SCIENZA E RICERCA

Addio ai ghiacci: il rapporto dall'Artico di Peter Wadhams

Peter Wadhams ha diretto lo Scott Polar Research Institute di Cambridge dal 1987 al 1992 ed è stato a capo del Polar Oceans Physics Group del dipartimento di matematica applicata e fisica teorica dell'università di Cambridge, dove è stato docente di fisica degli oceani dal 1992 al 2015. Ha condotto più di 50 spedizioni polari di ricerca, 6 in sottomarino al Polo Nord. Nella sua carriera ha ottenuto numerosi finanziamenti e riconoscimenti, tra cui la Medaglia Polare dalla Regina Elisabetta II. Oggi ha ricevuto un incarico di docenza all'università politecnica delle Marche ad Ancona.

È nella regione polare che il cambiamento climatico sta agendo in modo più rapido e drastico. Peter Wadhams fa parte di quella cerchia di ricercatori che per primi si fecero profeti inascoltati dello scioglimento dei ghiacci polari. Per più di 10 anni, a bordo di sottomarini nucleari dal 1976 al 1987 raccolse i dati che divennero una pubblicazione su Nature nel 1990. In quel brevissimo arco di tempo Wadhams notò un assottigliamento dello strato di ghiacci a nord della Groenlandia del 15%. A fine secolo, nel 1999, quella percentuale aveva superato il 40% rispetto agli anni Settanta.

La passione per gli oceani polari la sviluppò a bordo del Hudson, la nave oceanografica canadese che per la prima volta nel 1970 effettuò la circumnavigazione delle Americhe. Allora la rotta a Nord del Canada era impervia, ostile e coperta da uno spesso strato di ghiaccio. La nave aveva una carena rinforzata, ma nonostante questo dovette chiedere l'intervento di un rompighiaccio del governo canadese; solo 9 imbarcazioni prima dell'Hudson avevano compiuto quell'impresa, molte avevano fallito. Oggi il Passaggio a Nord Ovest è una rotta commerciale comune: a fine 2016, 255 navi lo avevano attraversato. Lo scioglimento dei ghiacci è aumentato drammaticamente negli ultimi 30 anni. Nel 2012 il ghiaccio marino ricopriva 3,4 milioni di km2 di Oceano Artico, negli anni Settanta erano 8 i milioni di km2 ricoperti di ghiaccio.

Peter Wadhams, autore di "Addio ai ghiacci - rapporto dall'Artico", alla presentazione del suo libro finalista del Premio Galileo

Il ritiro dei ghiacci pluriennali dell'Artico porta alla loro temporanea sostituzione con il ghiaccio stagionale che si forma ogni anno (ghiaccio del primo anno). Quest'ultimo però raggiunge uno spessore massimo di 1,5 metri e nel corso di una singola estate può arrivare a sciogliersi completamente. Negli ultimi anni lo scioglimento del ghiaccio estivo è stato maggiore della sua crescita invernale e nel giro di qualche decennio saremo testimoni di un settembre libero da ghiacci artici. Poi quel periodo si allungherà fino a quattro o cinque mesi. Il climatologo statunitense Mark Serreze l'ha chiamata la “spirale della morte dell'Artico”.

Sono almeno due le principali conseguenze del ritiro dei ghiacci artici. Una è la diminuzione dell'albedo (quella parte di radiazione solare proveniente dallo spazio che viene riflessa indietro) e dunque un aumento della temperatura globale, in un ordine di grandezza equivalente alle conseguenze degli ultimi 25 anni di emissioni di anidride carbonica. Un'altra è la fine di un importantissimo servizio ecosistemico, ovvero l'effetto di condizionamento dell'aria: le masse di aria calda entrando a contatto coi ghiacci cedono calore e mantengono la temperatura della superficie dell'acqua entro gli 0 gradi. Senza il ghiaccio, la superficie dell'acqua arriva a scaldarsi fino a 7 gradi, trasferisce il calore agli strati sottostanti arrivando a causare in mare aperto anche lo scioglimento del permafrost, ovvero quei sedimenti congelati dei fondali marini, rimasti indisturbati dall'ultima era glaciale. Questo evento rilascerà enormi quantità di metano, un gas serra con un effetto di riscaldamento, per singola molecola, 23 volte maggiore dell'anidride carbonica, che resta ancora il gas climalterante a maggiore impatto.

Guardando indietro alla storia della Terra, il tasso di crescita di anidride carbonica nell'atmosfera oggi è più elevato di quanto non sia mai stato, superiore persino a quello causato dall'impatto dell'asteroide che contribuì a estinguere i dinosauri. Gli esseri umani stanno portando avanti un esperimento globale inedito che comporta interferenze con il sistema naturale senza precedenti.

Il libro di Peter Wadhams (Addio ai ghiacci – Rapporto dall'artico, Bollati Boringhieri, Torino, 2017, tradotto da Maria Pia Casarini, moglie di Peter Wadhams) raccoglie in poco più di 250 pagine, una mole di dati e spiegazioni scientifiche che offrono al lettore non solo una chiara comprensione di fenomeni fisici altrimenti poco accessibili (è sorprendente scoprire tutti i possibili comportamenti di una molecola così semplice e cruciale come l'acqua), ma anche una visione prospettica della Terra e dell'umanità negli anni a venire, che si preannunciano duri e fitti di sfide.

Il libro ripercorre anche una breve storia del ghiaccio sulla Terra e con essa una breve storia del clima. Negli ultimi 2 miliardi di anni il clima della Terra è cambiato lentamente, conoscendo lunghe fasi calde o lunghe fasi fredde, compresi alcuni periodi (due o tre secondo le attuali ipotesi) noti come “Terra a palla di neve” (snowball Earth) in cui tutta la superficie terrestre è stata ricoperta da uno strato di ghiaccio. Quello che non era mai successo era un rapido alternarsi di fasi calde e fredde in poche decine di migliaia di anni. Negli ultimi 6 milioni di anni la temperatura media della Terra è stata sufficientemente bassa da far sì che piccoli sbalzi di temperatura (dovuti alle oscillazioni del moto terrestre note come cicli di Milankovic) facessero entrare ed uscire il clima globale da quelle ere glaciali che hanno caratterizzato l'ambiente evolutivo umano. L'ultima si è conclusa circa 12.000 anni fa alle soglie del Neolitico, permettendo la rivoluzione dell'agricoltura. A partire da 8000 anni fa, dopo aver raggiunto un picco caldo, il clima è rimasto stabile con una lenta discesa verso un raffreddamento delle temperature (con la breve eccezione del cosiddetto “periodo caldo medievale”, seguito da una “piccola era glaciale”). È stata questa stabilità interglaciale a permettere a Homo sapiens di sviluppare l'agricoltura, le città, l'architettura, il denaro, il commercio, la matematica, la filosofia, gli eserciti e le scienze (l'arte e la musica probabilmente ci accompagnavano già da un po'). La stabilità termica è durata fino alla metà del 1800, quando le temperature hanno iniziato a impennarsi, disegnando quel grafico a “mazza da hockey” in cui il manico raffigura il periodo di lento raffreddamento, e la paletta il rapido riscaldamento.

Secondo alcuni scienziati la quantità di CO2 e altri gas che stiamo rilasciando in atmosfera sarà sufficiente a interrompere la discesa verso la prossima era glaciale, prevista tra 23.000 anni, ritardandola di circa mezzo milione di anni. Se non realizzeremo gli obiettivi internazionali, nel 2100 torneremo a livelli di temperatura superiori di 2-4 °C a quelli attuali e pari a quelli del Pliocene, l'era geologica conclusasi 2,6 milioni di anni fa quando i primi esemplari del genere Homo facevano capolino nella savana africana.

Secondo Peter Wadhams le stime contenute nell'ultimo rapporto dell'Ipcc (Intergovernmental panel on climate change) sono ancora troppo ottimistiche: i feedback climatici porteranno ad un'accelerazione delle conseguenze del cambiamento climatico. L'innalzamento del livello dei mari colpirà tutte quelle città e quei Paesi costieri, come il Bangledesh: quasi 20 milioni di persone che oggi vivono sulla costa dell'Oceano Indiano presto dovranno migrare e venire assorbite dagli stati limitrofi.

Le previsioni demografiche ci dicono che la popolazione umana salirà a 10 miliardi nella seconda metà del secolo, aumenterà il fabbisogno alimentare mentre il riscaldamento globale porterà a una riduzione delle aree coltivabili e delle risorse idriche disponibili; aumenterà il fabbisogno energetico, ma si ridurranno le materie prime. Ognuno potrà fare qualcosa nel suo piccolo, come riciclare i rifiuti, isolare le case, usare la bicicletta, mangiare meno carne, certo. Ma come ha detto l'ex consulente scientifico del governo britannico Sir David McKay “se ognuno fa un poco, realizzeremo solo un poco”. Occorrono invece decisioni “dall'alto” da parte delle classi politiche che rivedano la produzione energetica ed economica in direzione di un modello di sviluppo sostenibile. Peter Wadhams conclude il suo libro con una vera e propria chiamata alle armi: “abbiamo bisogno di un Progetto Manhattan per ripulire l'atmosfera”. L'autore esorta non solo a ridurre le emissioni ma anche a sviluppare nuove tecnologie che consentano di togliere l'eccesso di anidride carbonica già presente nell'aria. Una molecola di CO2 ha una durata di vita nel sistema climatico superiore ai 100 anni e oggi la quantità di CO2 già presente nell'aria deve ancora rilasciare il suo pieno potenziale di riscaldamento, forse solo la metà è stato liberato finora. Il livello attuale è di una media di 409 parti per milione (ppm), quando il livello “naturale” si assesta intorno alle 280 ppm. Gli scienziati ritengono che un valore soglia sicuro sia 350 ppm, ma per raggiungerlo, togliendo ogni anno l'1% di anidride carbonica dall'atmosfera, occorrerebbero 45 anni. E nonostante i buoni propositi e una rinnovata coscienza collettiva, navighiamo ancora in mare aperto, per di più ricoperto di plastica.

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