SCIENZA E RICERCA

Le aquile testabianca e quell'ignota (fino ad oggi) malattia

Sono il simbolo degli Stati Uniti d’America, protette da leggi federali e già minacciate in passato dal DDT. Dagli anni Novanta, le aquile di mare testabianca (Haliaeetus leucocephalus) hanno però cominciato a morire in grandi numeri nel sud-est del paese, a causa di una misteriosa malattia neurodegenerativa, che le rendeva “ubriache”. Il responsabile di questa malattia è rimasto ignoto fino a oggi. Ora, a 25 anni da quegli strani decessi, un team internazionale di ricercatori dell’università della Georgia e della Martin Luther University ha risolto l’arcano: a provocare questa malattia, rinominata mielinopatia vacuolare (VM), è una neurotossina prodotta dai cianobatteri che si sviluppano su alcune piante acquatiche aliene e invasive, come scrivono su Science. Ecco tutta la storia, che si è guadagnata la copertina della rivista.

Negli anni Novanta, in Arkansas, negli Stati Uniti d’America, esplose una strana epidemia. In più parti del paese, tra il 1994 e il 1998, vennero trovate morte decine di aquile di mare testabianca. Le prime 59 nei pressi del lago DeGray, nel nord della contea di Clark, e altre ancora in alcuni laghi poco più a nord: il lago Ouachita e il lago Hamilton. Per un totale di 70 aquile morte per via di quella che venne definita “la piaga più mortale nella storia dell’osservazione degli uccelli”. Mortale sì, ma anche parecchio insolita: prima di morire, questi maestosi rapaci con un’apertura alare di due metri e mezzo, piumaggio bruno-rossastro su cui spiccano testa e coda bianca e artigli e becco giallo, sembravano “ubriachi”. Il loro volo da possente si faceva incerto, andavano a sbattere, barcollavano in aria, muovevano le ali in modo scoordinato. Insomma un disastro.

Come riportato anche sul New York Times all’epoca, effettuando le necroscopie, i funzionari federali riuscirono a identificare immediatamente la causa di quei bizzarri comportamenti: le aquile decedute riportavano microscopiche lesioni cerebrali. Ma una domanda rimaneva aperta: cosa provocava quelle lesioni? E, poi, qualsiasi fosse l’agente, c’era un effetto di biomagnificazione, come avvenne per il DDT?

Nella metà del Novecento, infatti, la popolazione di aquile di mare testabianca era ridotta al lumicino. Dai 300.000-500.000 individui presenti nel XVIII secolo, negli anni Cinquanta in tutti gli Stati Uniti si contavano solo 412 coppie nidificanti. La colpa era della caccia e della perdita di habitat, ma anche e soprattutto di un nemico più insidioso: il DDT. Questo insetticida biomagnificava, cioè si accumulava e aumentava di concentrazione man mano che risaliva la catena trofica: perciò un’aquila testabianca, predatore all’apice della piramide alimentare, presentava concentrazioni altissime di DDT. L’insetticida non era letale per gli uccelli adulti, ma neutralizzava la loro capacità riproduttiva: interferiva con il metabolismo del calcio, rendendo questi uccelli sterili o incapaci di deporre uova sane. Le uova infatti avevano il guscio troppo sottile per sopportare il peso di un adulto in cova, tanto da rompersi. “La “frittata” - è il caso di dire - sembrava servita. Ma con la messa al bando del DDT nel 1972, la popolazione di questi rapaci si è ripresa e già nei primi anni Novanta si contavano oltre 100.000 individui.

Tuttavia, finito l’incubo del DDT ne è cominciato un altro: quello di questa misteriosa malattia neurodegenerativa, oggi nota come mielinopatia vacuolare. Per individuare la tossina responsabile di queste strane morie ci sono voluti più di due decenni. Arrivati ai primi anni Duemila, infatti, tutti gli imputati conosciuti erano stati assolti. Non si trattava di botulismo, né di avvelenamento da pesticidi o da metalli pesanti. Rimaneva solo una “pista” aperta: le stesse lesioni cerebrali erano state ritrovate anche nelle folaghe americane (Fulica americana), dei grossi e panciuti uccelli acquatici, tutti neri e con il becco bianco. Uccelli presenti anche nel menù delle aquile di mare testabianca: per questi rapaci, spesso spazzini di bocca buona, una folaga stordita e in difficoltà, che non riesce a tenere la testa fuori dall’acqua, scoordinata nei movimenti, è una preda gustosa e facile. Insomma per risolvere il caso si doveva indagare nella catena alimentare.

Ad avere l’intuizione che ha portato alla risoluzione del caso, sono state Susan Wilde e Carol Meteyer, la prima docente alla Warnell School of Forestry and Natural Resources dell’Università della Georgia e la seconda patologa del National Wildlife Health Center del Wisconsin. Per Wilde e Meteyer le morti registrate nei laghi dell’Arkansas dovevano essere collegate a qualcosa che questi animali avevano mangiato. E proprio in quei laghi, le folaghe si nutrivano di una pianta aliena invasiva, originaria dell’Asia e dell’Australia: l’Hydrilla verticillata, sulle cui foglie erano comparse delle macchie, forse provocate dai cianobatteri.

I cianobatteri sono in grado di produrre tossine potentissime, certo, ma nessuna tossina fino ad allora conosciuta aveva quegli effetti. E poi i cianobatteri di solito si sviluppano sulla superficie dell’acqua dei laghi, non sulle piante. Per questo la tesi fu accolta con molto scetticismo, fino a quando nel 2005 Susan Wilde identifica un cianobatterio precedentemente sconosciuto proprio sulle foglie di Hydrilla verticillata.

A quel punto la pista diventa una strada maestra. Susan Wilde spedisce dei campioni in Germania, a Timo Niedermeyer, esperto di cianobatteri della Martin Luther University Halle-Wittenberg. Ma i batteri cresciuti in laboratorio sull’Hydrilla verticillata non producono la tossina: «eravamo di nuovo a un vicolo cieco» spiega Timo Niedermeyer. Ma Steffen Breinlinger, dottorando di Niedermeyer ha un’intuizione: utilizzando uno spettrometro di massa esamina e confronta la struttura chimica della tossina isolata in America con quella prodotta dai cianobatteri in laboratorio. E si accorge che la tossina americana ha 5 atomi di bromo in più. «I terreni di coltura standard in cui crescono i cianobatteri non contengono bromo» racconta Breinlinger. «Ma quando lo abbiamo aggiunto alle nostre colture, i cianobatteri hanno iniziato a produrre la tossina». A 25 anni di distanza da quelle morti sospette, il caso è finalmente risolto.

Il batterio scoperto da Wilde sulle piante di Hydrilla verticillata è stato chiamato Aetokthonos hydrillicola, cioè “assassino di aquile che cresce su Hydrilla” e la tossina prodotta aetokthonotoxin. Mentre ulteriori test sugli uccelli hanno decretato che è proprio questa tossina a provocare le lesioni cerebrali riscontrate negli anni Novanta e la malattia misteriosa è stata rinominata mielinopatia vacuolare (VM).

Resta ancora da chiarire, però, da dove arrivino gli atomi di bromo che permettono lo sviluppo della tossina nelle acque dei laghi americani. L’ipotesi avanzata dagli scienziati è che il bromo provenga – per una macabra coincidenza – dagli stessi erbicidi utilizzati per eliminare l’Hydrilla verticillata, che contengono appunto bromuri.

L’indagine, insomma, ancora non è conclusa. E forse, anche questi erbicidi potrebbero seguire la sorte del DDT. Intanto, la buona notizia è che per il momento in Europa – dove pure è presente l’Hydrilla verticillata - non sono stati segnalati casi, né di questi cianobatteri, né della tossina o della malattia.

POTREBBE INTERESSARTI

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012