CULTURA

La bellezza della Nuova musica

Era il 1992 quando Alessandro Baricco, romanziere e saggista all’inizio di una sfolgorante carriera dava alle stampe L’anima di Hegel e le mucche del Wisconsin. Una riflessione su musica colta e modernità.

In questo suo testo decisamente schietto (quanto al titolo, in epigrafe si legge che, secondo uno studio dell’Università di Madison, “la produzione di latte nelle mucche che ascoltano musica sinfonica aumenta del 7,5%”) l’autore affrontava tra gli altri il tema della cosiddetta “Nuova musica”, ossia di quella classica contemporanea. Il termine viene da lontano, da quell’Anton Webern che agli inizi del Novecento espose in delle lezioni private la sua idea dell’evoluzione musicale oltre la tonalità che vennero pubblicate nel 1932-33 con il titolo, appunto, di Der Weg zur Neue Musik.

È una questione per certi versi spinosa, perché Baricco è lapidario: parla di un autentico “strappo” tra musica e pubblico, diversamente dal concetto di fisiologica espansione di Webern secondo cui la musica semplicemente conquista gli spazi ancora inesplorati (musica atonale o dodecafonica, per esempio). Secondo Baricco la dialettica tra previsione e sorpresa lascerebbe l’ascoltatore spaesato di fronte invece alla “sorpresa unica e generalizzata” della musica contemporanea. Dice di più: che quello che gli viene chiesto è “semplicemente, l’impossibile […] Lo si colpevolizza facendogli balenare la promessa che, impegnandosi, capirà”.

Di recente esce invece per Edizioni Dedalo un breve saggio di Emanuele Arciuli, pianista di fama con repertorio – anche – contemporaneo, che si intitola La bellezza della Nuova musica. Arciuli qui si rivolge proprio a quell’ascoltatore cui fa riferimento Baricco (cioè invero a tanti, tantissimi di noi) e gli leva la paura. Dice così: “Forse il pubblico potrà ritrovare un pieno rapporto con la musica del proprio tempo quando smetterà di chiederle di somigliare alle proprie aspettative, quando comprenderà che la musica, e l’arte in genere, sono sensori aggiuntivi, occhi orecchie e neuroni in più, non devono riprodurre la realtà che già conosciamo, ma aiutarci a scoprirne l’invisibile e l’inaudito”. Quasi controcorrente Arciuli fa vedere come la musica classica contemporanea non sia qualcosa di altro ma un'esperienza che possiamo attraversare.

Quindi come avvicinarsi alle Avanguardie? Comprendendo – spiega Arciuli – cioè “passando da un ascolto passivo (quello di chi dichiara orgogliosamente: Questa musica non la capisco […]) a un ascolto consapevole”; poi riascoltando, dal momento che “il concerto dal vivo impone un solo ascolto e la sentenza inappellabile arriva sempre dopo il primo grado di giudizio”, e ciò invero “facilita la musica semplice”; infine lasciandosi sorprendere.

Peraltro dalle Avanguardie del dopoguerra si è passati al Postmoderno fino alle esperienze contemporanee. John Cage, Stockhausen ma anche il Ligeti che conosciamo da 2001: Odissea nello spazio (con il brano Lux Aeterna), o Michael Nyman (chi non ricorda la celebre colonna sonora di Lezioni di piano?), o ancora Frederic Rzewski, fino ai compositori della generazione dei millennials che – anche se pare incredibile ma è nella natura delle cose: non è da credere che tutti gli scrittori contemporanei abbiano letto Delitto e Castigo – non si sono formati sui “classici” ma magari sui Pink Floyd.

Di seguito l’intervista a Emanuele Arciuli.

 

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