SCIENZA E RICERCA

Il buco dell'ozono si richiuderà entro metà secolo

Si intitola Scientific Assessment of Ozone Depletion: 2022, che in italiano suona “Valutazione scientifica dell'esaurimento dell'ozono per il 2022”, pubblicato all’inizio dell’anno dall’Organizzazione Meteorologica Mondiale. Contiene la notizia che è rimbalzata sui media di tutto il mondo: il “buco dell’ozono” si chiuderà a metà di questo secolo. Una notizia che ha fatto dire a molti - attivisti, scienziati e osservatori - che gli accordi internazionali sui temi ambientali funzionano. Se applicati.

Che cosa c’è di nuovo nel rapporto 2022

“Dal mio punto di vista di scienziata, non si tratta di una notizia sensazionale”, spiega in collegamento Skype dall’Argentina, dove si trova in questi giorni, Michela Maione, docente di chimica dell’ambiente e dei beni culturali all’Università Carlo Bo di Urbino. La notizia non l’ha sorpresa, ci spiega, perché la comunità scientifica che si occupa dell’argomento era già da anni consapevole di questa tendenza. La differenza, espressa in termini scientifici dal rapporto dell’Organizzazione Meteorologica Mondiale, è che le analisi più recenti e approfondite mostrano una solidità senza precedenti.

Le fa eco Birgitt Hassler, ricercatrice all’Institute of Atmospheric Physics vicino a Monaco di Baviera, in Germania, sottolineando che “alcune metriche hanno mostrato l'inizio del recupero dell'ozono da diversi anni”. Ma lo si poteva affermare con grande sicurezza solo per alcune metriche e regioni specifiche. “La novità del rapporto è che questo fatto è rilevabile in un intervallo di altitudine di circa 40 chilometri tra 60 gradi di latitudine nord e 60 gradi di latitudine sud”. In poche parole, lo strato di ozono è in via di recupero praticamente ovunque nell’atmosfera terrestre. E, sottolinea Hassler, lo si vede analizzando diverse fonti di dati, rafforzando le dichiarazioni del rapporto.

“La novità del rapporto è che questo fatto è rilevabile in un intervallo di altitudine di circa 40 chilometri tra 60 gradi di latitudine nord e 60 gradi di latitudine sud” Birgitt Hassler, Institute of Atmospheric Physics - Germania

Il “buco dell’ozono” e il protocollo di Montreal

Quello che comunemente chiamiamo “buco dell’ozono” è la riduzione dello strato di ozono presente nell’atmosfera terrestre. A causarlo è stato il rilascio soprattutto dei clorofluorocarburi (CFC) presenti, per esempio, nelle prime bombolette spray e negli impianti di refrigerazione. Ma alcuni CFC possono anche essere il risultato di procedimenti industriali. L’ozono è una molecola formata da tre atomi di ossigeno presente soprattutto in alcuni strati dell’atmosfera (la cosiddetta “ozonosfera”). Una riduzione della sua concentrazione permette a una quantità maggiore di raggi ultravioletti (UV) provenienti dal sole di raggiungere la superficie terrestre, contribuendo al suo riscaldamento. Inoltre, esiste una relazione nota tra raggi UV e il melanoma della pelle.

La congiuntura che portò alla firma del protocollo di Montreal fu unica, aiutata dal fatto che si parlava di sostanze di sintesi che era più facile limitare Michela Maione, docente di Chimica per l'Ambiente - Università di Urbino

Alla fine degli anni Settanta le misurazioni dell’ozono in atmosfera mostrarono un assottigliamento dello strato di ozono stimabile intorno al 5%. Per una serie di ragioni legate alla circolazione globale dei venti, questo assottigliamento era particolarmente pronunciato sopra i due poli. Ecco quindi spiegato l’origine del termine “buco dell’ozono” o “buco nell’ozono”, anche se sarebbe stato meglio parlare di almeno due buchi. Individuata la causa e lanciato l’allarme, nel 1987 venne firmato il protocollo di Montreal, un’intesa internazionale sotto l’egida delle Nazioni Unite, che bandiva la produzione e l’utilizzo dei gas che causano l’assottigliamento dello strato di ozono dell’atmosfera. Quello che viene celebrato oggi sulla base dei dati scientifici è il successo di quell’accordo, sottoscritto praticamente da tutti i paesi del mondo.

 

Un protocollo oggi più difficile da firmare

I due protagonisti dell’accordo del 1987 furono il presidente americano Ronald Reagan e la premier del Regno Unito Margaret Thatcher. Due politici conservatori espressi da aree politiche che oggi non sono altrettanto in prima linea per contrastare la crisi climatica. “La congiuntura di allora”, racconta Maione, “fu abbastanza unica, aiutata dal fatto che si parlava di sostanze di sintesi, per quanto importanti per l’industria, che era più facile limitare”. Inoltre, ci fu una grande risposta da parte della cittadinanza all’allarme lanciato dalla comunità scientifica, “con la domanda di prodotti che contenevano CFC che è crollata”, facilitandone la messa al bando. Per quanto riguarda la situazione attuale, sottolinea Maione, “è più complessa e coinvolge interessi economici più vasti”.

Il risultato di quella congiuntura rara è che si sono evitati alcuni disastri. “Senza il Protocollo di Montreal”, spiega Hassler, “vaste aree del pianeta sarebbero diventate praticamente inabitabili, soprattutto ai tropici e alle medie latitudini”. Questo per via dell’effetto riscaldante di una maggior quantità di raggi UV, a cui si sarebbero sommati “anche cambiamenti climatici regionali con l’aumento delle temperature superficiali”. In più, racconta Maione, gli scienziati hanno stimato che senza intervento sui CFC nel 2060 “cinque minuti all’esterno sotto il sole avrebbe avuto gravi effetti sulla pelle”, con una maggior incidenza di tumori. Il protocollo di Montreal ha quindi salvato anche molto vite sotto questo punto di vista.

 

Non bisogna abbassare la guardia

Il successo del protocollo di Montreal fa dire anche a una parte della comunità scientifica che continuare a misurare con tanta attenzione le concentrazioni in atmosfera dei gas che hanno provocato il “buco dell’ozono” sia ormai inutile. In realtà continua ad avere senso perché permette di individuare emissioni illegali. Lo hanno dimostrato delle misurazioni rilevate in anni recenti da alcune stazioni della rete mondiale: nel 2018  in Cina sono state scoperte emissioni di freon-11, uno dei gas proibiti dal protocollo di Montreal.

 

L’indagine innescata dai dati raccolti da alcune stazioni sottovento rispetto alla Cina, sono proseguite con “l’infiltrazione di alcuni investigatori direttamente in alcune aree industriali del paese”, racconta Maione, “permettendo di scoprire che i gas illegali erano stati reintrodotti perché più economici”. La Conferenza delle Parti del protocollo ha immediatamente sanzionato la Cina e “l’emissione illegale è terminata”. Un’altra situazione analoga è stata rilevata dalla stazione di raccolta dati che si trova sul monte Cimone, nell’Appennino Tosco-Emiliano in provincia di Modena. La stazione, che fa parte della rete dell’Advanced Global Atmospheric Gas Experiment (AGAGE), “si trova in una posizione favorevole per intercettare le masse d’aria che arrivano dal sud della Francia”, spiega Maione. Sul Cimone è stata recentemente rilevata una concentrazione anomala di metilcloroformio, un altro dei gas illegali, “proveniente dall’area di Marsiglia, che sembra persistere”. In zona è presente, infatti, un'importante area industriale, dove il metilcloroformio potrebbe essere il risultato secondario di alcuni procedimenti chimici.

Esistono, infatti, emissioni secondarie che non sono da annoverare direttamente tra quelle fraudolente; derivano da procedimenti come per esempio la produzione del teflon. “Sono emissioni non intenzionali”, spiega Maione, “che mostrano la necessità, accanto alla possibilità di individuare violazioni del protocollo di Montreal, di continuare a misurare le concentrazioni di questi gas in atmosfera”. Oltre a ricordarci del successo, congiuntura rara o meno, della messa al bando dei CFC dovuta a un accordo internazionale. 

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