UNIVERSITÀ E SCUOLA

Una Brexit "morbida" per l’università britannica. Comunque vada

A bordo dell’altalena fra hard e soft Brexit, dalla quale pochi giorni fa sono saltati giù due ministri del governo inglese, le università britanniche dichiarano da sempre una decisa propensione per un approccio “morbido” che garantisca la libera circolazione di studenti e ricercatori e consenta la partecipazione ai progetti di ricerca europei. Su questa linea, nonostante l’intransigenza dimostrata in precedenza dal governo, gli accordi pianificati la scorsa settimana in vista della negoziazione con l’Unione europea hanno preso una piega sorprendentemente moderata: a Chequers, nella residenza estiva della premier Theresa May, si è infatti optato per una versione super-soft del famigerato piano di separazione, che prevedrebbe uno spazio di libera circolazione sia di merci che di persone. La scelta non è ovviamente andata giù agli ultras dei brexiteers, il ministro per la Brexit David Davis e il ministro degli esteri Boris Johnson in testa. Rimane qualche dubbio che anche i sostenitori del remain, che a giugno hanno marciato in 100.000 a Londra per chiedere un secondo referendum, possano rimanere soddisfatti dell’accordo, reputandolo un semplice aggiustamento diplomatico.

Sta di fatto che già a marzo le università britanniche avevano richiesto al governo, attraverso un comunicato on line, di prendere in considerazione manovre politiche di supporto alle università con l’obiettivo di “minimizzare la turbolenza e massimizzare le opportunità” dell’uscita dall’Europa. In risposta, il 2 luglio il Dipartimento dell’Istruzione britannico ha annunciato un impegno importante sul fronte universitario: gli studenti europei che si iscriveranno all’anno accademico 2019-20 pagheranno lo stesso ammontare di tasse dei colleghi britannici per tutta la durata dei loro corsi e potranno inoltre ricevere prestiti governativi.

Se il governo inglese sembra dunque aver adottato una strategia di apertura, anche l’Unione europea è di fatto andata incontro all’accademia britannica, elaborando piani di mobilità studentesca e finanziamenti alla ricerca che pare includeranno la Gran Bretagna anche nel malaugurato caso di una Brexit rigorosa. La proposta dell’Ue per il nuovo programma Erasmus+ 2021-27 prevede infatti l’apertura a nazioni non europee (il programma oggi in vigore guarda sì anche a paesi extra-Ue, ma molto limitatamente) e alza il proprio budget da 14,7 miliardi a 30 miliardi di euro. Una mossa che sembra voler spalancare le porte proprio all’ammissione di una Gran Bretagna post-Brexit, proclamando comunque intenti di “evoluzione, non rivoluzione”, secondo la Commissione europea.

Anche sul fronte della ricerca scientifica, la proposta della Commissione per la ricerca nel bilancio di Horizon Europe, il programma che succederà ad Horizon 2020, pavimenta la strada per la partecipazione del Regno Unito, ampliando anche in questo caso la partecipazione a nazioni extraeuropee. Horizon Europe, che prevede un finanziamento di 100 miliardi di euro (effettivo solo dopo l'approvazione del nuovo bilancio dell'Unione), partirà a il 1° gennaio 2021.

L’inclusione o meno della Gran Bretagna nei finanziamenti Ue pesa considerevolmente sul piatto della bilancia e bastano pochi dati per comprenderne la portata: per finanziamenti europei alla ricerca oggi è seconda solo alla Germania ed è anche una delle destinazioni favorite di chi ottiene finanziamenti individuali; una grossa parte dello staff delle università, il 17%, proviene da altre nazioni europee; circa metà degli studi scientifici pubblicati nel Regno Unito sono elaborati in collaborazione con almeno un partner internazionale; delle prime 20 nazioni con cui la Gran Bretagna collabora nella ricerca, 13 sono europee. Per finanziamenti europei alla ricerca, insomma, lo UK incanala cifre astronomiche: nel programma europeo FP7 ha ricevuto circa 8,6 miliardi di euro e ha contribuito per 5,4 miliardi.

Se quindi una chiusura dell’Ue, seppur molto improbabile, potrebbe essere devastante per la Gran Bretagna, probabilmente non sarebbero indifferenti nemmeno le ricadute sulla ricerca per molti altri Paesi europei, Italia compresa. Alcune nazioni, come quelle dell’Europa dell’est, Polonia e Ungheria in prima linea, che non hanno accordi di collaborazione particolarmente importanti con la Gran Bretagna, probabilmente non soffrirebbero molto dell’impatto di una hard Brexit. Addirittura, la Germania potrebbe beneficiare di una ricollocazione eventuale dei finanziamenti. Ma le nazioni del Nordeuropa, come Danimarca e Olanda, che per le loro performance positive nel campo dei finanziamenti europei alla ricerca devono molto alla collaborazione con il Regno Unito, potrebbero risentirne notevolmente, ma allo stesso tempo riuscire a deviare verso di sé, in parte, i flussi di mobilità per studio e ricerca. Il discorso è simile per l’Irlanda, che potrebbe accogliere molta parte della mobilità studentesca e di ricerca tradizionalmente diretta in Inghilterra, a patto però di riuscire a slegarsi dal sistema accademico inglese.

Gli enti britannici di ricerca ad oggi finanziati dall’Unione europea “sono preoccupati di perdere fondi nel campo delle materie umanistiche e delle scienze sociali” sottolinea Aline Courtois, ricercatrice dell’University College di Londra: dubitano infatti che “il governo inglese rimpiazzi i finanziamenti europei in quei settori, visto il contesto di crescente commercializzazione dell’educazione universitaria”.

I timori, da ogni parte, non dovrebbero concretizzarsi, vista la situazione ad oggi, e la strada sembra in effetti essere spianata verso un impatto soffice della Brexit. Sempre che Unione europea e Regno Unito proseguano in direzione di un incontro a metà via.

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