Una manifestazione contro i tagli all'istruzione pubblica in Argentina. Foto: Reuters
Le recenti, poderose marce di protesta contro i tagli ai sussidi pubblici per le università, che si sono tenute nelle più grandi città in Argentina, da Buenos Aires a Cordoba, da Rosario a Mendoza, fino alla Terra del Fuoco, a Ushuaia (nella capitale, secondo gli organizzatori, hanno sfilato 800mila persone), sono il primo, concreto “avviso” lanciato dagli argentini al presidente Javier Milei. Che dopo quasi 5 mesi dal suo insediamento continua a usare con disinvoltura la motosega brandita durante i suoi comizi elettorali, per tagliare fino all’osso la spesa pubblica, e tentare così di salvare l’economia di una nazione praticamente fallita: dall’aumento delle tasse alle privatizzazioni a tappeto delle aziende pubbliche; dallo stop all’86% dei cantieri pubblici al licenziamento in tronco di oltre 15mila dipendenti statali, con il tasso di povertà che coinvolge ormai il 57% della popolazione (pari a circa 27 milioni di persone) e un’inflazione che rischia di sfondare quota 300% (ora è al 287%, la prossima rilevazione sarà il 14 maggio). Ora però la scure del governo si è abbattuta anche sulle università pubbliche, considerate tra le eccellenze dell’Argentina e dell’intera America Latina: da sempre gratuite e frequentate da circa 2,2 milioni di studenti (a fronte dei 550mila iscritti a università private), provenienti anche dall’estero. Il budget annuale è stato tagliato del 71%, troppo per garantire il regolare svolgimento delle attività. E comunque nel 2024 non è arrivato un soldo: «Possiamo resistere ancora tre mesi, ma se non arriveranno i fondi poi saremo costretti a chiudere», ha commentato Ricardo Gelpi, rettore dell’Università di Buenos Aires (UBA), circa 385mila studenti iscritti in 13 facoltà (la più frequentata è Medicina), che può vantare tra i propri studenti 4 premi Nobel argentini (i biochimici Luis Federico Leloir e César Milstein, il medico Bernardo Houssay, e il giurista Carlos Saavedra Lamas). L’Associated Press descrive così la situazione attuale: «All’Università di Buenos Aires le aule sono diventate buie, gli ascensori sono bloccati, l’aria condizionata ha smesso di funzionare in alcuni edifici. I professori hanno tenuto lezioni per 200 studenti senza microfoni o proiettori perché l’Università pubblica non riusciva a coprire il costo della bolletta dell’elettricità». E la questione è immediatamente diventata “politica”. Il ministro dell'Interno argentino, Guillermo Francos, ha liquidato la questione con parole sprezzanti: «Se Gelpi ritiene di affrontare la questione chiudendo l’Università vuol dire che non è qualificato per essere a capo dell’UBA». Il rettore ha poi replicato: «Non vogliamo chiudere: vogliamo studiare, ricercare, svolgere i nostri doveri sociali. Quello che ho detto è che, al ritmo con cui il governo ci sta inviando denaro, possiamo rimanere aperti solo per altri due o tre mesi, a seconda della facoltà».
Istruzione e sanità solo per chi può permettersele
Da lì le proteste, organizzate dagli studenti, dai docenti, dai sindacati e sostenute anche dai partiti di opposizione, che hanno marciato e gridato tenendo alti i loro libri e i loro diplomi. Per chiedere come minimo un taglio meno drastico dei fondi, per pretendere rispetto per il sistema educativo argentino, perché non tutto può essere messo sullo stesso piano, equiparando un investimento sulla cultura di un intero Paese a uno spreco di spesa. «Stiamo difendendo l’università pubblica, aperta e libera, che è una delle grandi conquiste del nostro popolo e a cui non rinunceremo», ha detto il premio Nobel per la pace Adolfo Porez Esquivel durante la manifestazione davanti alla Casa Rosada, la sede del governo. «Stiamo difendendo il nostro diritto a vivere con dignità». Proteste che hanno attraversato trasversalmente la società argentina. Come sostiene José Natanson, politologo e direttore dell’edizione di Le Monde Diplomatique Southern Cone, interpellato dalla Cnn: «Le precedenti erano dimostrazioni progressiste o peroniste, o entrambe. D’altra parte, questa era una manifestazione in cui c'erano peronisti, c'erano persone di sinistra, ma c’erano anche radicali, c’erano liberali, c’erano molti elettori di Milei. Penso che questa protesta sia la prima pietra miliare che danneggia il governo, il primo graffio che ricevono, il primo proiettile che entra». Eppure nulla di quanto sta accadendo oggi è una “sorpresa”: a Javier Milei, presidente libertario di estrema destra, epigono di Trump e Bolsonaro, che ha vinto le ultime elezioni proprio cavalcando il malcontento sociale di una popolazione piegata da decenni di sacrifici senza alcun risultato, tutto si può rimproverare, tranne la capacità di essere coerente. Lui l’aveva detto chiaramente cosa pensava del sistema d’istruzione pubblica: ritiene che le Università, e in particolar modo quella di Buenos Aires, siano “bastioni del Socialismo”, dove gli studenti che lo sostengono sono “discriminati”. Ha sostenuto anche che «…la dissonanza cognitiva generata dal lavaggio del cervello nell’istruzione pubblica è enorme». L’obiettivo finale di La Libertad Avanza, il partito di Milei, è «andare verso un sistema in cui l’Università sia tassata, proprio come la sanità». Quindi non un diritto, ma un privilegio, un “bene di consumo”, un lusso riservato soltanto a chi se lo può permettere. E gli esclusi, oggi, sarebbero moltissimi. Probabilmente anche tra coloro che l’anno scorso l’hanno votato, per rabbia, per disperazione.
Un Pinocchio che sa soltanto mentire
I sostenitori del presidente hanno bollato le dimostrazioni come “una provocazione”. Il ministro della Sicurezza, Patricia Bullrich, l’ha definita «una strana marcia che tenta di mettere sotto scacco il governo». E ha poi aggiunto: «L’intero Paese è in un momento in cui deve adeguarsi, e studenti e insegnanti lo sanno». Altri membri del governo hanno definito i partecipanti alla manifestazione come “comunisti” e “parassiti”. Il presidente Milei non è stato da meno e ha reagito con rabbia: «Non abbiamo mai detto che avremmo chiuso le Università o che avremmo tolto loro i fondi. L’unica cosa che chiediamo è che, dal momento che le Università pubbliche sono finanziate dai contribuenti, i numeri devono essere verificati. E soltanto i ladri non vogliono essere controllati». Poi ha tentato di ribaltare la realtà: «La manifestazione è stato un trionfo politico per La Libertad Avanza. In quella piazza c’erano tutti i nemici della libertà. Hanno dimostrato quanto hanno paura di me, quanto sono grande in relazione a loro e quanto poco sono in relazione a me». La rivista settimanale argentina Caras y Caretas (Volti e Maschere) ha definito il presidente “un Pinocchio che si vanta di un trionfo storico in piena crisi”: «Uno dei tratti caratteristici del governo libertario in Argentina è l’uso eccessivo della menzogna, mentre la società sta soffrendo una delle crisi più gravi, con un governo che minaccia di smantellare lo Stato a favore dei grandi interessi finanziari». Contro Javier Milei e altri funzionari del governo è stata presentata al Congresso una richiesta di impeachment per “scarso adempimento delle sue funzioni e possibile commissione di crimini”. La richiesta, un testo di 25 pagine, è stata firmata tra gli altri dal premio Nobel per la pace Adolfo Pérez Esquivel, dalla leader delle Madri di Plaza de Mayo, Taty Almeida, dall’avvocato costituzionalista Eduardo Barcesat e dal politologo Atilio Borón. Milei, secondo i firmatari, dovrebbe essere chiamato a rispondere per il reato di “abbandono di persone e violazione dei doveri di pubblico ufficiale” per aver tolto i fondi e deciso di smantellare il “National Plan Argentina Against Hunger”, mettendo così in pericolo la vita e la salute di migliaia di persone che frequentano quotidianamente le cucine popolari. Anche l’autorevole rivista americana Foreign Policy, in un approfondimento pubblicato lo scorso marzo, ha sostenuto che «l’austerità imposta da Milei sta devastando l’Argentina: la sua terapia d’urto sta spingendo sempre più persone verso la povertà». Mentre è toccato al Sindacato dei lavoratori statali (ATE) il compito di smentire le dichiarazioni del presidente Milei, che lo scorso fine settimana aveva assicurato, senza presentare alcuna evidenza economica, che “i salari hanno già iniziato a battere l’inflazione”. «Un po’ di rispetto signor presidente» - gli ha risposto il segretario generale dell’Ate nazionale, Rodolfo Aguiar. «Pensa davvero che ci sia qualcuno in Argentina che possa credere a una tale stupidità? Quali salari stanno battendo l’inflazione? Suppongo che si riferisca ai vostri o a quelli dei senatori. Per favore, non ci manchi di rispetto. I lavoratori statali e i pensionati hanno perso più potere d’acquisto nei suoi 4 mesi di governo che negli 8 anni precedenti».
Proteste al corteo del 1° maggio
E ieri, 1° maggio, la Confederazione Generale del Lavoro (CGT), il più importante sindacato argentino, ha portato di nuovo a sfilare nelle strade di Buenos Aires decine di migliaia di persone, unite dietro lo slogan “la patria non è in vendita”. Mentre il prossimo 9 maggio sarà di nuovo sciopero generale, già indetto dai “falchi” del sindacato. Il corteo di ieri, che dai viali Independencia e Difensa ha raggiunto il Monumento al Lavoro, sul Paseo Colón, è stato il pretesto per tornare ad attaccare il governo Milei e il disegno di leggeancora in discussione al Congresso, ma che è già stato approvato dalla Camera dei Deputati (con 140 voti favorevoli, 103 contrari e 6 astensioni), che consentirebbe all’esecutivo, in caso di approvazione definitiva (ma in Senato la battaglia sarà aspra), di “spazzare via centinaia di norme che regolano i rapporti tra lo Stato e i suoi amministrati”, come scrive il quotidiano La Nacion. Un passaggio che preoccupa, e molto, i sindacati che già rilevano la scomparsa di circa 40mila posti di lavoro dallo scorso ottobre a oggi, con i salari che proprio non riescono a stare al passo con l’inflazione, con le famiglie costrette a tagliare ulteriormente le spese e con i dati negativi nel commercio al dettaglio, praticamente in tutti i settori. E se la contrazione maggiore è stata registrata nella categoria “profumerie”, con un crollo del 27,5% su base annua, preoccupa il calo del settore “farmacie”, con vendite diminuite del 21,9%. Anche la salute, in situazioni di povertà estrema, diventa un lusso da tagliare.