformare il metodo di elezione presidenziale, che risale al 1787.
Questo scenario è reso possibile dal sistema elettorale americano in cui non importa calcolare il numero di voti ottenuti a livello nazionale perché l'elezione si decide a livello dei singoli stati. Il Collegio Elettorale è composto da 538 Grandi Elettori e un candidato, per essere eletto, deve raggiungerne la maggioranza, che è pari a 270. Ogni stato detiene un numero di Grandi Elettori pari alla somma dei senatori e dei deputati che elegge al Congresso: il minimo è quindi 3 in stati come Delaware e Wyoming e il massimo attuale è la California, con 55. Ogni dieci anni poi, il peso elettorale di ciascun stato all'interno del Collegio Elettorale viene ricalibrato in virtù dei nuovi dati sulla popolazione residente prodotti dal censimento nazionale. La decisione di istituire tale complesso meccanismo venne presa oltre duecento anni fa in sede costituzionale e traeva origine dalla necessita di garantire il carattere federale della neonata unione di stati americani. Ma i difetti del sistema sono molti: dato il totale immodificabile di 538 Grandi Elettori, una prima distorsione è quella di sovrarappresentare i piccoli stati. Per esempio, la California (55 Grandi Elettori) ha una popolazione 66 volte maggiore del Wyoming (3 Grandi Elettori) ma una rappresentanza nel Collegio Elettorale che è di sole 18 volte superiore.
Il sistema non esclude nemmeno l'ipotesi di un pareggio a quota 269: secondo i sondaggi, lo scenario potrebbe verificarsi anche nel voto della prossima settimana. In caso di pareggio, l'elezione del nuovo presidente sarebbe decisa dalla Camera dei Rappresentanti, una circostanza capitata soltanto una volta nella storia: dopo le elezioni del 1800 quando Thomas Jefferson e Aaron Burr finirono in parità. La Camera riuscì a sbloccare la situazione solo nel febbraio successivo, al 36° ballottaggio. Quest’anno, la Camera ha una maggioranza repubblicana: in questa eventualità Romney sarebbe eletto presidente.
Il Collegio elettorale è stato più volte oggetto di proposte di riforma, ma nessuna di queste è mai giunta a compimento. Le sue caratteristiche influenzano anche la struttura e l’organizzazione delle campagne elettorali. I candidati tendono a concentrare sforzi e risorse economiche negli stati in bilico, cioè quelli che per tradizione non sono solidamente repubblicani o risolutamente democratici, specie in quelli più popolosi, che assegnano un maggior numero di Grandi Elettori. Ne consegue che negli stati più piccoli, o scarsamente contendibili, le campagne dei candidati siano quasi assenti.
L’attuale configurazione pesa quindi negativamente sulla partecipazione elettorale e mette in dubbio la stessa natura democratica del sistema. Infatti, negli stati marginali, l’irrilevanza ai fini elettorali costituisce un forte disincentivo a votare, cosa che probabilmente non accadrebbe in presenza di un meccanismo basato sul voto popolare nazionale.
Marco Morini
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