SOCIETÀ

Elezioni presidenziali americane: una mappa

La corsa alla nomination per le elezioni presidenziali americane dell’8 novembre accelera: tra pochi giorni ci sarà il cosiddetto Super Tuesday, in cui molti stati del Sud votano per i candidati repubblicani (Trump, Cruz, Rubio e Kasich) e per quelli democratici (Sanders e Clinton). La settimana prossima la situazione sarà quindi più chiara ma, chiunque siano i candidati, come sono le prospettive dei due partiti in vista di novembre?

Ogni elezione fa storia a sé, dicono. Vero fino a un certo punto: se guardiamo alla mappa politica degli Stati Uniti scopriamo che da decenni il Sud e le grandi praterie votano repubblicano, il Nordest e la costa del Pacifico votano democratico. L’ultima volta in cui New York ha votato repubblicano è stato nel 1984, più di 30 anni fa; l’ultima volta in cui  il Kansas ha votato democratico è stato nel 1964, più di 50 anni fa. Naturalmente, per ogni partito ci sono gli anni “giusti” e gli anni catastrofici, quando il candidato è sbagliato, o il paese è in guerra e i cittadini si raccolgono attorno al presidente uscente. Così i repubblicani non avevano molte chances nel 1996 presentando un candidato anziano e poco attraente come Bob Dole, mentre i democratici avrebbero avuto bisogno di un personaggio ben più carismatico del triste John Kerry per vincere nel 2004.

Nonostante tutto la storia conta: per esempio si sa che quando un partito è rimasto per due mandati alla Casa Bianca, ottenerne un terzo è più difficile. Non impossibile: i repubblicani, nel 1988, riuscirono a prevalere pur essendo finita l’era Reagan, ma i democratici comunque ottennero cinque milioni di voti più delle elezioni precedenti. Se guardiamo alle elezioni presidenziali del dopoguerra, questa situazione si è verificata sette volte: nel 1952, 1960, 1968, 1976, 1988, 2000 e 2008. In tutti e sette i casi, il partito di opposizione ha fatto un balzo in avanti nei suffragi.

Se escludiamo due elezioni anomale come il 1968 e il 1976, quando il partito all’opposizione avrebbe vinto anche presentando come candidato un pappagallo ammaestrato, ci restano cinque elezioni di cui quattro sono state vinte dagli sfidanti, che in media hanno ottenuto ben 7 punti percentuali in più della tornata precedente. Non sempre è stato sufficiente: per esempio nel 2000 i repubblicani fecero effettivamente un balzo in avanti del 7,2% ma nel voto popolare prevalsero i democratici e solo il meccanismo distorsivo del collegio elettorale, insieme alle macchinazioni della Corte suprema, assegnarono la vittoria a George W. Bush.

Qui occorre ricordare che l’impressione di una elezione popolare del presidente degli Stati Uniti è falsa: la costituzione prescrive che il capo dell’esecutivo sia eletto da un collegio di delegati eletto per l’occasione e che questo collegio sia composto da rappresentanti degli stati approssimativamente in proporzione alla popolazione. In realtà, il meccanismo sovrarappresenta in misura consistente gli stati più piccoli e, inoltre, assegna il pacchetto di delegati sulla base della regola “chi vince prende tutto”, quindi la sorte di stati importanti può essere decisa da un pugno di schede, come accadde nel 2000, quando Al Gore perse la Florida (e con essa la presidenza) per aver ottenuto 537 voti meno di George Bush su un totale di oltre 5.900.000.

Quindi, se le tradizioni venissero rispettate, nel 2016 i repubblicani dovrebbero incrementare la loro percentuale di voti ma questo non significa che necessariamente debbano vincere: molto dipende da come questi voti saranno distribuiti. Se si concentreranno negli “stati giusti”  per ottenere una maggioranza nel collegio elettorale il loro candidato entrerà alla Casa bianca, altrimenti no. Se per assurdo incrementassero del 10% i loro voti in California, resterebbero comunque in minoranza e i 55 delegati di quello stato andrebbero al candidato democratico.

Un’occhiata alla mappa del 2012 ci dice che Mitt Romney ottenne 206 delegati nel collegio elettorale contro i 332 di Barack Obama: il totale fa 568 e quindi la maggioranza è 270. Come farà il candidato repubblicano del 2016, chiunque egli sia, ad aggiungere 64 delegati al totale ottenuto dal partito nel 2012 e raggiungere il numero magico di 270?

Tecnicamente ci sarebbero varie possibilità, in pratica la strada verso la vittoria nelle elezioni di novembre passa da pochissimi stati, diciamo quelli dove la differenza tra i due candidati nel 2012 era inferiore al 6%. Perché? Perché negli altri stati la distanza fra repubblicani e democratici è spesso così grande da rendere praticamente impossibile una sorpresa nelle urne: nello Utah, per esempio, i repubblicani solitamente ottengono oltre il 70% dei voti (72,55% nel 2012); difficile che nel 2016 i democratici rovescino la situazione, salvo forse a presentare un candidato che appaia su un carro trascinato dagli angeli della chiesa mormone. Inversamente, nella capitale Washington DC il 90% dei votanti solitamente si esprime a favore del candidato democratico, un risultato che potrebbe cambiare solo se Abramo Lincoln redivivo si presentasse in persona a rappresentare il partito repubblicano.

Quanti sono i cosiddetti swing states, gli stati dove spostamenti relativamente piccoli di voti possono far prevalere un candidato a danno dell’altro? Sono appena otto su 50, anche se insieme rappresentano 33 milioni di votanti, un quarto del totale. Si tratta di quelli dove lo scarto tra Obama e Romney è stato inferiore al 6%: Florida, North Carolina, Ohio, Virginia, Colorado, Pennsylvania, New Hampshire e Iowa. Gli ultimi tre sono inclusi per scrupolo statistico, ma in realtà sono stati generalmente favorevoli ai democratici: l’ultima volta che la Pennsylvania ha dato una maggioranza ai repubblicani fu nel 1988, lo stesso il New Hampshire (che però votò repubblicano nel 2000) mentre l’Iowa ha votato repubblicano un'unica volta (nel 2004) nelle ultime sette elezioni presidenziali. Questi tre stati, che complessivamente rappresentano 30 voti nel collegio elettorale, non possono essere esclusi ma è più probabile che restino nel campo democratico.

Al candidato repubblicano, sia egli Trump, Cruz o Rubio, restano quindi da trovare 64 voti in cinque stati: Florida, North Carolina, Ohio, Virginia, Colorado. Possibile? Sì: complessivamente questi stati dispongono di 84 delegati, però la matematica ci dice che raggiungere l’obiettivo non sarà facile: i repubblicani dovrebbero assolutamente vincere in Florida e almeno negli altri due stati più grandi, Ohio e North Carolina. In questo modo otterrebbero 63 delegati, che sommati ai 206 di partenza (supponiamo che tutti gli stati che hanno votato per Romney nel 2012 rivoterebbero per i repubblicani anche quest’anno) farebbe 269. Peccato che sia uno meno della maggioranza: sarebbe un pareggio nel collegio elettorale e le sorti della presidenza, come vuole la costituzione, verrebbero decise dalla Camera dei rappresentanti, che tuttavia è controllata dai repubblicani, quindi sarebbe una vittoria, sia pure sul filo di lana.

Per evitare complicazioni, i repubblicani dovrebbero vincere in un altro stato, anche piccolo, in modo da superare quota 270 nel collegio elettorale: le loro migliori possibilità sono in Virginia, dove Obama ha vinto due volte, ma con margini ristretti, ed è uno stato che in precedenza aveva votato repubblicano per 40 anni senza interruzione. C’è poi il Colorado, che negli ultimi sei duelli per la Casa bianca ha votato tre volte per i repubblicani e tre volte per i democratici, oppure Iowa o Nevada (che però negli ultimi anni sono stati più favorevoli ai democratici). 

Per riassumere: i repubblicani torneranno a controllare la presidenza se vinceranno in quattro stati incerti su cinque, il che è possibile, in un anno di grandissima turbolenza politica come questo. I democratici, però, non sembrano voler restare a guardare e, sulla carta, hanno due candidati, Hillary Clinton e Bernie Sanders, più solidi e credibili di quelli visti finora nelle primarie repubblicane che, ad oggi, riflettono uno stato di forte confusione nel partito.

Fabrizio Tonello

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