SCIENZA E RICERCA

Esseri unici? No, simbionti di tanti microbi amici

Gli ultimi dati dicono che la terapia contro l’infezione da Clostridium difficile funziona nell’80 e persino nel 90% dei casi. E non ha effetti collaterali. Certo, è una terapia che di primo acchito può sembrare un po’ strana e persino repellente. Ma la Fecal Microbiota Transplant (FMT), il trapianto delle feci e del microbioma che contiene da un donatore sano a una persona sotto attacco batterico funziona. La terapia, infatti, ha superato i trail clinici randomizzati.

Non costituisce, in assoluto, una novità. Già nel 1958 un chirurgo, Ben Eiseman, della University of Colorado, annunciò di aver trattato con un Trapianto del Microbioma Fecale un paziente affetto da diarrea a causa dell’infezione batterica provocata da uno Pseudomonas. Pare che il trapianto delle feci fosse in voga nella medicina cinese già a partire dal quarto secolo a.C., ma almeno fino al 2010 la medicina occidentale non lo ha preso in considerazione (tranne in Australia, dove è diventata pratica clinica da tempo).

Risale infatti al 2010 la notizia, riportata da The New York Times, di un medico in Minnesota che ha utilizzato con successo la FMT in un paziente affatto da una diarrea inarrestabile a causa di un’infezione provocata dal Clostridium difficile. Era solo l’inizio. Appena tre anni dopo, nel 2013, la Food and Drug Administration (FDA), l’Agenzia federale che si occupa di sanità e farmaci negli Stati Uniti, ha emanato un regolamento per il corretto utilizzo del Fecal Microbiota Transplant. Quest’anno la terapia ha superato i trail clinici randomizzati, dimostrando di essere più efficace, in alcuni casi, degli antibiotici. L’idea è molto semplice. Nel nostro corpo, anche nelle nostre viscere, abbiamo una sterminata serie di minuscoli organismi – il microbiota – che ci aiutano sia nelle nostre funzioni fisiologiche sia a respingere gli attacchi di agenti patogeni. La FMT non è altro che il tentativo di ripristinare un microbiota sano ed efficiente in un paziente in cui è stato parzialmente distrutto.

Il Fecal Microbiota Transplant non è altro, in realtà, che un’applicazione della crescente attenzione che sta suscitando lo studio del microbioma, che ha portato nel 2007 i National Institutes of Health degli Stati Uniti a lanciare lo Human Microbiome Project (HMP) per costruire una mappa di tutto il genoma non umano presente nel corpo umano. Questi studi sono diventati così importanti e promettenti da indurre la rivista Science a parlare di “The Germ Theory of Everything”: la teoria del tutto fondata sui germi.

Già, ma cos’è, in definitiva, il microbioma? Beh, diciamo che si tratta di materiale genetico e di microbi. Dei miliardi e miliardi di microrganismi di diverso tipo e genere che caratterizzano un certo ambiente. Anzi, tutti gli ambienti. Infatti, sono dappertutto: nel tratto gastrointestinale, certo. Ma anche nella bocca, sulla pelle, negli organi genitali, nel cervello. Sono di specie, appunto, le più diverse: virus, batteri; archeobatteri; eucarioti come protozoi, funghi e nematodi. Sono tantissimi: nel corpo di ciascuno di noi – ricordano Roman M. Stilling e un gruppo di suoi colleghi in un articolo pubblicato poco tempo su Frontiers in Cellular and Infection Microbiology – vi sono qualcosa come 100.000 miliardi di cellule non umane, per un peso complessivo compreso tra 1 e 2 chilogrammi e con un patrimonio genetico che ammonta a 9,9 milioni di geni non umani. Ma nel nostro DNA i geni sono appena 20.000. Basta fare, dunque, un semplice conto per verificare che nel nostro organismo per ogni gene “nostro” vi sono attivi almeno 500 geni “altri”. I soli batteri amici – come quelli chiamati in causa con la FMT – sono di 40.000 specie appartenenti a 1.800 generi diversi. Tutti questi ospiti formano il nostro microbiota: senza il quale non solo non potremmo vivere, ma non ci saremmo neppure potuti evolvere.

Noi uomini sedicenti sapienti siamo tutt’altro che degli esseri unici: siamo, in realtà, dei simbionti. E non possiamo vivere che in simbiosi.

Non solo noi, per la verità. È un simbionte ogni animale e ogni pianta e ogni organismo vivente che consideriamo (chissà perché) superiore. Anzi, la simbiosi – la convivenza cooperativa tra “diversi” – è diffusa persino tra gli organismi unicellulari. La simbiosi – la convivenza cooperativa tra “diversi” – è universale.

Il che significa che c’è un dialogo incessante anche tra genomi diversi. I nostri microscopici ospiti interagiscono con il nostro genoma (oltre che con il genoma dei loro simili). Tanto che molti biologi propongono di considerare il microbiota alla stregua dei mitocondri, ovvero di quegli organelli dotati di materiale genetico attivo presenti nelle nostre cellule fuori dal nucleo (dove si concentra la gran parte del DNA). Secondo Stilling e colleghi, il genoma dei nostri ospiti funziona come un filtro (fa passare i microbi amici e respinge quelli “giudicati” dannosi nei diversi tessuti del nostro corpo) e persino da addomesticatore: inducendo i microbi che arrivano dall'esterno ad adattarsi all’ambiente del nostro corpo.

La presenza dei microbioti è così onnipervasiva che, di recente, i biomedici hanno dovuto abbattere un radicato paradigma, secondo cui il feto vive nel grembo materno in un ambiente del tutto asettico. Non è affatto vero: anche il feto nel suo corpicino ospita miliardi di microscopici amici. Anche se ne assume in maniera più importante e complessa quando passa per il canale del parto e viene infine alla luce.

Il microbiota, tuttavia, non è uguale per tutti gli esseri viventi. Persino tra noi Homo sapiens non ci sono due individui che hanno il medesimo gruppo di amici   invisibili. La composizione del microbiota dipende dall’età, dal sesso, dalle condizioni ambientali. Cosicché il microbiota di ogni individuo cambia nel corso della vita. Per esempio: la flora intestinale della madre, che assolve a molte funzioni anche per il nascituro, non è stabile, ma si modifica e non di poco durante la gravidanza.

L’importanza della simbiosi è tale – ricordano Stilling e i suoi colleghi – che è necessario prenderli seriamente in considerazione nell’ambito della teoria dell’evoluzione biologica. Perché nulla in biologia ha senso, come sosteneva quaranta anni fa Theodosius Dobzhansky, se non alla luce dell’evoluzione.

L’universalità e l’importanza della simbiosi hanno dunque un significato evolutivo: sono uno strumento decisivo del cambiamento del vivente. Hanno un ruolo di primo piano nella storia della vita sul pianeta Terra. Questa constatazione è, probabilmente, la più importante novità nell’ambito della teoria biologica degli ultimi decenni. Questo non significa che la simbiosi sostituisce la selezione naturale di cui parlava Darwin e gli altri meccanismi evolutivi, ma con essi si integra.

Gli uomini, gli animali, le piante si sono co-evoluti con il loro microbiota. Perché la natura non ha elevato e non eleva barriere tra “diversi” (tra le diverse specie), ma ha trovato e trova molto più produttiva la cooperazione tra le specie.

C’era da aspettarselo. Perché l’evoluzione non butta mai niente. Piuttosto aggiunge. Se ha un batterio che svolge una funzione digestiva in organismi più complessi, lo utilizza ovunque può e non inventa di volta in volta nuove modalità metaboliche. Un’immagine di Stephen Jay Gould può aiutarci a capire questo processo. L’evoluzione è come un uomo che sta innaffiando il giardino con il suo tubo di gomma. Se procedendo nella sua azione, il tubo si avvolge intorno a un albero, l’evoluzione non torna indietro, ma continua a usare il tubo arrotolato, congelando quell’accidente. L’evoluzione è un insieme di accidenti congelati.

Un esempio analogo a quello del microbiota ci viene dalla nostra dipendenza dalle piante. Molti degli enzimi che utilizziamo nel corso della nostra attività metabolica non vengono prodotti dalle nostre cellule, ma assimilati dalle piante. Senza le quali – ancora una volta – non potremmo vivere. Il motivo è semplice. Gli animali si nutrono fin dall’inizio della loro storia filogenetica di piante. Non hanno dovuto, dunque, inventarsi enzimi in grado di accelerare le reazioni che avvengono durante i processi di digestione del cibo. Li assumono senza dispendio direttamente dalle piante. Questi enzimi sono “accidenti congelati” nella storia dell’evoluzione.

Anche il nostro cervello, secondo Stilling e colleghi, si è evoluto attraverso una serie di “accidenti congelati” nel rapporto con il microbiota.

La recente scoperta dell’importanza, anche genetica, della simbiosi tra organismi complessi e microbiota non significa che ora di questo rapporto sappiamo tutto. E neppure abbastanza. Per esempio, Andrew W. Brooks e un gruppo di suoi colleghi della Vanderbilt University di Nashville nel Tennessee (USA), in un articolo pubblicato di recente su PlosBiology, si sono posti alcune domande – la composizione del microbiota in ciascuno di noi è frutto del caso o, invece, di meccanismi di selezione deterministici? E come varia il microbiota tra le diverse specie: il nostro è più simile a quello dei nostri cugini, gli scimpanzé, per ragioni filogenetiche (vicinanza nell’albero evolutivo) o la diversità del microbioma tra le varie specie è, ancora una volta, casuale? – cui hanno tentato di dare risposta per via empirica comparando il microbiota di 24 diverse specie animali di quattro gruppi diversi (topi, moscerini della frutta, zanzare e vespe) con quello di sette gruppi di ominidi. Giungendo a tre conclusioni importanti.

Primo: la variabilità intraspecifica del microbiota è inferiore a quella interspecifica. Il che significa che due moscerini della frutta anche molto diversi tra loro hanno un microbiota più simile di quello che hanno in media le zanzare o le vespe. Di più, le differenze aumentano con la distanza filogenetica. Ovvero più lontano nel tempo è il progenitore comune tra due specie, maggiore è la differenza del microbiota. Insomma i nostri ospiti sono più simili a quelli dei topi che non delle zanzare. Non era scontato, perché questo significa che la costituzione del gruppo di ospiti invisibili negli organismi animali non è del tutto casuale. Questo dato è tale, sostengono Brooks e colleghi, che è possibile mettere a punto modelli in grado di predire chi (tra i microbi) è ospite di chi (tra gli animali) con notevole precisione.

Secondo, c’è una forte evidenza che quella tra microbi e animali è una filosimbiosi. In altri termini, l’evoluzione genetica dei microbi ospiti corre in parallelo con quella degli organismi ospitanti. Il che significa che entrambi – microbi e organismi ospitanti – sono soggetti alle medesime forze selettive.

Terzo, la sopravvivenza di un organismo in caso di trapianto di microbioti è tanto maggiore quanto minore è la distanza filogenetica. Il che significa che un uomo sopporta meglio un’infusione di microbioti da un topo che da una vespa o da una zanzara.

Questi tre risultati sono molto coerenti tra loro. E indicano che, nell’evoluzione biologica, non conta tanto la lotta per la sopravvivenza – che pure c’è – ma contra soprattutto la cooperazione per meglio adattarsi all’ambiente che cambia. 

C’è un quarto punto che ci porta in Italia. Nel nostro paese lo studio del microbioma tocca punte di eccellenza. È il caso di Vincenzo Di Marzo e del suo gruppo di ricerca presso l’Istituto di Chimica Biomolecolare del CNR di Pozzuoli.

Tra gli interessi principali di Vincenzo di Marzo c’è lo studio del microbioma, che chiama in causa il sistema di comunicazione tra le cellule ospiti e quelle ospitanti in un organismo. È grazie a questi studi che Di Marzo ha ottenuto la cattedra di eccellenza presso l’Università di Laval, in Canada, con un progetto di ricerca di sette anni. La Cattedra diventerà operativa a fine 2017 e studierà l’”endocannabinoidoma-microbioma nella salute metabolica”, che tradotto dal gergo biochimico e biologico significa lo studio delle relazioni che intercorrono tra il sistema endocannabinoide e il microbioma intestinale. 

Come sostiene Di Marzo, uno tra gli scienziati italiani più citati al mondo: “Il quadro che emerge [nelle relazioni tra il sistema endocannabinoide e il bioma intestinale; ma potremmo aggiungere in tutto il mondo del microbioma] è piuttosto complesso. E tuttavia corrobora l’idea che scoperte ancora più importanti nella fisiologia umana e in nuove terapie potrebbero arrivare in futuro dalle nuove conoscenze che sapremo produrre in questo campo”. Il campo dei microbi amici.

Pietro Greco

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