SOCIETÀ

Attentato a Manbij, Siria: a perderci sono comunque i curdi

Sarebbero una ventina i morti causati dall'attacco suicida avvenuto davanti al ristorante Qasr al Omara il 16 gennaio a Manbij, città del nord della Siria a nord-est di Aleppo, a una trentina di chilometri dal confine turco. Tra le vittime una decina di civili siriani, alcuni miliziani curdi e almeno quattro soldati statunitensi. L'Isis, attraverso la sua agenzia stampa Amaq, ha rivendicato l'attentato, facendo riferimento a un uomo con un giubbotto esplosivo.

I soldati statunitensi erano a capo di una pattuglia di routine che al momento dell'esplosione stava sostando di fronte al ristorante assieme ai soldati delle milizie curdo-siriane, le Unità di protezione del popolo (Ypg), le quali hanno subito migliaia di perdite combattendo a fianco delle forze statunitensi.

Il vice presidente statunitense Mike Pence ha espresso cordoglio per le famiglie delle vittime, ma ha anche ribadito, con un tempismo giudicato da molti fuori luogo, che l'Isis è sconfitto, gli americani e i loro soldati possono stare tranquilli, “non lasceremo mai che ciò che resta dell'Isis ristabilisca il suo malvagio e assassino califfato. Nè ora, né mai”.

Proprio in virtù di questa convinzione, lo scorso 19 dicembre il presidente Donald Trump aveva infatti annunciato il ritiro delle truppe statunitensi (2000 unità) dalla Siria, dove combatte l'Isis a fianco dei curdo-siriani da ormai quattro anni.

La decisione aveva colto alla sprovvista sia gli alleati sul territorio sia gli alti funzionari in patria, tanto che il Segretario della Difesa e capo del Pentagono James Mattis aveva scelto di rassegnare le dimissioni.

Il ritiro delle truppe statunitensi (alcuni dicono sia stato proprio il presidente turco a convincere Trump) porterebbe con ogni probabilità a una destabilizzazione dei precari rapporti tra Turchia e popolazione curda che vive al confine siriano. Sparsi tra Siria, Turchia, Armenia, Azerbaijan, Iran, Iraq, ma anche Libano, Giordania e più a est Afghanistan e Pakistan, oggi si stima che i curdi siano tra i 20 e i 30 milioni, il che ne farebbe uno dei più grandi gruppi etnici privi di uno Stato nazionale.

Se attaccherà i curdi, devasteremo la Turchia, economicamente, ha tuonato Donald Trump il 13 gennaio dal suo profilo twitter. Ha promesso anche la creazione di una zona cuscinetto di quasi 30 chilometri al confine tra Turchia e Siria settentrionale, dove parte della popolazione curda risiede.

Il portavoce del presidente Erdoğan, Ibrahim Kellin, è stato altrettanto diretto: “Mr Trump, i terroristi non possono essere i vostri partner e alleati”, riferendosi alle milizie curdo-siriane, le Unità di protezione del popolo (Ypg).

La Turchia è sulla carta un importante alleato degli Stati Uniti in Medio Oriente, rappresenta il secondo esercito all'interno della Nato e uno scontro diplomatico ed economico aggraverebbe una situazione già molto tesa.

Per via della repressione anche fisica del dissenso politico, della limitazione della libertà di stampa e di ricerca, in molti non hanno esitato a definire dittatoriale la presidenza di Erdoğan. Se nel corso del '900 la Turchia era andata incontro a un processo di secolarizzazione, avviato negli anni '20 e '30 da Atatürk, Erdoğan sta decisamente puntando in direzione opposta, verso una reislamizzazione del Paese, nella sua variante sunnita.

È per questo che all'insorgere delle primavere arabe nel 2011 Erdoğan sostenne le rivolte in Siria contro il regime di Bashar al Assad dominato dagli alawiti, una setta musulmana sciita. Il sostegno della Russia nel 2015 al regime siriano aveva mandato Erdoğan su tutte le furie e l'abbattimento del caccia russo da parte della contraerea turca aveva fatto traballare per delle lunghissime ore gli equilibri geopolitici globali. Allo stesso modo Erdoğan ha digerito a fatica l'alleanza degli Stati Uniti con le milizie curdo-siriane (Ypg) contro l'Isis.

I curdi della Turchia costituiscono quasi un quinto della popolazione turca (14 milioni nel 2008); una parte di questi è rappresentata dal Pkk, il partito dei lavoratori del Kurdistan, organizzazione paramilitare e indipendentista che in Turchia è tra i più agguerriti oppositori di Erdoğan.

Il regime turco considera le milizie curdo-siriane null'altro che una mano armata che il Pkk potrebbe scegliere di rivolgere contro Ankara. Per questo Erdoğan li tratta alla stregua di terroristi ed è pronto a schiacciarli.

Ma la Turchia non può nemmeno ignorare le minacce di destabilizzazione economica da parte degli Stati Uniti, poiché la crisi finanziaria ad Ankara si fa ancora sentire. Per via di una crisi diplomatica (che aveva a che fare con la liberazione di un pastore americano detenuto in Turchia e l'acquisto dalla Russia di missili difensivi S-400), due anni fa Trump innalzò le tariffe sulle esportazioni turche di metalli, facendo crollare la lira turca.

Il 20 dicembre il consigliere Usa per la sicurezza nazionale John Bolton si era recato ad Ankara per convincere la Turchia a non attaccare le milizie curdo-siriane una volta che gli Usa avessero ritirato le truppe. Erdoğan si era però rifiutato di incontrarlo.

Le Ypg curdo-siriane sono state sin dall'inizio per gli alleati la compagine più importante nella lotta all'Isis sul territorio siriano, ma sono state anche quelle che hanno pagato il prezzo più alto in termini di perdite umane. Il sogno del Kurdistan, a confine tra Turchia e Siria, non è mai morto, ma, seppur per ragioni diverse, né il ristabilito regime di Damasco (sostenuto da Russia e Iran) né quello di Ankara sono disposti a cedere terreno e risorse all'autonomia curda.

Forse l'attentato di Manbij ritarderà il ritiro delle truppe statunitensi dal nord della Siria. Ma che questo porterà a una distensione dei rapporti con la Turchia è tutto da vedere.

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