SOCIETÀ

I cambiamenti di Instagram e la divulgazione in pillole

Per anni Instagram è stato considerato i social degli influencer, ma soprattutto delle influencer: quelle che parlavano di moda, aprivano pacchi pieni di vestiti e diffondevano codici sconto per guadagnare una percentuale sulle vendite. Questo accadeva attorno al 2016, ma da allora anche altre categorie di persone sono sbarcate sul social: consulenti, personal trainer, dietologi e alla fine anche i divulgatori. Ognuna di queste categorie ha ricevuto una notevole attenzione iniziale, com’è facile intuire: se sei il primo che parla di un determinato argomento e al pubblico interessa, essendoci poca o nessuna concorrenza l’algoritmo del social tenderà a mostrare i tuoi contenuti a tutti i profili interessati. I divulgatori sbarcati sulla piattaforma nel 2018/2019, o comunque prima del boom del 2020, hanno beneficiato di questo particolare momento in cui, senza nemmeno impegnarsi molto (e c’era chi invece lo faceva), si poteva costruire una discreta base di fan affezionati, avendo anche l’occasione di approfondire gli argomenti in modo dettagliato senza annoiare: siamo propensi a investire più tempo ed energie quando una cosa è nuova, e per noi non era un problema seguire anche dirette di un’ora.

Poi c’è stato il Covid, e le cose hanno cominciato a cambiare. Durante il lockdown, sulla piattaforma sono arrivati molti divulgatori, per due principali motivi: da una parte, come tutti noi, avevano più tempo da investire nella produzione di contenuti, dall’altra durante la pandemia ci si era finalmente resi conto dell’importanza della comunicazione scientifica, e della necessità di andare oltre i canali tradizionali come giornali e televisione, che spesso venivano monopolizzati dalle stesse persone. In altre parole: se si voleva arrivare a un vasto pubblico e non si era già un punto di riferimento grazie alla televisione, i social erano ancora la via giusta, almeno all’inizio. Poi, però, cos’è successo? In generale, non solo tra gli interessati alla divulgazione, sono aumentati gli utenti. Una tendenza che, tra l’altro, continua a livello globale, tanto che il loro numero, secondo un’indagine di Sproutsocial è cresciuto di 320 milioni di persone da gennaio 2023 a gennaio 2024. Fino a qui non c’è nulla di male, anzi: se aumentano gli utenti, aumenta anche il pubblico. Il problema è che a volte questi utenti a loro volta si volevano cimentare nella produzione dei contenuti, che a un certo punto sono diventati troppi rispetto alle persone disposte a guardarli, soprattutto quando, passata l’emergenza, si è tornati a vivere fuori dallo schermo. Questo significa che la copertura organica (quella cioè non favorita dagli annunci a pagamento) si è abbassata.

A questo punto alcuni tra i più illuminati hanno fatto ricorso a una strategia di advertising, creando e selezionando dei contenuti specifici per essere sponsorizzati a pagamento, soprattutto con l’obiettivo di aumentare la visibilità, ma non solo. I più sagaci hanno utilizzato gli annunci per portare i loro follower su un canale alternativo, non dipendente dagli algoritmi, come potrebbe essere una newsletter. Di nuovo, questa operazione all’inizio ha funzionato molto bene. Così bene che molti hanno preso esempio. Le sponsorizzate, però, si basano su un sistema ad asta, in cui si compete per la visibilità, e non solo con i competitor diretti: se più persone investono in annunci sui social, aumentano i costi, e se gli annunci non determinano delle entrate il rischio è che l’operazione non sia più sostenibile.

I social, e in particolare Instagram, sono sempre più affollati, e la soglia di attenzione si è abbassata

Per vincere questa battaglia, ma anche per provare a diffondere organicamente i propri contenuti, il modo migliore è andare a intercettare le “preferenze” dell’algoritmo. Falsa è infatti la credenza che basti pagare per raggiungere il proprio pubblico con gli annunci: il sistema ad asta va infatti a premiare, a parità di investimento, i contenuti più apprezzati dalle persone, che attualmente sono quelli brevi e semplici.
Beatrice Mautino, divulgatrice molto seguita e autrice, tra gli altri, de La scienza dei cosmetici, rispondendo alla domanda di un utente che le chiede dove si sposterà la divulgazione risponde: “Si è già spostata. Dove? YouTube e podcast che consentono di spiegare le cose per bene. Newsletter. Libri. Qua rimangono le ca*****, le pillole, le robe leggere, il ti spiego la scienza in due minuti e tre animazioni. Non sono contenta di questa cosa, perché significa che chi non si sposta da qui avrà meno accesso all’informazione. Però non ci si può fare niente se non cercare di far sapere che esistono altri luoghi”.

Mautino ha messo in evidenza un problema importante, che è quello dell’accesso all’informazione, ma forse la responsabilità non è dei divulgatori, e nemmeno di Instagram. Lei ha ragione: i contenuti più brevi sono favoriti dal social, ma non è detto che il primo responsabile sia l’algoritmo. Ci sono dei casi in cui un determinato formato è favorito a prescindere, ed è successo, per esempio, quando Instagram ha introdotto i reel per far fronte all’esodo di utenti che si stavano trasferendo in massa su TikTok. Il messaggio era chiaro: “Non andate di là, i video brevi ci sono anche qua, e guardate quanti sono!” Per il resto, l’algoritmo tende ad adattarsi alle preferenze degli utenti, perché il suo scopo ultimo è quello di mantenerli sulla piattaforma più tempo possibile, in modo che possano vedere il maggior numero di annunci sponsorizzati, che sono attualmente il prodotto di punta di Meta e compagni, nonostante l’introduzione dei vari abbonamenti. In quest’ottica, la nemica giurata di ogni creatore di contenuti è la soglia di attenzione, che è molto bassa (si parla addirittura di 8 secondi). Se dopo 8 secondi una persona si stufa di quel video e va oltre, il segnale che arriva all’algoritmo è chiaro: quel contenuto non è interessante. In certi settori è facile bypassare il problema (“5 outfit perfetti per Pasquetta” diventa, con minore sforzo, “L’outfit perfetto per questa Pasquetta piovosa”), ma nella divulgazione le pillole andrebbero affiancate a qualcosa di più approfondito.

“C’è stato – conferma Mautino – anche un cambiamento nella quantità di informazioni a disposizione nel settore. Quando io sono arrivata su Instagram eravamo proprio pochi divulgatori, mentre adesso ce ne sono tantissimi, e quindi chiaramente l'offerta aumenta e aumenta anche la frammentazione. Per me è più difficile fare una cosa che in passato mi ha permesso di crescere molto, cioè intercettare bolle diverse e raggiungere un pubblico che magari prima non avrebbe mai seguito un profilo scientifico, ma trovando per caso il mio si scopriva interessato”.
Questo risultato si può ottenere tutt’ora, magari in misura minore, con le pillole, i contenuti facili, che non impegnano troppo e possono aiutare ad attirare il target di riferimento. È il concetto di funnel (imbuto): attiriamo delle persone interessate alla materia che trattiamo, anche solo superficialmente. Parte di queste persone si fermerà alle pillole, gli altri saliranno al livello successivo di approfondimento, fino ad arrivare a chi segue un video di un’ora dall’inizio alla fine. Le pillole, infatti, non sono il male assoluto, al netto del fatto che come tutti i contenuti possono essere fatte bene o male, ma portano con sé due problematiche.

Da un lato, chi non si perde una video pillola di un divulgatore X potrebbe pensare di dominare la materia, anche solo come cultore, quando invece, in un’ottica di funnel, quella pillola è la parte più superficiale di un problema molto più ampio che andrebbe approfondito (oppure no, non è detto che gli utenti debbano interessarsi a tutto, ma almeno ci deve essere la coscienza di avere una visione estremamente parziale di quell’argomento). Il problema principale, però, è che l’approfondimento richiede uno sforzo che la maggior parte degli utenti non è disposto a fare e che l’algoritmo non favorisce in alcun modo. Quando i divulgatori erano pochi, non era raro che contenuti molto lunghi venissero mostrati anche a chi non seguiva il profilo che l’aveva pubblicato. “All’inizio – conferma Mautino – il classico spiegone nelle storie veniva visto dalla maggior parte degli utenti fino alla fine, il livello di attenzione era molto più alto, sia perché l’algoritmo non penalizzava quei contenuti sia perché c’era meno scelta, quindi era tutto meno dispersivo. Oggi la gente usa Instagram in un modo molto diverso, spesso non accende nemmeno l’audio”. Adesso infatti un video lungo viene mostrato poco anche ai follower, perché la maggior parte di loro lo abbandonerà nei primi minuti. “Questo però fa sì – spiega Mautino – che quel tipo di informazione che ha bisogno del tempo e dell’approfondimento non avrà più modo per stare su Instagram”. Giustamente: perché un divulgatore dovrebbe investire tempo ed energie per creare un contenuto che solo in pochi vedranno? Anche se lo ricondividesse nelle proprie storie la copertura rimarrebbe bassa, e anzi spesso Instagram penalizza le storie di questo tipo (“Vuoi visibilità gratuita? E io non te la do! Caccia la grana come fanno tutti i tuoi competitor” direbbe l’algoritmo se avesse voce).

La divulgazione dovrebbe essere un'attività economicamente sostenibile, per il bene dei divulgatori ma anche degli utenti

A questo punto per un contenuto di approfondimento ci si sposta su YouTube, in un podcast o in una newsletter. Il difficile, però, è far uscire da Instagram le persone impegnate in uno scrolling infinito, e, come scriveva Mautino, bisogna ricordare più volte che esistono questi altri canali, perché magari l’utente pensa “dopo mi iscrivo” e quel dopo non arriva mai, se non a fronte di un nuovo stimolo che arriva in un momento diverso.

Forse alcuni divulgatori sono arrivati a questo punto nella speranza di trovare una soluzione, e rimarranno delusi. Nella maggior parte dei casi, infatti, abbandonare Instagram non è una buona idea: “Ho fatto – racconta Mautino – degli esperimenti con YouTube, ma Instagram rimane la piattaforma che a livello di business converte meglio: lì non ho solo tanti click, ma anche tanti acquisti, mentre i video su YouTube non hanno quasi mai portato alla vendita di un libro”. Il che, forse, potrebbe essere la prova che chi arriva su YouTube per un contenuto più impegnativo il libro mediamente lo ha già comprato: il funnel funziona, ma è faticoso gestirlo.

Questo discorso del ritorno economico della divulgazione, comunque, dovrebbe interessare anche gli utenti: è bello ottenere informazioni gratis, ed è nobile volerle fornire, ma a un certo punto se non c’è un’entrata fissa di altro tipo (per esempio se il divulgatore è un docente) è quasi inevitabile smettere di condividerle e dedicarsi ad altro, perché è un investimento di tempo e spesso anche di denaro, tra post sponsorizzati, attrezzature, programmi come le piattaforme di programmazione e di editing per i video e per le foto e via dicendo.

Cosa può fare un divulgatore, quindi? Dovrebbe portare avanti una strategia che preveda almeno due canali: Instagram come il social che permette di costruire una community, di interagire con i follower e in un secondo tempo anche di aumentare le vendite, per esempio di un libro. Per chi è all’inizio non è consigliabile ispirarsi all’attuale strategia di Mautino, che prevede soprattutto la condivisione di contenuti personali: lei è già conosciuta, e può usare questa piattaforma per mantenere il rapporto con la community, segnalando podcast, libri ed eventi ottenendo ottimi risultati. Chi non è ancora a questo punto, invece, se è interessato a usare questo social dovrà pubblicare quel tipo di contenuti che piacciono alla maggior parte degli utenti e quindi all’algoritmo. La divulgazione vera e propria, però, sarà fatta su un altro canale, magari uno su cui si ha il controllo (ideale la newsletter, perché un indirizzo conquistato rimane tuo finché l’utente non ti revoca il permesso di usarlo, senza algoritmi che ti possano mettere i bastoni tra le ruote). È impegnativo, ma, prendendo di nuovo le parole di Mautino: “Non possiamo farci un gran che, non possiamo cambiare l’algoritmo né il modo in cui le persone stanno sui social”. Un lavoro portato avanti con costanza e strategia darà i suoi risultati, anche senza raggiungere subito centinaia di migliaia di persone.

Come utenti, invece, abbiamo un ampio spazio di manovra. Dobbiamo riappropriarci dell’informazione, seguire meno profili sui social, porre dei limiti allo scrolling selvaggio e selezionare le informazioni che ci interessano davvero, nell’ottica di andarle a cercare attivamente nei canali che le possono approfondire. Tutti noi abbiamo solo 24 ore al giorno, ma non per questo dobbiamo lasciare che una multinazionale decida al nostro posto.

POTREBBE INTERESSARTI

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012