CULTURA

Animazione e divulgazione scientifica: convenzioni e tattiche per raffigurare l'invisibile

Buchi neri, atomi, fenomeni atmosferici. L’animazione può mostrarci l’invisibile? Il troppo grande, troppo piccolo, quel che è troppo lontano nello spazio e nel tempo. Questa nostra indagine inizia dal vento, o meglio, da un progetto animato sul vento, scritto e diretto da Adriaan Lokman, premio speciale della giuria nella sezione Venice immersive all'80esima Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia. Un piccolo gioiello passato per il festival del Lido, una esperienza immersiva che offre una nuova prospettiva sulla realtà. Si intitola Flow, dura quindici minuti, ed è un inno alla resa di fronte alla forza invisibile della natura, un’opera in cui - come spiega il regista stesso - viene invertito l’ordine delle cose per permettere al vento di condurre le danze. I giochi d'aria creano un universo alternativo che svela e poi nasconde i movimenti notturni di una donna. Abbandonando l’idea di renderlo il più possibile familiare o simile a noi, tra correnti, vortici, sussurri, scosse, il vento diventa visibile in un modo originale, efficace, convincente. Insieme ad altre prove d’animazione capaci di dialogare con il mondo naturale e tradurre in immagini il tema ecologico contribuendo, attraverso interessanti soluzioni, alla divulgazione della scienza, il corto di Lokman è al centro degli studi di Marco Bellano, assegnista di ricerca Marie Skłodowska-Curie Global, che abbiamo intervistato proprio sull’argomento: con lui abbiamo parlato di animazione per la divulgazione scientifica.

Una premessa: l'animazione non è solo cinema, lo vedremo. Il territorio di indagine è più vasto, ma noi siamo abituati a credere che esista quello di cui abbiamo fatto esperienza. "C'è il cartone animato, ma non è solo questa l'animazione. Pensiamo ai videogiochi, alla realtà aumentata e virtuale, persino alle interfacce dei nostri smartphone, e ancora alla usefull animation, l'animazione utile, oggi una delle frontiere di questo tipo di ricerca - precisa Bellano -. Esiste una animazione che noi utilizziamo in ogni momento della vita ma che non riconosciamo come tale".

Mi sono concentrato sugli aspetti scientifici che hanno maggiormente bisogno di animazione, chiamandoli intuitivamente 'invisibili', la scienza invisibile Marco Bellano

“Flow” ha vinto il premio speciale della giuria nella sezione Venice immersive all'80esima Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia

La tradizione si rinnova attraverso un uso strategico dell'animazione per raggiungere il grande pubblico Marco Bellano

Dal 2014 Bellano è docente di Storia dell'animazione all'Università di Padova, "un insegnamento inaugurato proprio quell'anno - spiega -, che mi ha permesso di fare ulteriore ricerca. Prima mi occupavo di musica per film. Quando ho avuto l'occasione di partecipare al progetto europeo mi sono chiesto quale potesse essere un argomento in cui l'animazione riuscisse a dare un contributo alla comprensione del mondo di oggi. Di più, non solo capirlo ma anche, se possibile, affrontarlo: risulta infatti sempre più difficile distinguere quello che è vero da quello che può essere manipolato, anche nella divulgazione scientifica esiste un problema di questo tipo. La divulgazione della scienza ha avuto subito bisogno dell'animazione, già nel primo decennio del Novecento, riprendendo una tradizione di illustrazione scientifica che già esisteva. Riflettendoci, e leggendo ricerche già pubblicate, mi sono reso conto che spesso si riscontrano difficoltà nel distinguere chiaramente ciò che è vero da quel che è falso, proprio a causa dell'animazione".

Possiamo fare qualche esempio?

"Pensiamo all'atomo, cosa ci viene in mente? Un'immagine animata o una illustrazione dinamica, in movimento: un gruppo di palline centrale, il nucleo, e altre che ruotano attorno a traiettorie che sembrano orbite, spesso disegnate. Si tratta di un aspetto visivo talmente sedimentato da essere diventato anche un emoji nei nostri smartphone. L’icona ci ha portati a credere che l'atomo sia fatto così, ma non è vero. Le sferette che pensiamo reali non sono il risultato di una fotografia in luce visibile, come quella che potremmo fare a un paesaggio. Immagini di atomi sono state realizzate con mezzi di indagine diretta sulla base di dati e frequenze: quel che vediamo sono punti luminosi ma non quel disegno".

Tuttavia non possiamo parlare di inganno.

"La divulgazione scientifica agisce in buona fede con un intento conoscitivo, non diffonde certamente fake news, ma esiste un compromesso che permette di parlare di scienza anche al grande pubblico. Coordinandomi con il professor Alessandro Faccioli del dipartimento dei Beni culturali, mi sono concentrato sugli aspetti scientifici che hanno maggiormente bisogno di animazione, chiamandoli intuitivamente 'invisibili', la scienza invisibile. Il progetto ha assunto il nome FICTA SciO, in latino Conosco cose artefatte: sembra una cosa negativa ma in realtà dietro l'acronimo c'è un titolo in inglese che spiega la sostanza e gli obiettivi: Figuring the Invisible: Conventions and Tactics in Animation for Science Outreach, ovvero Raffigurare l'invisibile: convenzioni e tattiche dell'animazione per la divulgazione scientifica. Per capirci: c'è qualcosa di convenzionale, c’è una tradizione con cui dobbiamo fare i conti - per l'atomo o per i buchi neri -, ma esistono anche diverse tattiche, perché la tradizione si rinnova attraverso un uso strategico dell'animazione per raggiungere il grande pubblico, e questo a volte entra nel territorio dell'intrattenimento, il cosiddetto edutainment. Rigore, dunque, ma anche strategie della comunicazione per arrivare a chi non ha gli strumenti conoscitivi per comprendere tutti i dettagli". 

Concentriamoci sulla raffigurazione dei buchi neri.

"Il termine stesso ci parla della comunicazione della scienza in maniera bellissima: è diventato popolare tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso e ha una forte componente visiva. In realtà, quello a cui si riferisce, non ha niente a che fare con un buco e nemmeno con il colore nero. Si tratta di qualcosa di molto più complesso. A coniare l’espressione buco nero è stato il fisico John Archibald Wheeler, genio della sintesi verbale per comunicare la scienza. Nella serie degli anni Settanta Doctor Who il buco nero era rappresentato come una macchia nello spazio, qualcosa di ingenuo ma funzionale per l'epoca. Poi è arrivata la rivoluzione del cinema di fantascienza, a partire da Star Wars, e alla fine degli anni Settanta ecco The Black Hole che rappresentava il buco nero in due modi, partendo da modelli che gli scienziati stavano già utilizzando: il pozzo - nei titoli di testa, che sono il primo caso di animazione digitale di una certa durata - e il gorgo, il vortice, nel film vero e proprio. Questa seconda soluzione riscuoterà un enorme successo fino a diventare una convenzione. Se non riesco a immaginare un buco nero, posso riuscirci pensando a un gorgo dall'attrazione inesorabile, il cosiddetto maelstrom, il vortice marino che trascina giù le navi, di cui parlava già Edgar Allan Poe. Con l'immaginazione letteraria, sedimentata nei decenni, il buco nero trova una sua identità visiva che poi viene replicata in documentari, film, serie tv. Interessante è il caso di Interstellar, film di Christopher Nolan del 2014, in cui l'iconografia del buco nero cambia: qui la visualizzazione è curata dall'astrofisico Kip Thorne, Premio Nobel tre anni più tardi, nel 2017. Si tratta di cinema di finzione che, dal punto di vista scientifico, dichiara di voler mostrare la verità dei buchi neri e propone una sfera nera con una serie di distorsioni ottiche spettacolari. Qual è l'aspetto curioso di questa storia? A distanza di tempo dall’uscita al cinema Thorne pubblica un libro, La scienza di Interstellar, in cui precisa che la rappresentazione del buco nero del film è plausibile ma poco probabile: Thorne spiega le scelte fatte soprattutto per riuscire a essere comprensibile visivamente al pubblico e gestibile per il regista che attorno a quel buco nero faceva muovere i suoi personaggi, ma sappiamo bene che un buco nero non lascerebbe scampo. Interstellar resta cinema di intrattenimento ma con un dichiarato proposito di divulgazione".

Dal cinema di finzione ai documentari, nel secondo caso convenzioni e tattiche dovrebbero essere più rigorose, o sbaglio?

"I documentari sono cambiati dopo il film di Nolan e quando ora troviamo l'animazione di un buco nero ci accorgiamo che è quello di Interstellar. Manca ancora un ‘libretto di istruzioni’. Per non perdere il pubblico, l'immagine viene data per scontata. Il documentario mette in gioco l'indessicalità, la qualità di una immagine documentaristica nella quale noi scorgiamo la verità. Nella mia ricerca mi occupo proprio di documentari, perché è lì che sta il problema. Il fotorealismo è sempre più diffuso, è un tipo di estetica che ci invita ad assumere un atteggiamento di fiducia e crea indessicalità. Ma se non utilizzo il fotorealismo e per esempio scelgo di stilizzare, attraverso degli schemi, il pubblico non entrerà in quella trappola. Lo fa bene Black Holes - The Edge of All We Know, un documentario su Netflix in cui volutamente si rinuncia al fotorealismo, non vi è alcun vortice, né la sfera nera di Interstellar: ci sono schemi e raffigurazioni estremamente stilizzati ed eleganti. In questo modo il pubblico non entra nel trabocchetto, perché non sta vedendo qualcosa che sostituisce la realtà. Quindi, la stessa animazione che può indurre a errori di valutazione ha invece uno strumento potentissimo per correggere la rotta. Questo aiuta nel caso di un singolo documentario, ma non basta: le convenzioni rimangono e le strategie della comunicazione scientifica hanno bisogno anche di aspetti di intrattenimento fotorealistico. In questo senso, con il mio progetto, vorrei realizzare un sito internet nel qualche mettere a disposizione un repertorio di schede di prodotti audiovisivi e multimediali, dai documentari ai videogiochi, in cui fornire una spiegazione del problema specifico". 

È l’atteso libretto di istruzioni?

"È il primo passo, un primo livello. Poi, attraverso l'open access, vorrei rendere disponibili link ad articoli, libri, approfondimenti di qualità per saperne sempre di più su convenzioni e tattiche adottate, ma anche per poter approfondire dal punto di vista scientifico arrivando direttamente alle fonti".

A proposito di trappole, in questo processo quanto è importante evitare l'antropomorfismo e perché?

"La questione è complessa e si spinge fino alla studio del tema ecologico nell'animazione - che si sta sviluppando proprio a Padova con la professoressa Rosamaria Salvatore, la quale ha avuto un'intuizione e ha colto un orientamento di ricerca internazionale, avviato già agli inizi degli anni Duemila, a partire dall'ecocritica applicata all'analisi e alla comprensione dei film. L'antropomorfismo lo vediamo ovunque, anche nel racconto dell'ecologia: quando si deve trattare un problema, come l'estinzione delle specie o l'inquinamento, spesso si mettono in gioco creature o elementi del paesaggio raccontandoli come se fossero umani, assegnando loro le nostre sensazioni ed esigenze. Questo è fuorviante".

Quanto ha influito Disney in tutto questo?

"Disney ha creato un'estetica fondata sull'antropomorfismo: questo ha un senso e un meritato successo perché intercetta bisogni di identificazione che hanno alimentato una tradizione spettacolare rivoluzionaria. Non bisogna demonizzare Disney ma esiste il rovescio della medaglia perché, in questo modo, è stato creato uno standard che ha travalicato i confini del cinema di intrattenimento e in Occidente si è iniziato a considerare animazione di qualità quella 'alla Disney'. Un esempio, in uno dei primi film Disney degli anni Cinquanta ci viene presentato l'atomo con un corpo, braccia, gambe e il cappello da universitario".

Nell'antropomorfismo tutto è copia di noi, ci assomiglia. Abbattere quest'idea è una sfida. Quali progetti sono riusciti a superare questo limite, quali le prove più convincenti?

"Nel mio intervento al convegno Sguardi Verdi, organizzato proprio partendo dal progetto della professoressa Salvatore, ho considerato una serie di cortometraggi contemporanei che dal mio punto di vista, rispetto al tema ecologico, riescono a proporre una dimensione più dialettica, meno manichea, superando cioè lo schema, ragionevole ma limitato, che vuole l'uomo come il male, perché inquina, e l'ambiente come il paradiso terrestre. Il cortometraggio Muedra di Cesar Díaz Meléndez è animato con la claymation, l'animazione della plastilina: realizzato nel 2019, è ambientato nella località di La Muedra, dove il paesaggio è stato modificato a causa di un intervento dell'uomo, ovvero la costruzione di un bacino idroelettrico che ha completamente sommerso un villaggio. Dal punto di vista naturalistico vi è dunque qualcosa di nuovo. Il corto non si sofferma però su questo: mostra un paesaggio di terra e acqua da cui emerge una strana creatura che inizia a vivere, uno strano animale che comincia a viaggiare e trasformarsi con un movimento fluido. Alla fine muore perché il sole secca la plastilina, ma altri come lui nasceranno, mettendo in atto un ciclo di vita continuo.

Perché questo corto risulta interessante?

“Perché ragiona sul concetto di metamorfosi, e di più, mutazione e adattamento. Inoltre si concentra sul rapporto tra umano e non umano, mostrandone l’ibridazione. Oggi, nel contesto dell'ecocritica, per superare la dicotomia tra noi e l'altro e per cercare di approfondire cosa sia davvero questo ‘altro’, si parla molto di post human studies. In questo senso Muedra cerca di osservare qualcosa di non facilmente identificabile: qualcosa che è 'altro' e che, al tempo stesso, siamo noi. Alla lista dei lavori interessanti aggiungo Machini dei registi africani Frank Mukunday e Tétshim, che racconta la storia di un villaggio in Africa dove viene installata una fabbrica che inquina e uccide le persone. Sembra un film stereotipato, con i buoni e i cattivi, ma a risultare interessante qui è proprio la rappresentazione: il paesaggio è disegnato con i gessetti su una lavagna nera, davanti ci sono gli esseri umani animati con piccole pietre, uomini costruiti con elementi del paesaggio in maniera estremamente fragile, perché i sassolini non sono incollati tra di loro ma solo appoggiati uno sull'altro. L'invenzione finale mostra la morte che si diffonde come fumo disegnato sulla lavagna: appena i sassolini vengono toccati si sgretolano, perdono la forma umana e diventano mucchietti di pietre. Anche qui c’è una riflessione su umano/non umano e sulla questione dell'antropomorfismo: il film ci mostra come l'antropomorfismo sia qualcosa di fragile e fittizio, una costruzione mentale, di fatto la realtà antropomorfa, a misura d'uomo, non esiste”.

Concludiamo con il recente Flow, da cui siamo partiti. Possiamo inserirlo tra le migliori prove che affrontano il tema ecologico.

Flow è un ottimo esempio, è un cortometraggio davvero interessante perché il regista Adriaan Lokman trova una soluzione molto efficace per rappresentare il vento: sfruttando il digitale, utilizza la grafica, presentando il fenomeno atmosferico come una linea".

Nessuna possibilità dunque di cadere in trappola, il vento si mostra in tutta la sua meravigliosa potenza senza il bisogno di gonfiare le guance. 

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