UNIVERSITÀ E SCUOLA
Una laurea con debiti. Quasi un obbligo, negli Stati Uniti
Risparmiare per permettere ai figli di frequentare l’università. È normale in Italia come altrove, ma negli Stati Uniti indebitarsi è quasi d’obbligo. Per frequentare un’università privata come Harvard, ad esempio, chi non possa fare affidamento su borse di studio deve sborsare poco meno di 50.000 dollari di sole tasse annue d’iscrizione. Basta aggiungere poco più di 22.000 dollari all’anno per permettersi di vivere nel campus. Per un’università statale come UC Berkeley i costi partono dai 13.518 dollari annui, se si rinuncia a vivere nel campus, ai 33.418 se si sceglie il “tutto incluso”. Non esattamente bazzecole.
Se prosciugare i risparmi famigliari non è sufficiente, bisogna allora ricorre ai loans, i prestiti da restituire all’ateneo dopo la laurea. Secondo una ricerca Gallup, il 63% degli studenti laureati fra il 2006 e il 2015 ha fatto ricorso a questo strumento finanziario per una somma la cui mediana si aggira sui 30.000 dollari. Per il 35% di quei laureati il debito accumulato è superiore ai 25.000 dollari, una cifra che segna il limite oltre il quale il fardello economico sembra avere un impatto molto serio sulle vite dei laureati; quella percentuale aumenta al 50% per i giovani di colore e al 42% per chi fa parte della prima generazione di laureati nella propria famiglia.
Chi stenta a ripagare il debito, precisa una ricerca della American Association of University Women, sono soprattutto le donne, in particolare di colore o ispaniche. La causa è semplice: nonostante oggi ci siano più donne che uomini nelle università statunitensi, e nonostante queste frequentino con maggiore profitto, una volta laureate guadagnano meno della loro controparte. È nel profondo pay-gap, nel burrone stipendiale, che precipitano le possibilità di ripagare il debito universitario in un tempo accettabile. Inoltre, il tempo che si prolunga porta con sé interessi che si accumulano e che contribuiscono a scavare un solco sempre più profondo.
Studiare per anni, pagando tasse altissime per permettersi un’università per la quale i propri genitori hanno risparmiato una vita, e a propria volta indebitarsi per gli anni a venire: ne vale veramente la pena? La ricerca Gallup lo chiede ai diretti interessati, i laureati. Fino a qualche anno fa la risposta sarebbe stata un granitico “si”: la laurea è sempre stata la chiave per ottenere un buon lavoro, e così comunque sembra essere ancora, visto che oggi i laureati americani guadagnano in media molto più di chi non abbia ricevuto un’istruzione universitaria. Ma con tasse universitarie aumentate di tre volte rispetto al tasso dell’inflazione e un ammontare totale del debito studentesco che ha raggiunto la cifra esorbitante di 1,2 trilioni, non può non cadere in qualche ansia chi sogna di aprirsi la porte a un futuro di successi grazie ai propri studi.
La ricerca conferma che in effetti sono ancora molti gli americani con una fede incrollabile nell’equazione “ottima educazione = lavoro prestigioso e vita soddisfacente”. Una buona metà degli alumni, infatti, afferma con sicurezza che la propria istruzione “was worth the cost”, abbia ripagato i propri sforzi economici. Un restante 27% del campione è comunque soddisfatto, anche se non entusiasta della propria esperienza, che reputa utile, mentre la percentuale di risulta sta in equilibrio fra un “ni” e un pessimismo cosmico. Queste percentuali esprimono comunque un campione medio nazionale che prende in considerazione sia università pubbliche che private (sia for-profit che non-profit) e atenei di ricerca (research universities), senza considerare se i laureati abbiano condotto i propri studi all’interno dello stato di residenza o oltreconfine (e questo può fare differenza, in termini di tasse). Se si approfondisce la questione e si spulciano i dati suddivisi per tipo di ateneo, ciò che salta all’occhio è che generalmente il giudizio rimane positivo per quasi tutte le provenienze, tranne che per i laureati delle università private for-profit. Di questi, solo il 26% è fermamente d’accordo con l’asserzione “La mia educazione all’università è valsa ciò che è costata”.
Tornando al quadro generale, ad essere particolarmente pessimisti sono soprattutto i laureati più recenti (dal 2006 al 2015), per i quali la percentuale di soddisfazione scende drammaticamente dal 50 al 38; a incupire i loro scenari è il debito in sospeso con l’università, soprattutto quando superiore ai 25.000 dollari. Neanche a dirlo, solo il 18% di chi si è indebitato per più di 50.000 dollari afferma che ne sia valsa la pena. Inoltre circa la metà degli alumni più giovani indebitati con l’università ha dovuto per questo motivo posticipare il proseguimento dei propri studi.
Ad addolcire la pillola del debito studentesco possono però influire alcuni fattori, che “ripagano” i laureati, almeno psicologicamente: anche se le università americane puntano sull’offerta di campus superattrezzati con mense fornitissime e alloggi esclusivi per attrarre studenti, non è questo che poi agli alumni rimane impresso. Anche se possono aver apprezzato quelle dotazioni esclusive, probabilmente avrebbero preferito spendere meno ma aver costruito relazioni più significative con chi, in ateneo, li avrebbe aiutati a dare forma al proprio futuro, docenti in primo luogo. Questo, almeno, afferma la ricerca Gallup.
È forse tempo, allora, di rinunciare a valutare degli atenei per mezzo di indicatori tradizionali, come la reputazione dell’istituzione o la spesa sostenuta per studente, e di cominciare invece a elaborarne di meno convenzionali per determinare il vero valore dell’istruzione. Il suggerimento è diretto alle agenzie per i ranking universitari, in una critica poco velata che ne denuncia le debolezze e la inattualità.
Chiara Mezzalira