SOCIETÀ

Calorie perdute: lo spreco di cibo e il suo impatto sulla crisi climatica

«In termini di inquinatore a livello globale, se lo spreco fosse un paese, sarebbe al terzo posto dopo la Cina e gli USA e prima dell’India e della Russia», ha spiegato a Radio3Scienza Andrea Segrè, docente di Politica agraria internazionale all’Università di Bologna e fondatore del Last minute market e della campagna Spreco zero, in una intervista di circa un anno fa. C’è dunque un’impronta molto importante dello spreco sul clima, tanto più grave se consideriamo che si tratta di risorse naturali utilizzate per produrre qualcosa che non viene affatto utilizzato. 

A volte la questione dello spreco è vista più in chiave etica che in chiave ambientale. Eppure, quando pensiamo alla necessità di aumentare la produzione alimentare per nutrire i famosi 9 miliardi di esseri umani che popoleranno il pianeta nei prossimi decenni, capiamo che è necessario tenere insieme la riflessione e il ragionamento sul piano della produzione agricola, dell’impatto climatico e del corretto utilizzo delle risorse alimentari. 

C’è anche un'importante considerazione da fare riguardo alla sostenibilità. Oltre all’uso di risorse idriche ed energetiche per produrre qualcosa che non va a sfamare chi ha fame, c’è anche il tema della produzione di rifiuti. E a loro volta questi rifiuti generano un costo sia economico che ecologico, perché anche lo smaltimento è problematico. 

Sprechi e sprechi

“Non tutti gli sprechi sono creati uguali”. Lo scriveva nel 2013 un team di analisti e ricercatori del World Resources Institute (WRI) in un paper intitolato Reducing Food Loss and Waste in cui analizzavano la distribuzione degli sprechi di cibo lungo la filiera produttiva e distributiva. Uno degli aspetti più interessanti cui guardare, e che ci permette di avere immediatamente chiaro di cosa si parli, è la conversione in calorie perse degli sprechi.

Quando leggiamo che secondo i dati della FAO del 2011 (i più completi a livello di fotografia globale del fenomeno) vanno sprecate ogni anno 1,3 miliardi di tonnellate di cibo è difficile rendersi conto di cosa significhi: un numero grande, lontano dalla nostra vita quotidiana, che non ci consente di afferrare il senso profondo della questione. Ma se parliamo di 720 kilocalorie sprecate a testa ogni giorno, cominciamo ad avere una misura più concreta: significa per ogni tre abitanti della Terra si spreca ogni giorno il fabbisogno calorico di una persona. Significa che circa un quarto delle calorie che ogni giorno vengono prelevate, processate e distribuite quotidianamente non finisce nelle pance degli essere umani ma si perde lungo la filiera.

I dati del paper del WRI vanno ancora più nel dettaglio su questa conversione, in base alle tipologie di produzione. Si scopre così che i cereali sono solamente il 19% dello spreco in termini di massa, ma contano per oltre la metà delle calorie totali perdute. “La carne”, scrivono gli autori, “ha una piccola percentuale degli sprechi totali (7%), ma il suo ampio impatto ambientale in termini di emissioni di gas serra, uso del suolo e consumo di acqua per caloria, combinati con gli elevati costi economici della carne, suggeriscono che la riduzione della perdita e degli sprechi di carne dovrebbe ricevere almeno la stessa attenzione di altre materie prime, nonostante una quota minore di perdite caloriche”. 

Il peso della carne

Il ruolo dell’allevamento è messo in evidenza anche dal rapporto dell’Istituto Superiore per la Ricerca e la Protezione Ambientale (ISPRA) intitolato Spreco alimentare: un approccio sistemico per la prevenzione e la riduzione strutturali (2018). Analizzando le due grandi raccolti di dati della FAO (2007 e 2011) sul tema dello spreco alimentare, del totale della produzione di cibo, comprensiva di agricoltura, allevamento e pesca, una fetta pari a circa un quarto è ascrivibile agli sprechi degli allevamenti

Bisogna però fare attenzione, perché questo dato non significa automaticamente che quella fetta di alimenti è andata perduta. Qui, secondo una letteratura consolidata sulla materia, gli autori del rapporto considerano spreco alimentare la produzione agricola che è necessaria all’approvvigionamento degli allevamenti (mangimi, ma non solo) e che è costituita da cibo che invece che essere impiegato per il consumo animale viene impiegato per la produzione di cibo - la carne - di maggiore pregio economico. Fatto questo distinguo importante, rimane però evidente il peso del settore nell’ambito complessivo. 

Facendo riferimento ai dati del 2011, i ricercatori scrivono che “del 44% di spreco globale ben il 24% è causato da inefficienza di allevamenti animali [...]. Considerando anche gli usi non alimentari di prodotti edibili, inclusi foraggi edibili (come i raccolti da prati di mais e altri cereali, alfa alfa, trifogli, sulla, bietola, rapa) lo spreco in energia alimentare sale fino al 57% del totale prodotto. Se si disponesse di dati solidi e affidabili su ‘non rese’ e perdite precedenti e durante i prelievi, le quote di spreco sarebbero molto probabilmente ancora più alte”.

Un peso che è acuito dall’aumento (13,6%) delle colture agricole non destinate all’alimentazione, ma impiegate per la produzione di biocarburanti o altri scopi industriali che entrano in conflitto con le colture alimentari per il terreno coltivabile.

Questi numeri sono confermati anche a livello europeo e italiano. Anzi, mostrano come sulla scala del nostro continente e del nostro paese, gli allevamenti abbiano un peso ancora maggiore rispetto al dato mondiale: rispettivamente il 41,4% e il 44,5%. Così, nel paragrafo dedicato alle contromisure che si possono prendere su questo ambito specifico, gli autori tornano a sottolineare che “gli allevamenti sono altamente inefficienti nella conversione energetica delle colture dedicate a mangime animale rispetto al consumo umano diretto, in particolar modo gli allevamenti bovini. Un’altra priorità per prevenire lo spreco e garantire la sicurezza alimentare dovrebbe quindi essere quella di migliorare efficienza, efficacia e condizioni dell’allevamento e dell’alimentazione animale, anche per ridurne gli effetti ecologici e nutrizionali”.

Gli allevamenti sono altamente inefficienti nella conversione energetica delle colture dedicate a mangime animale rispetto al consumo umano diretto. Rapporto ISPRA - Spreco alimentare: un approccio sistemico per la prevenzione e la riduzione strutturali (2018)

Geografia dello spreco

Già dal grafico sulla distribuzione per aree del mondo degli sprechi in termini calorici si intravede come non si tratti di un fenomeno omogeneo dal punto di vista geografico. I ricercatori del WRI hanno diviso il percorso del cibo dalla produzione al consumo in cinque tappe: produzione, trattamento e conservazione, lavorazione e confezionamento, distribuzione e, infine, il consumo vero e proprio.

Non ci sono grandi differenze tra paesi economicamente più ricchi e i paesi con economie in sviluppo, tra il cosiddetto Nord e il cosiddetto Sud del mondo. Guardando il fenomeno in termini di proporzione, le inefficienze colpiscono i primi quattro passaggi in modo simile. Non è così quando si va a guardare lo spreco a livello di consumo, dove risultano molto maggiori lo spreco e le perdite sul fronte del consumo nei paesi più ricchi. Addirittura il 28% di tutto lo spreco avviene a questo livello.

Un terzo di ciò che si produce a livello globale non finisce nei nostri piatti

I colli di bottiglia delle filiere di produzione e distribuzione alimentare

Lo spreco è una questione di comportamento individuale, almeno in parte. E pesa anche in modo molto concreto sulle nostre tasche, visto che il valore medio buttato via ogni anno da ciascuno di noi è di poco meno di 200 euro. E su questo molto si può fare cambiando le proprie abitudini. In occasione del Natale 2019, ma naturalmente vale anche per quello che sta arrivando e per tutte le volte in cui ci prepariamo a mangiare tanto e fare scorta di tanto cibo, Andrea Segré ha preparato un quintalogo dello spreco zero, che vi riproponiamo qui di seguito. 

I dati della Campagna spreco zero danno anche altre informazioni utili. Attraverso la raccolta di dati con questionari e con i diari di quasi 400 consumatori, il progetto REDUCE fatto dalla Campagna Spreco Zero arriva a quantificare in modo molto chiaro quanto e cosa si spreca nelle nostre famiglie.

Buttiamo via il cibo perché ne compriamo troppo, o ne prepariamo troppo, o non pensiamo bene a cosa acquistiamo e poi non ci piace, come vediamo nel grafico qui sopra. E buttiamo via soprattutto frutta e verdura ma anche tanta carne, latticini e prodotti da forni, come illustrato nel grafico qui sotto.

Non c’è dubbio quindi che molto può essere risparmiato cambiando il nostro modo di gestire il cibo. C’è però anche una dimensione sistemica che ha, per così dire, una componente innata di spreco. Ed è proprio la filiera agro-industriale, nel suo complesso, a produrre spreco in più passaggi. 

Il forte aumento del commercio alimentare internazionale unito alle dinamiche demografiche mondiali rendono sempre più fragile la sicurezza alimentare globale Rapporto ISPRA - Spreco alimentare: un approccio sistemico per la prevenzione e la riduzione strutturali (2018)

Pubblicato nel 2018, il già citato Rapporto Ispra Spreco alimentare: un approccio sistemico per la prevenzione e la riduzione strutturali evidenzia alcuni aspetti meno noti che tengono insieme lo spreco di alimenti, l’impatto ambientale, l’effetto sulla sicurezza alimentare e anche il sistema di produzione e distribuzione del cibo nel mondo.

In particolare, citando tutta una serie di studi di lungo periodo e di monitoraggi effettuati nel corso degli ultimi 25 anni, il rapporto indica che lo spostamento progressivo verso un modello sempre più internazionalizzato di produzione e commercializzazione del cibo sembra limitare la sicurezza alimentare sia nei paesi esportatori che in quelli importatori

Sono proprio le condizioni strutturali del sistema alimentare globale che possono, per diverse ragioni, indurre un aumento delle dipendenze da parte di alcuni paesi nei confronti di altri. La situazione di insicurezza è anche peggiorata dal fatto che i beni alimentari sono “trasformati in merci (commodities) che vengono scambiate sui mercati informatizzati dei derivati finanziari a scadenza (futures), in modo non sufficientemente regolamentato, così da permettere importanti speculazioni finanziarie e l’immissione sul mercato della sovrapproduzione in eccesso.” Ed è proprio su questo cambiamento di status del cibo, da elemento centrale delle culture, ricco di valore simbolico e sociale oltre che economico, a mera merce di scambio che molti autori imperniano il ragionamento sulla crisi del sistema alimentare globale.

“Molto spesso le stesse compagnie che detengono il controllo dei nodi globali dei flussi alimentari come quelle del commercio internazionale di alimenti e materie prime,” aggiungono gli autori del report Ispra, “controllano società private o fondi di investimento che operano su questi mercati. Gli strumenti finanziari speculativi creano flussi di dimensioni enormemente più grandi di quelli dell’economia dei prodotti alimentari, condizionandone quindi le dinamiche e le scelte anche istituzionali.”

In definitiva, l’aumento dell’instabilità alimentare e dello spreco seguono andamenti fortemente infuenzati da tutta una serie di fattori di sistema: la crescita demografica, l’urbanizzazione, l’elevata disponibilità energetica che deriva dallo sfruttamento di fonti fossili, la costituzione di macro-sistemi agroindustriali di massa che seguono tutta la filiera, dalla produzione alla distribuzione al consumo e infine anche una vera e propria filosofia di crescita infinita della produzione che non tiene conto né degli impatti ambientali, né della finitezza delle risorse.

Il sistema agro-industriale genera diverse problematiche che abbiamo analizzato anche in altri articoli qui su Il BO Live, ma nel contesto dello spreco il suo contributo diventa particolarmente pesante su due fronti: quello della sovrapproduzione e aumento delle eccedenze, sempre più consistenti su determinati mercati, e quello della concentrazione di alcune attività chiave nelle mani di pochissimi attori, poche aziende che fanno, secondo la definizione del rapporto ISPRA, da vero e proprio collo di bottiglia. La figura qui sotto, presa dal rapporto, evidenzia proprio alcuni di questi punti di controllo accentrato nelle mani di pochissimi attori, che rischiano di essere al contempo generatori di spreco.

Alla base del sistema agroalimentare ci sono gli agricoltori, circa 570 milioni di aziende agricole, in grandissima parte piccole o molto piccole, e all’uscita ci sono gli oltre 7 miliardi di abitanti del pianeta. Ma come vediamo, la filiera è controllata da attori globali che concentrano in poche mani un enorme controllo: 

  • meno di dieci aziende sementiere che controllano il 75% del mercato dei semi globale e che sono anche le principali produttrici e distributrici di prodotti agro-chimici; 

  • cinque aziende che raccolgono i dati e gestiscono tutte le filiere di smart agriculture e di informatizzazione dell’agricoltura; 

  • quattro grandi corporation che controllano la gran parte del commercio mondiale di soia e cereali;

  • dieci aziende che controllano la trasformazione dei prodotti alimentari;

  • dieci aziende che distribuiscono al dettaglio, limitandoci al caso europeo, dove in 13 paesi i primi 5 rivenditori controllano oltre il 60% del mercato

Questi numeri sono indicazione chiara di un fenomeno che ha attraversato il settore negli ultimi dieci anni, e che ha portato a una serie di tumultuose fusioni, acquisizioni e consolidamenti. Chi scrive ha lavorato lungamente su una inchiesta che ha analizzato la concentrazione del mercato sementiero dagli anni ‘90 a oggi (Seedcontrol.eu, disponibile sia in italiano che in inglese). Ma la tendenza al consolidamento attraversa l’intero comparto, come ben descrive l’economista agrario Phil Howard, della Michigan State University, nei suoi articoli scientifici e anche come co-autore di un volume da poco pubblicato che fa il punto sullo stato dell’arte del mercato agro-industriale, Transformation of our food systems - the making of a paradigm shift

Diverse organizzazioni internazionali hanno allertato sul fatto che queste concentrazioni e le risultanti enormi dimensioni delle aziende del settore “potrebbero rappresentare una minaccia per le possibilità di nutrire in modo sostenibile la popolazione mondiale, di operare in modo equo con gli altri attori dei sistemi alimentari e di guidare l’innovazione nella necessaria direzione.” 

In definitiva, i dati e gli studi pubblicati negli ultimi anni (ce ne siamo occupati recentemente anche su queste pagine - Ricerca agricola: dobbiamo fare più attenzione ai piccoli agricoltori) vanno nella direzione di ritenere che la maggior parte delle perdite alimentari sia prodotta nelle aziende di grosse dimensioni che adottano sistemi intensivi di produzione e nelle reti di consumo connesse alla grande distribuzione. L’aumento di scala porta a un aumento più che proporzionale delle perdite. “La propensione dei sistemi industrializzati è quella di cercare di compensare questo deficit soprattutto mediante l’utilizzo di nuovi strumenti tecnologici e input esterni, aumentando considerevolmente e continuamente i costi complessivi economici, ambientali e sociali, che sono altresì nascosti dai meccanismi di scala e di delocalizzazione” sostengono ancora i ricercatori ISPRA. Al contrario, però, “nella letteratura scientifica è consolidata l’evidenza di una relazione inversa tra dimensioni delle aziende agricole e produttività (e minori perdite) a parità di unità produttiva”. Insomma, in altre parole, sono proprio le piccole aziende contadine, quelle che appunto sono responsabili della produzione della stragrande maggioranza del cibo al mondo, a costituire forse una via più sostenibile e meno sprecona alla produzione alimentare e all’accessibilità al cibo per la maggior parte della popolazione umana.

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