Siamo ormai tristemente abituati al bollettino quotidiano di guerra: gli effetti devastanti del COVID-19 sono sotto gli occhi di tutti. Degli aspetti sanitari si parla, comprensibilmente, da quasi due mesi, mentre solo di recente sono state sviluppate riflessioni sulle ripercussioni economiche e sociali della crisi. Recentemente sono però apparsi alcuni segnali meno tragici: nelle parole di Maria Castiglioni e Gianpiero della Zuanna forse stiamo vedendo ‘la luce fuori dal tunnel’. È quindi opportuno avviare una riflessione su ciò che possiamo imparare dall’emergenza: in particolare, è necessario che la solidarietà contingente di cui l’Italia intera sta dando prova in questi giorni (e non solo a parole) si traduca in politiche pubbliche efficaci che incentivino meccanismi strutturali di solidarietà e giustizia sociale.
In primo luogo, si pone una questione di mantenimento del reddito per quelle lavoratrici e lavoratori penalizzati dall’emergenza sanitaria. Su questo punto si deve essere particolarmente chiari: l’economia italiana archivierà il tragico primo trimestre 2020 solo se il potere d’acquisto aggregato non verrà radicalmente eroso. Per evitare tale erosione, è necessario un reddito di resistenza (o di emergenza, o di quarantena – come è stato variamente evocato) che copra almeno lo stato di emergenza dichiarato il 31 gennaio 2020 (e cioè fino al 31 luglio), con meccanismi di allocazione delle risorse che siano certi e chiari. Evitando, ad esempio, la confusione del 1° aprile, determinata da una procedura difettosa dell’INPS con riferimento al bonus di 600 euro da assegnare ai cinque milioni circa di titolari di partita IVA. Tuttavia, il reddito cessante non è solo un problema dei titolari di partita IVA ma anche di tante lavoratrici e tanti lavoratori precari, con diversi tipi di contratti, e dei lavoratori irregolari. Stimando una platea complessiva di possibili beneficiari pari a circa 9 milioni di persone, per garantire un reddito di resistenza di 600 euro al mese fino al 31 luglio servono circa 24 miliardi di euro. Risorse consistenti, ma che rappresentano poco più del’1,3% del PIL italiano: in parte già stanziate, in parte ancora da stanziare. Subito.
“ Per garantire un reddito di resistenza fino al 31 luglio servono circa 24 miliardi di euro. Poco più del’1,3% del PIL italiano
Il secondo luogo, va ripensato il governo e il finanziamento dello Stato sociale italiano – in particolare nell’ambito sanitario. Si tratta di una questione che richiede una riflessione approfondita, ma che deve partire dal presupposto della necessità di garantire risposte rapide ed efficaci in un contesto multilivello di governo della sanità: il caso italiano. È inaccettabile che – in situazioni estreme – vi siano contrasti istituzionali (e difficoltà di coordinamento) come è accaduto in alcuni frangenti dell’emergenza COVID-19. Così come è inaccettabile che l’Italia non sia allineata a paesi come la Germania in termini – ad esempio – di posti letto per i cosiddetti casi acuti. La scarsa capacità ricettiva dei presidi ospedalieri italiani – evidenziata con grande chiarezza da Emmanuele Pavolini in una recente nota pubblicata dall’Osservatorio per la Coesione e l’Inclusione Sociale – non dipende tanto da una contrazione della spesa per le politiche sanitarie, quanto da un mancato adeguamento negli ultimi venti anni a fronte dell’incremento dell’aspettativa di vita della popolazione italiana. Una popolazione sempre più anziana, e sempre più bisognosa di cure – come è drammaticamente emerso nel corso dell’attuale emergenza sanitaria. È indispensabile, pertanto, che l’Italia si doti quanto prima di meccanismi di raccordo istituzionale multilivello e recuperi le posizioni perdute in termini di spesa sanitaria.
Infine, e per raggiungere entrambi gli obiettivi sopra menzionati, è indispensabile riscrivere quel patto sociale che va sotto il nome di politica fiscale. Indipendentemente da ciò che accadrà a livello comunitario (che, per ora, non pare molto promettente), è necessario ripensare ai meccanismi di finanziamento dello stato sociale – l’istituzionalizzazione della solidarietà. Come è noto, prima dell’emergenza sanitaria il governo stava finalmente avviando una riflessione strutturata sul tema, ipotizzando una legge delega da presentare entro il mese di aprile. Obiettivo passato in secondo piano a causa dell’emergenza. Adesso tuttavia è arrivato il momento di approfondire progetti coraggiosi di riforma fiscale: ciò consentirebbe di trasformare l’emergenza in un’occasione per a) insistere maggiormente su principi di equità e uguaglianza; b) considerare seriamente una profonda revisione delle aliquote fiscali; c) ridisegnare l’impianto fiscale, rendendolo più equo e sostenibile. In altri termini, il principio costituzionale della progressività delle imposte deve essere interpretato in maniera ancora più efficace, attraverso una strategia politica volta al superamento dell’ingiustizia sociale e al contenimento della disuguaglianza. A ciò si collega il tema dell’evasione e dell’elusione fiscale, su cui è sempre più urgente intervenire in modo strutturale: come ricorda la Commissione per la redazione della Relazione sull’economia non osservata e sull’evasione fiscale e contributiva, oltre 110 miliardi di euro (6% del PIL) vengono sottratti annualmente alla collettività. Importo pari al quadruplo circa di ciò che serve per l’istituzione del reddito di resistenza. E in attesa di adottare un’efficace politica di contrasto all’evasione fiscale, si potrebbe pensare ad un contributo straordinario di solidarietà costruito su un impianto fortemente progressivo.
Solo con queste politiche pubbliche l’Italia si risolleverà e diventerà davvero più forte, e cioè più equa e più giusta.
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