SOCIETÀ

L’architetto dei deserti che ridà vita alle oasi in secca

Accontentarsi di un’impressione, nell’osservare un paesaggio che esiste da secoli, ci porta spesso fuori strada. Pensiamo a un ecosistema come le oasi, così presente nel nostro immaginario: siamo portati a credere a una specie di prodigio naturale, un incanto basato su un apparente paradosso climatico. E invece dietro questi giardini nel deserto c’è, di frequente, l’opera dell’uomo. Allo stesso modo, in zone aridissime e poco abitate, manufatti secolari che si potrebbero interpretare come monumenti dal puro valore estetico o rituale, si rivelano, a chi ne conosce i meccanismi occulti, appendici di strutture sotterranee funzionali a irrigare e riempire di vita quei luoghi. A questi temi l’architetto e urbanista Pietro Laureano, a Padova per una conferenza promossa da Unesco, ha dedicato la sua vita professionale. La sua esperienza nel recuperare spazi utili all’uomo in condizioni ambientali proibitive non è iniziata in un Paese desertico, ma nella sua Basilicata, nella città italiana che più di ogni altra rappresenta una sfida ecologica, sociale, culturale. Parliamo di Matera, che da vergognosa patria dei “sassi”, le abitazioni rupestri che, ancora nel dopoguerra, erano dimora insalubre di 17.000 persone, viene progressivamente risanata e rilanciata come sito residenziale e turistico proprio da architetti e studiosi come Laureano, fino alla recente conquista del titolo di capitale europea della cultura per il 2019. Matera è un esempio di “oasi di pietra”, un sistema di grotte che, in origine, garantiva ai suoi abitanti stabilità climatica e approvvigionamento idrico, ma che, non compreso e anzi stravolto, aveva conosciuto il progressivo degrado e l’abbandono del territorio.

Una veduta dall'alto di Matera

Accanto a Matera, l’impegno di Laureano si è rivolto presto alle aree desertiche. La sua filosofia d’intervento è chiara: dove l’acqua c’era ed è venuta a mancare non servono maxi-progetti internazionali, cordate di grandi imprese ansiose di esportare know-how e tecnologie dispendiosissime, totalmente estranee alla cultura locale e alle esigenze ambientali di zone tanto fragili. Secondo Laureano, l’unica via per ripristinare gli equilibri ecologici compromessi è recuperare il sapere antico che quegli equilibri ha creato e stabilizzato per secoli. Per il tecnico, intervenire in ambiente desertico in modo intensivo, concentrandosi su benefici immediati a favore di un territorio ristretto, si rivela a lungo termine un danno irreversibile tutt’intorno: Laureano cita il caso di Las Vegas, dove la smodata estensione dell’area urbanizzata nel cuore del deserto del Nevada è stata ottenuta deviando il fiume Colorado, portando a disperderne e inquinarne le acque e compromettendo l’equilibrio di vastissime aree a sud, fino al golfo di California. Un destino che il Colorado condivide con altri grandi fiumi, come il Giordano o il Mekong.

Per Laureano, le tecnologie antiche offrono gran parte di ciò di cui abbiamo bisogno per recuperare terreni inariditi: basta saper osservare gli esempi arrivati fino a noi. Così, se non ci fermiamo alla monumentalità delle piramidi Maya, possiamo renderci conto che ciascuna di esse è dotata di efficaci sistemi di incanalamento delle acque piovane lungo le pareti; e, allargando lo sguardo alle fonti di energia naturali, possiamo ritrovare nella civiltà persiana efficienti sistemi di sfruttamento della caduta dell’acqua, o di utilizzo del gas prodotto dai liquami. Le tecniche antiche rivelano una qualità che le rende ineguagliabili: la loro sostenibilità è garantita sul lungo termine, proprio perché frutto di una secolare catena di tentativi, verifiche, insuccessi. Ecco allora che, nelle zone desertiche in cui è chiamato ad operare, Laureano respinge qualunque ipotesi di rivitalizzare un territorio secondo i ciclopici sistemi di pompaggio che realizzano sì una rapida fertilizzazione in aree limitate ma, compromettendo la falda, accentuano i processi di desertificazione in un contesto molto più ampio. Per Laureano la risposta è nel ripristino di strutture ideate  secoli fa, presenti in oasi e deserti e spesso abbandonate: le “foggara”, gallerie sotterranee in pendenza collegate alla superficie da una successione di pozzi verticali, in grado di “catturare” l’acqua presente a monte (ma anche di ottenerla per condensazione lungo il tracciato) per convogliarla a valle nei luoghi più aridi, a formare sistemi di irrigazione complessi e ramificati. Strutture ingegnose e sofisticate, spesso rese inservibili a causa dell’incuria o del prevalere di spinte innovative del tutto estranee alle tradizioni locali. Esemplare è il caso di un paese arabo, citato da Laureano, dove si è tentato di ripristinare la funzionalità di un’antica “foggara” incamiciandola con pareti in cemento, andando così a perdere completamente la porosità delle pareti indispensabile per catturare l’umidità. 

Proprio per ovviare a questa progressiva perdita dei saperi antichi, Unesco e altri soggetti nazionali e internazionali stanno costituendo una rete associativa e informativa: L’Istituto e la Banca mondiale delle conoscenze tradizionali sono tentativi meritori, anche se ancora poco noti, per recuperare tecniche del passato utili nei contesti più diversi: dall’agricoltura alla silvicoltura, dalla gestione delle acque e del suolo all’architettura tradizionale, dalle risorse energetiche all’artigianato locale. Un approccio in grado di coniugare rispetto dell’ambiente e bassi costi di intervento al momento minoritario, ma che potrebbe rivelarsi, presto, una scelta obbligata.

Martino Periti

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