SOCIETÀ
Etichette, non più bambini
Si pensa spesso all’antropologo come allo studioso che parte in missione per osservare tribù lontane. Ma l’antropologia – disciplina dalla definizione quanto mai variabile e complessa – si occupa anche di realtà a noi più familiari e per questo apparentemente più conosciute. La concezione e la costruzione dell’identità e dell’alterità nelle nostre scuole sembra quindi essere il tema perfetto per una riflessione antropologica.
Dove la definizione dell’alterità passa attraverso il concetto di normalità, o meglio la definizione di questa che viene “data dalla scuola e nella scuola”, rispetto a comportamenti e persone “identificati come diversi e in quanto tali devianti o ‘fuori norma’, declinati, in ragione di tale differenza, sempre in termini di deficit o di problema”. È la Trappola della normalità (Seid, 2014), l’ultima fatica di Roberta Bonetti, docente di antropologia all’università di Bologna, volume che raccoglie il lavoro di un gruppo di allievi nelle scuole italiane, che scelgono la via dell’etnografia, genere scientifico che implica un’esperienza di relazione e di scoperta della complessità che va oltre categorie, etichette e acronimi. Un esempio di antropologia attiva, che studia i fenomeni per proporre consapevolezza negli ambienti studiati, e la conseguente possibilità di un rimedio ai problemi.
Nel loro viaggio nelle scuole italiane, i giovani antropologi scoprono che troppo spesso per gli insegnanti come per i bambini la diagnosi del problema, disturbo, o dell’eventuale malattia di cui soffre “diventa il nome cui appellarsi per definire chi è il bambino”: la complessità della persona scompare dentro un’etichetta. Di più: il bambino problematico sembra “nascere” e acquisire identità solo in presenza di una diagnosi – laddove questa tardi, si arriva al paradosso di insegnanti che affermano di “non sapere molto” del bambino che da mesi hanno di fronte. Ma soprattutto capiscono come il concetto di normalità non abbia tanto o solo una funzione descrittiva quanto piuttosto prescrittiva, sconfinante in una possibile normalizzazione, con buona pace della rispettosa accettazione dell’altro.
Gli effetti pratici possiedono una loro logica perversa: l’assimilazione della lingua di accoglienza – citano come esempio – diventa quasi un “permesso di soggiorno” per stare dentro la classe. Se questo può avere una oggettiva utilità per l’insegnante, il rischio conseguente è sottovalutare le capacità comunicative dei bambini e giudicare lo scolaro straniero solo in base alle sue mancanze di italiano. Le carenze della lingua offuscano le potenzialità della persona, e rivelano i limiti di una scuola ormai multiculturale che non riesce a diventare anche multilingue. Oppure osservano come la crescente diffusione dei “nuovi disturbi” come la sindrome da deficit di attenzione sembra essere in non casuale relazione con la parallela diffusione dei curricula standardizzati: più la norma si definisce, più numerosi diventano coloro che non vi corrispondono.
Sono solo due tra i molti esempi e casi illustrati nel volume, tra burocratici o involontari “marcatori di disabilità” e prassi di istituzionalizzazione della diversità, tutti elementi che portano all’amplificazione di nuove differenze. Esperienze “etnografiche” che confermano i malanni della burocrazia scolastica italiana, ma senza avanzare critiche agli insegnanti, anzi esprimendo solidarietà verso chi opera quotidianamente e denunciando la precarietà perenne, i cui danni accomunano insegnanti e ragazzi. E con un capitolo interessante sui temi dell’insuccesso scolastico, su cause e modi che “non permettono di acquisire i traguardi scolastici”, dove ogni diagnosi ha ovvie ricadute sull’organizzazione e sul personale ma pone anche domande sul senso autentico del “successo ” a scuola.
La normalità si rivela quindi proprio una trappola, perché è un costrutto culturale necessario e livellatore a cui è funzionale ambire; ogni eccezione è una deroga, e va accettata e rispettata. Per essere garantita e accettata, va però istituzionalizzata, “inscatolata”, programmata; ogni eccezione prevista è – proprio in quanto prevista – una norma ulteriore. Più che una trappola, quasi un cul-de-sac.
Una riflessione finale si affaccia quindi alla mente del lettore, tra le molte che attraversano le pagine e che intrigheranno gli addetti ai lavori così come il pubblico di chi si domanda come stia la scuola oggi: dopo aver delegato quasi in toto alla scuola l’attività normalizzatrice che ogni gruppo sociale ha sempre esercitato verso la generazione successiva, qual è il futuro che ci attende? Inaridiremo su schemi e tabelle standard, funzionali e politicamente corretti, o discuteremo invece sulla “norma”, fino a liquefarla, ma perdendo comunque di vista la persona? Un dilemma che l’antropologia può solo testimoniare e descrivere, la risposta sta sicuramente altrove.
C.G.