CULTURA

Basilico, l’uomo che svelò il lato nascosto delle città

La Torre Glòries, simbolo della nuova Barcellona, è al centro dell’immagine. Il bianco e nero coglie una luce livida e pulita, il nitore dell’aria si percepisce fisicamente: nuvole cupissime, che incombono sul grattacielo, svelano che vento e pioggia hanno depurato il cielo da ogni scoria. Ma il palazzo-missile di Jean Nouvel non è affatto il protagonista della foto. Perché l’artista, nel ritrarre l’edificio in fase di ultimazione, sceglie di collocarlo in posizione arretrata, ad attenuare la sua imponenza; e ravvicina allo spettatore i dettagli di un vecchio quartiere in degrado che, si intuisce, verrà presto demolito per lasciare spazio ad ambienti urbani eleganti, innovativi, adeguati all’icona che devono contornare. Così, il vero centro focale è una strada in disuso trasformata in un parcheggio, il susseguirsi ininterrotto di baracche coperte di murales, un piccolo deposito-discarica a cielo aperto. Ai lati e sullo sfondo, alti immobili di edilizia popolare completano il quadro.

Gabriele Basilico, il grande fotografo di architetture scomparso otto anni fa, non sopportava l’idea che delle città si dovessero ritrarre solo gli splendori. O meglio, riteneva che nell’estetica delle metropoli andasse ricompreso tutto, i palazzi storici come le fabbriche, i monumenti come le case popolari: il paesaggio urbano contemporaneo (la sua ossessione, come egli stesso la definiva) era un unicum composto da bello e brutto, centro e periferie, pieni e vuoti. L’obiettivo della sua ricerca non era la selezione delle eccellenze, ma l’individuare legami, equilibri, trasformazioni all’interno dell’universo cittadino. Fotografare le città, spiegava, era per lui “cercare luoghi e creare storie, relazioni, anche con luoghi lontani archiviati nella memoria, o addirittura luoghi immaginari”. La sua sensibilità e il suo sguardo hanno cambiato il modo di fotografare i grandi agglomerati urbani. Non più, non soltanto skyline scenografici, né soltanto periferie degradate a testimoniare il disagio sociale, ma tutto questo insieme: l’unicum della metropoli, entro cui l’architetto-fotografo (si era laureato al Politecnico di Milano) intesseva, per l’appunto, relazioni tra tessuti diversissimi, ma accomunati da tanti fattori, fisici o ideali. Al centro della sua attenzione era il dinamismo, il mutamento continuo degli spazi urbani, che cancella interi quartieri mantenendone però qualche retaggio: singoli edifici, anche in rovina, o solo frammenti suggestivi.

Prendiamo un’altra foto emblematica, che ritrae uno degli scenari urbani attuali più celebrati: la Défense di Parigi, cuore ipermoderno e tecnologico della capitale francese. Basilico sceglie, ancora una volta, di non prescindere dal palazzo-monumento più famoso (La Grande Arche), ma lo colloca di nuovo in posizione arretrata e periferica: il profilo dei grattacieli è sul fondo, mentre la scena è dominata, in campo avanzato, dai binari di una ferrovia dismessa, che si insinua tra una collinetta gibbosa e spelacchiata e, dall’altro lato, le lamiere che cingono un parcheggio di autocarri. Ancora, lo spazio urbano è presentato nelle sue contraddizioni: aree anonime, anche squallide, interloquiscono con la grandiosità delle architetture dei maestri, perché sono parte dello stesso scenario e testimoniano di fasi precedenti nella storia della città.

Le mostre dedicate a Basilico si susseguono con regolarità, a dimostrazione di quanto sia viva l’impronta lasciata dall’artista. Un’importante esposizione si è conclusa da poco al Magazzino delle Idee di Trieste: Nelle città, un centinaio di immagini di paesaggi urbani prevalentemente europei, ha riassunto con efficacia la poetica di un fotografo che è stato accostato a Sironi e De Chirico: per l’importanza attribuita alle periferie, così come per quella peculiare atmosfera di sospensione del tempo che si respira nei suoi scatti, in cui gli spazi urbani sono spesso rappresentati senza abitanti, congelati in un bianco e nero dai forti contrasti e chiaroscuri, quasi metallico.  Oltre alle due foto citate in apertura, colpisce ad esempio un notturno di Istanbul, una visione dall’alto in cui migliaia di finestre illuminate costituiscono il collante di un paesaggio di colline, strade, acque sopraffatto da un oceano di case che, addossate l’una all’altra a perdita d’occhio, appaiono come elemento unitario pur nella vastità della scena. C’è un angolo di Palermo quasi metafisico, in cui squadrati palazzi di cemento di varie forme e misure, senza un passante o un’aiuola che ne interrompano l’intersecarsi, sembrano un gigantesco gioco ad incastro abbandonato; una Valencia altrettanto lunare, dove due massicce schiere di palazzoni illuminati (è l’alba, o il tramonto) lasciano il campo a una vasta spianata grigia, un giardino senz’erba, dal cui fondo compatto emergono lampioni, sparuti arboscelli, panchine, a rammentare l’ipotetica funzione ricreativa di uno spazio desolato e deserto. Vi sono poi i “solitari”, edifici storici intatti ma fagocitati dalla modernità, come negli scatti di Rio de Janeiro, Tel Aviv, Montecarlo. Impossibile non citare anche il lavoro sulla ricostruzione di Beirut dopo la guerra e i “Ritratti di fabbriche” della fine degli anni Settanta, primo lavoro in cui Basilico, valorizzando l’edilizia industriale “non nobile”, ne omaggiava la valenza sociale ma dimostrava, al contempo, la passione per l’architettura nel senso più comprensivo e totalizzante.

Se Basilico ha saputo reinventare l’immagine della città contemporanea, non è stata da meno la sua capacità di rielaborare uno sguardo più antico di quasi tre secoli ma altrettanto emblematico: quello di Giovanni Battista Piranesi. Le celebri vedute di Roma del grande incisore sono reinterpretate da Basilico nella mostra Piranesi, Roma, Basilico (Venezia, Palazzo Cini, aperta dal venerdì alla domenica fino al 31 ottobre). Qui Basilico ha dovuto quindi compiere un percorso a ritroso: partire non più dallo stato contemporaneo della città indagandone le stratificazioni, ma dalle visioni dell’Urbe che Piranesi realizzò a metà Settecento e attualizzarle. A Venezia sono esposte 25 opere selezionate dalla collezione Piranesi della Fondazione Cini, cui si deve l’incarico a Basilico di tornare, nel 2010, nei luoghi simbolo della Roma piranesiana come il Pantheon, Piazza del Popolo, Castel S. Angelo, la Piramide di Caio Cestio;  accanto ad ogni incisione è posta la rappresentazione dello stesso luogo da parte del fotografo milanese, che sceglie un punto di vista analogo, se non coincidente, rispetto a quello dell’incisore; lasciando allo spettatore il compito di constatare come il lavorio del tempo e lo stravolgimento degli equilibri urbanistici comportino mutamenti profondi, ma anche una continuità di visione tra due maestri del bianco e nero, del dettaglio nella globalità, dell’uso della luce.

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