Negli ultimi giorni un fiume di fango e acqua ha travolto il sito archeologico di Petra, in Giordania, senza contare le altre aree interessate. Una settimana prima, dalla Sicilia al Veneto, frane e alluvioni hanno colpito anche il nostro Paese. A metà ottobre è toccato alla Francia meridionale investita da piogge torrenziali. Per quanto riguarda l’Italia, in particolare, stando all’ultimo rapporto dell’Istituto per la protezione e la ricerca ambientale, il 91% dei comuni italiani è a rischio idrogeologico e oltre 3 milioni di famiglie risiedono in aree ad alta vulnerabilità (dati del 2017). Il 10% della popolazione vive in zone a rischio alluvione e la superficie potenzialmente allagabile è aumentata rispetto al 2015.
Di questa situazione abbiamo parlato con Nicola Surian, docente del dipartimento di Geoscienze dell’università di Padova, che da tempo si occupa di eventi alluvionali con altri colleghi del dipartimento Territorio e sistemi agro-forestali dell’università di Padova, del Consiglio nazionale delle ricerche - sede di Padova e dell’università di Bolzano.
Quando si parla di alluvioni si guarda solitamente all’eccessiva urbanizzazione, a errori di pianificazione urbana, ai cambiamenti climatici. Quanto incidono concretamente tutti questi questi aspetti sul problema?
Partirei innanzitutto da un presupposto e cioè che le alluvioni sono un evento naturale. Spesso invece lo dimentichiamo e imputiamo le cause a fenomeni che possono aumentare il rischio di alluvioni o l’intensità del fenomeno, ma che in realtà non ne sono all’origine, come è il caso di un certo tipo di urbanizzazione. Certo, quando si costruisce troppo vicino al corso d’acqua o in porzioni ad esso limitrofe, può accadere che durante eventi meteorologici particolarmente intensi il fiume vada a occupare aree che normalmente non sono interessate dal corso d’acqua stesso. Un altro aspetto da considerare è certamente il cambiamento climatico. Chi si occupa di pianificazione urbana e mitigazione del rischio lo sa bene e deve tener conto di una maggiore frequenza e intensità di determinati fenomeni meteorologici negli ultimi anni. Si pensi a quanto è accaduto nel bellunese. Qui abbiamo assistito ad un’accoppiata molto critica di piogge prolungate e vento. Il vento, in particolare, è stato un fenomeno assolutamente fuori dalla norma per intensità, al punto che penso non siano mai state registrate velocità del genere.
Nicola Surian illustra gli studi sulle dinamiche d’alveo condotti dall’università di Padova, in collaborazione con Irpi Cnr e università di Bolzano. Riprese e montaggio di Elisa Speronello
In Italia, il Veneto è stata una delle regioni più colpite dal maltempo, ora come si riprende? Che azioni devono essere intraprese, ad esempio, in zone come il bellunese?
Sarà necessario intervenire su due scale temporali differenti. Alcuni interventi andranno necessariamente previsti dalle autorità competenti nel breve periodo, vista la necessità di risolvere le situazioni più critiche. Penso alla viabilità, ad esempio. Poi però si dovrà pianificare con oculatezza come intervenire soprattutto in determinate zone del bellunese che sono state particolarmente segnate dagli eventi meteo delle ultime settimane. In Veneto, dopo il 1966, non abbiamo più avuto eventi particolarmente gravosi a differenza di altre regioni come il Piemonte e la Liguria. Quanto è accaduto recentemente può darci l’occasione per capire se esistono modalità di gestione dei bacini idrografici, dei corsi d’acqua diverse rispetto a quelle utilizzate in passato. Può essere anche un’opportunità per ripensare alcuni modi di gestire i corsi d’acqua.
Esistono strumenti o azioni per prevenire o mitigare il rischio di alluvione?
Ne esistono molti. Quando si parla di mitigazione del rischio è importante usare approcci diversi per le diverse porzioni del corso d’acqua, di un bacino idrografico. Un corso d’acqua va considerato come un “elemento unico”, ma anche un sistema composto da diverse parti tra loro connesse: ciò che avviene in montagna in caso di pioggia ha ripercussioni in pianura in termini di deflusso e di portata dei corsi d’acqua. Nei fiumi di pianura i rischi sono legati alle esondazioni, cioè alla fuoriuscita dell’acqua dall’alveo. In montagna, invece, questo non è il fenomeno più rilevante. I problemi derivano piuttosto dalla dinamica dell’alveo, cioè dal fatto che durante un evento importante l’alveo di un corso d’acqua può modificare in modo significativo la sua geometria, erodere molto le sponde e allargarsi in modo consistente. Negli ultimi anni abbiamo condotto studi in alta Toscana, in Sardegna e nel piacentino e abbiamo avuto modo di vedere che l’alveo di un fiume può allargarsi anche di dieci volte in seguito a eventi meteorologici importanti, rimodellando il fondovalle su cui scorre. Per questo è necessario pensare a interventi di mitigazione del rischio differenti a seconda del tratto di fiume che si considera.
Erosione delle sponde di un fiume in Friuli. Foto di Nicola Surian
Chi deve farsi carico di queste azioni?
I ruoli nel contesto italiano sono abbastanza ben definiti. Per ogni distretto idrografico (otto in Italia Ndr) esiste un ente deputato alla definizione dei piani di gestione dei bacini idrografici, sia in termini di uso della risorsa idrica che di identificazione del rischio. Sulla base dei piani di gestione, le Regioni e i Geni civili mettono in atto gli interventi. L’importante è che esista una buona comunicazione tra le diverse istituzioni e non ultimo con il settore della ricerca. A livello europeo esistono due direttive estremamente importanti. La prima è la direttiva quadro sulle acque (2000/60/CE), che si riferisce in modo particolare alla qualità dei corsi d’acqua, all’aspetto più ecologico e ambientale; la seconda è la direttiva alluvioni.
Quest’ultima, in particolare, prevede piani di gestione del rischio di alluvioni che dovrebbero essere incentrati sulla prevenzione, sulla protezione e sulla preparazione. La normativa specifica che “tali piani dovrebbero comprendere, ove possibile, il mantenimento e/o il ripristino delle pianure alluvionali, nonché misure volte a prevenire e a ridurre i danni alla salute umana, all’ambiente, al patrimonio culturale e all’attività economica. Gli elementi dei piani di gestione del rischio di alluvioni dovrebbero essere riesaminati periodicamente e, se necessario, aggiornati, tenendo conto delle probabili ripercussioni dei cambiamenti climatici sul verificarsi delle alluvioni”.
Se gli strumenti di intervento esistono e ruoli e competenze sono ben definiti, non potrebbero essere evitati certi disastri?
In parte sì e in parte no. Si potrebbero evitare ad esempio situazioni di rischio che derivano da una errata pianificazione urbanistica. Inoltre, gli strumenti di previsione che possediamo possono essere senza dubbio affinati: la dinamica d’alveo ad esempio non è ancora opportunamente considerata nella pianificazione e gestione del rischio. Il nostro gruppo di ricerca sta lavorando proprio in questa direzione, per poter definire le zone da tutelare e salvaguardare maggiormente in previsione di possibili eventi estremi.
Quando questi accadono, tuttavia, non possiamo annullarne gli effetti che possono avere su un territorio molto antropizzato. Si deve sicuramente lavorare per mitigare il rischio, ma il rischio zero non esiste e con il rischio bisogna anche saper convivere.