CULTURA

Raccontare l’arte del Novecento a tutte le età. I primi 40 anni della Collezione Peggy Guggenheim

Sono passati quarant’anni da quando la casa di Peggy Guggenheim a Venezia si è trasformata in uno dei più importanti musei di arte moderna e contemporanea. Dopo la scomparsa dell’ultima dogaressa nel 1979, infatti, Palazzo Venier dei Leoni e la sua collezione di opere aprono al grande pubblico: negli anni il museo ha organizzato mostre di altissimo livello, ha promosso importanti attività culturali e didattiche e ha coinvolto attivamente giovani studenti d’arte e di storia dell’arte nella gestione e organizzazione. E forse è proprio questa la peculiarità dell’istituzione, oltre al suo inestimabile valore artistico: portare avanti una visione didattica, educativa e formativa.

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Già prima del 6 aprile 1980, data dell’inaugurazione del museo, Peggy apre le porte della sua dimora e quindi anche della collezione al pubblico, tre pomeriggi alla settimana della primavera all’autunno, dal 1951 fino alla sua scomparsa. Un gesto che preannuncia un approccio al collezionismo molto aperto, dedito alla condivisione delle opere e alla divulgazione dell’arte. Dopo la scomparsa della collezionista, la sfida è quella di trasformare un casa in un museo visitabile. Sono diversi i lavori di ristrutturazione e di adattamento che vengono fatti nel corso degli anni per rendere Palazzo Venier dei Leoni quello che conosciamo oggi. Dal 1980 al 1985 la collezione è aperta al pubblico solo nei mesi estivi, per sei giorni alla settimana, riuscendo così a sfruttare i mesi invernali per i lavori. Nel 1981 viene aperta la camera da letto e due anni dopo viene reso accessibile l’intero piano nobile, restaurando anche la barchessa e progettando il Giardino della Scultura, ideato dell’architetto Giorgio Bellavitis. Agli inizi degli anni Novanta, viene resa accessibile la terrazza sul tetto e nel 1995 apre il Museum Cafè, il primo ristorante all’interno di un museo in Italia.

Palazzo Venier dei Leoni è riuscito a trasformarsi negli anni in un museo completo e accessibile, non perdendo tuttavia la sua aurea mistica: sull’edificio, infatti, sono giunte a noi poche fonti. I Venier, una tra le famiglie più antiche di Venezia hanno commissionato la costruzione dell’edificio all’architetto Lorenzo Boschetti nel 1749. Per mancanza di soldi o per l’invidia tra le famiglie veneziane, il palazzo non viene completato, fermandosi solo al piano terra. I “Leoni” sono effettivamente presenti, scolpiti in pietra d’Istria e collocati a livello dell’acqua sulla facciata rivolta sul Canal Grande. A fine Ottocento il palazzo è di proprietà della famiglia Levi, nel 1924 della marchesa Luisa Casasti Amman e nel 1936 della viscontessa Doris Castelrosse che conferisce all’edificio la forma attuale. Infine, dodici anni dopo arriva Peggy Guggenheim, iniziando così la sua avventura veneziana.

Peggy Guggenheim Collection

Ci sono diversi aspetti che rendono questa realtà museale unica in Italia; in primis l’appartenenza a un network mondiale, la Fondazione Solomon R. Guggenheim che si prende cura di altre due realtà oltre a quella veneziana, il Solomon R. Guggenheim Museum di New York e il Guggenheim Museum di Bilbao, con una futura apertura ad Abu Dhabi. Nel 1970 Peggy dona il Palazzo alla fondazione e sei anni dopo la sua collezione di opere, a condizione di poter vivere lì e amministrare la raccolta fino alla sua morte, oltre alla promessa che le opere rimangano a Venezia. 

Poi c'è l'aspetto didattico e formativo che il museo offre: ne parliamo insieme a Elena Miranelli, responsabile del dipartimento educazione e formazione della Collezione. “La mission che portiamo avanti è condivisa da tutti i musei della Fondazione Guggenheim. Andando a vedere la storia di Peggy e lo sviluppo della sua raccolta di opere, possiamo affermare con certezza che l’idea di costruire una collezione che potesse avere un valore educativo fosse già nella mente della collezionista. Possiamo dirlo perché lei, come altre figure di collezionisti del Novecento, aveva un profondo intento a collezionare e a possedere le opere, affiancato da a uno spirito di mecenatismo espresso attraverso il supporto ai giovani artisti e al sostegno alle arti del suo tempo. Ma la dimostrazione che sicuramente indica maggiormente questo suo fortissimo interesse verso un approccio didattico alla collezione è banalmente il nome della sua seconda galleria, quella che lei apre a New York nel 1942 e che si intitola Art of this Century, l’arte di questo secolo".

"Peggy - continua Elena -, da quando inizia a collezionare, da quando entra nel giro delle avanguardie parigine, da quando conosce Duchamp in primis e poi tutti i suoi consiglieri, vuole collezionare le arti e le avanguardie rappresentative del suo tempo, come se ci fosse un intento “enciclopedico”. Il suo ruolo non è solamente quello di collezionista ma anche di donna che ha desiderato fortemente possedere i capolavori del Novecento per spiegare il secolo attraverso i movimenti artistici che si sono creati. Una delle particolarità della collezione di Peggy è che non è gigantesca: tuttavia è estremamente completa, variegata. Di ogni movimento, di ogni artista importante ha una o più opere rappresentative. Questo rende ovviamente il nostro lavoro all’interno del museo più facile perché lei stessa ha collezionato le opere pensando già a una panoramica dell’arte del Novecento".

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Elena ci spiega anche come la visione di un'opera possa cambiare in base all'età, prendendo a esempio uno dei capolavori più amati all'interno del museo, "L'impero delle luci" di René Magritte.

"Una delle opere più amate che abbiamo al museo è "L'impero delle luci" di Magritte, dove c’è un paesaggio verosimile, il cielo terso di girono sopra e la notte nella parte inferiore. Per un adulto, che quell’opera l’ha già vista, quando si trova davanti al capolavoro quello che ci sentiamo dire più spesso è “non sapevo che quest’opera fosse qui”, “incredibile”: piace molto perché è un’opera efficace, c’è questo trompe l'oeil, il perdersi dell’occhio all’interno del dipinto. I bambini invece non sanno nulla dell’opera, non l’hanno mai vista in una pubblicità, in un documentario o in un libro: loro vivono per la prima volta il gioco di Magritte del giorno e della notte.

E quando si accorgono di questa contrapposizione e del fatto che il loro occhio non si era reso conto della contraddizione vivono la sorpresa e l’entusiasmo. È proprio l’effetto che Magritte vuole comunicare attraverso l'opera, lo stupore e il gioco. Con loro questo funziona perché sono una tavola su cui lavorare in questo senso: recepiscono la sorpresa, il divertimento e il coinvolgimento dell’opera. L'arte moderna parla la loro lingua, forse perché loro sono più giovani e più inseriti con il nostro tempo di quanto lo siano le generazioni della metà o della fine del Novecento. Hanno una maggiore disponibilità a dare una possibilità a quello che hanno davanti, una maggiore apertura verso questo tipo di linguaggio".

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