Il Davide e Golia attribuito ora ad Artemisia Gentileschi
Era stato a lungo attribuito a Giovanni Francesco Guerrieri da Fossombrone, uno degli allievi del pisano Orazio Gentileschi, pittore di impronta caravaggesca vissuto a cavallo tra Cinquecento e il Seicento. Ma ora è certo, il Davide e Golia del Simon Gillespie Studio, che risale al 1639, è di Artemisia Gentileschi, straordinaria pittrice che di Orazio era l’amata figlia. Un’opera di restauro ha dimostrato che è sua la firma di quel quadro. Letteralmente, perché il nome Artemisia è impresso sulla spada di Davide.
Artemisia lo ha dipinto in quello che gli storici dell’arte chiamano il suo periodo londinese. La pittrice si era recata, infatti, a Londra per raggiungere il padre, ormai anziano.
Il bello è che la scoperta avviene alla vigilia di una mostra che sarà allestita presso la National Gallery, lì a Londra, e aperta al pubblico dal 4 aprile al 26 luglio. Coronavirus permettendo. La mostra sarà intitolata, semplicemente, Artemisia, e vedrà esposti almeno 30 sue opere. Un bel riconoscimento, per questa tragica ed epica figura.
Artemisia è stata, infatti, una donna eccezionale. Che ha saputo reagire da eroina alla violenza maschile, fisica e non solo.
Di questa sua storia, nella componente epica, è parte, non marginale, Galileo Galilei.
Il primo incontro tra i due avviene nel 1611, durante il trionfale viaggio che lo scienziato toscano (anzi, The Tuscan Artist, come lo ribattezza John Milton) compie a Roma un anno dopo la pubblicazione di quel suo libro, il Sidereus Nuncius (marzo 1610) che, per dirla con Ernst Cassirer “divide le epoche”. Perché ha letteralmente spalancato a una nuova visione dell’universo, mandando in frantumi l’architettura aristotelico-tolemaica.
Durante questo viaggio, nel corso del quale viene ricevuto e benedetto dal papa, Paolo V, oltre che applaudito dai matematici gesuiti del Collegio Romano, Galileo viene accolto nell’Accademia dei Lincei, fondata dal Duce di Acquasparta, Federico Cesi. Oltre agli accademici lincei il toscano incontra gli artisti che ruotano intorno all’Accademia: a iniziare dal suo vecchio amico, Ludovico Cardi, e dal grande mecenate di Caravaggio, il cardinale Francesco Maria del Monte. Tra gli artisti che Galileo incontra ci sono Orazio Gentileschi e la sua giovane figlia, Artemisia, di anni diciotto.
Gentileschi, che è fratello di un altro pittore, Aurelio Lomi, ha già maturato uno stile frutto della contaminazione tra il manierismo toscano e il naturalismo di Caravaggio. Artemisia, allora molto giovane ha tutta l’intenzione di abbracciare la passione paterna e ben presto affermerà a sua volta come pittrice di valore.
Quando diciamo ben presto non esageriamo affatto. Ha modo di constatarlo lo stesso galileo quando, nel 1613, entra a far parte dell’Accademia fiorentina delle Arti del Disegno, presso cui in gioventù aveva studiato (con il Cigoli, tra l’altro).
In Accademia, Galileo stringe rapporti diretti con Domenico Passignano, Cristoforo Allori, Jacopo Chimenti detto l’Empoli, Tiberio Titi, Sigismondo e Giovanni Coccapani: tutti pittori che vanno alla grande a Firenze. Ma nell’Accademia delle Arti del Disegno Galileo incontra anche Artemisia Gentileschi, che intanto si è trasferita da Roma, appunto, a Firenze. Il Granduca di Toscana, Cosimo II, le ha commissionato un quadro il cui tema riguarda Giuditta che decapita Oloferne.
Una commissione che testimonia di quanto grande sia già la fama della ragazza pittrice. Tanto più eccezionale in un mondo che è completamente dominato da pittori di sesso maschile.
Ora l’incontro con Galileo non è senza conseguenze. E testimonia, a sua vola, quanto interpenetrati sia il rapporto tra scienza e arte. Galileo, infatti, è un valente disegnatore (ha appreso l’arte proprio in Accademia, oltre che in monastero) e Artemisia è stata colpita dai chiaroscuri lunari che Galileo ha proposto nel Sidereus. Cosicché la pittrice decide di trasferire questa attenzione nella nuova opera.
Ma non si limita al chiaroscuro. Artemisia intende introiettare ed esprimere tutta la scienza di Galileo, di cui è stata messa a parte e che ha attratto la sua attenzione. Prova ne sia che gli zampilli di sangue che sgorgano dalla gola di Oloferne sembrano seguire proprio le traiettorie di quei moto parabolici calcolati da Galileo. Mentre in un’altra opera, Betsabea al bagno, che Ferdinando II collocherà a Palazzo Pitti, Artemisia sembra alludere alle fasi lunari “nell’armonioso concatenarsi delle quattro figure femminili, con la serva negra che chiude la scena a indicare il novilunio”, come scrive Lucia Tongiorgi Tomasi.
Basterebbe questo per legare in maniera non banale, appunto, la figura di Artemisia a quella di Galileo. Ma non è finita qui. Facciamo un salto di oltre venti anni. Galileo è ormai vecchio e agli arresti domiciliari nella sua casa di Arcetri. È già stato costretto all’abiura. Ed ecco che il 9 ottobre 1635 riceve una lettera di Artemisia Gentileschi che, in maniera apparentemente curiosa, gli chiede notizia di due dipinti che lei ha mandato al granduca, Ferdinando II, da cui non ha avuto riscontri.
Sembra una richiesta bizzarra, rivolta com’è a un uomo che è in stato di arresto. Eppure quella richiesta di intervento per ottenere le informazioni desiderate al prigioniero Galileo non è né estemporanea né casuale. Artemisia ricorda infatti un episodio analogo, relativo al «quadro di quella Giudth ch’io diedi al Ser.mo Gran Duca Cosimo gloriosa memoria, del quale se n’era persa la memoria, se non era ravvivata dalla protettione di V . S.».
A parte il refuso (il quadro è la Giudith), Artemisia ricorda come Galileo in passato abbia provveduto a risolvere un altro caso di smemoratezza granducale. Il che a sua volta dimostra che la pittrice e lo scienziato si conoscono bene e hanno continuato a intrattenere rapporti anche dopo il 1613.
Un sodalizio creativo tra il pioniere della scienza moderna e la pioniera dell’arte al femminile.
È tempo, dunque, di raccontare, sia pure per sommi capi, la storia di questa amica di Galileo le cui opere verranno esposte tra un mese a Londra.
Artemisia è nata a Roma, nel 1593, ed è, come abbiamo già ricordato, figlia di un pittore pisano, Orazio Gentileschi, noto per essere un esponente del cosiddetto caravaggismo romano. Orazio ha un’avviata bottega, dove i figli apprendono l’arte del dipingere. Tra tutti primeggia, per talento creativo, Artemisia. Che giovanissima diventa a sua volta esponente dello stile pittorico che fa capo al Caravaggio. Nel corso del primo decennio del XVII secolo Roma è ormai il luogo privilegiato di stili e di artisti. In questo ambiente cui non è estraneo il pensiero scientifico, Artemisia, protetta dal padre, si forma. Probabilmente la giovane conosce personalmente Michelangelo Merisi da Caravaggio. Purtroppo per lei si imbatte anche in un altro pittore, il perugino Agostino Tassi, che la insidia e da cui subisce uno stupro. È l’anno 1611.
Proprio l’anno in cui Galileo visita Roma, ne frequenta gli ambienti artistici e certamente conosce la ragazza. Sappiamo infatti per certo che l’anno dopo Galileo mostra a Paolo Giordano Orsini alcuni disegni di piccolo formato che Artemisia ha realizzato sulla base di alcune stampe.
Intanto Artemisia ha denunciato lo stupratore e, con l’appoggio del padre, lo ha trascinato in tribunale. Il processo è per Artemisia una tortura. Anche nel senso letterale del termine: la ragazza viene torturata per essere certi che dica la verità. Quell’atto odioso rischia di compromettere l’uso delle dita e, dunque, la possibilità che continui a dipingere.
Ma Artemisia ha coraggio e volontà. Nel novembre 1612 il tribunale riconosce la colpevolezza di Agostino Tassi. Alla fine di quel medesimo anno Artemisia, oggetto di quello che oggi potremmo definire bullismo mediatico (a Roma la dipingono come una donna di cattivi costumi) si sposa con Pierantonio Stiattesi, un pittore di modesto valore, e lo segue a Firenze.
L’affettuoso padre, la segue da lontano. E chiede alla Granduchessa Cristina di Lorena di proteggerla quando Agostino Tassi esce di prigione e si reca nella città toscana. Per accattivarsi le simpatie di Cristina, Orazio Gentileschi le offre un dipinto di Artemisia. La giovane sposa viene protetta.
Meno di quattro anni dopo, nel 1616, Artemisia è la prima donna ammessa all’Accademia delle Arti del Disegno, di cui dal 1613 è membro, come abbiamo detto, anche Galileo. Galileo e Artemisia si incontrano certamente in Accademia. O in altri mille luoghi, visto che entrambi sono stretti amici di Michelangelo Buonarroti, il nipote del più famoso omonimo. Ma i comuni conoscenti, tutti di ambiente artistico, sono moltissimi e costituiscono una vera e propria rete sociale. Nel 1620 Artemisia ritorna a Roma e dipinge la Giuditta che decapita Oloferne. Un quadro considerato galileiano, non solo e non tanto perché, con ogni probabilità, è l’opera commissionata da Cosimo II di cui fa cenno nella lettera a Galileo. Ma anche e soprattutto perché il sangue che scorre dalla gola di Oloferne segue le traiettorie di quelle parabole che Galileo le ha insegnato a ricostruire con precisione geometrica. Nel 1630 Artemisia si sposta a Napoli. Ma anche da lontano continua a seguire Galileo. E Galileo lei.
Ecco perché la lettera del 1635 non risulta né strana né inattesa.
Nel 1638 Artemisia è a Londra e inizia a collaborare anche in senso artistico con papà Orazione, pittore alla corte del re Carlo I. È a Londra che dipinge il Davide e Golia. Poi questa donna che ha dimostrato tutto il suo valore in pittura e ha saputo coniugare l’arte alla scienza ritorna a Napoli, dove muore nel 1654.