Puntuale, come ogni anno da più di 20 anni a questa parte, il rapporto Education at a glance di OCSE è arrivato nella prima settimana di settembre zeppo di dati sullo stato di salute della scuola nei paesi che fanno parte dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, OCSE appunto. Quest’anno però il rapporto arriva nel mezzo della pandemia e si arricchisce dunque di un contributo specifico, The impact of Covid 19 on education, costruito a partire da una selezione degli indicatori usati per il rapporto principale, che prova a ragionare sul ruolo della scuola come strumento di resilienza sociale. Una parola senz’altro abusata, resilienza. Ma adatta in questo caso, dato che si cerca di capire quanto i sistemi educativi possano essere messi in crisi da quello che sta succedendo e cosa sia possibile immaginare in termini di impatto futuro.
Come si misurano i sistemi educativi
A ogni pubblicazione dei rapporti OCSE sulla scuola, da Education at a glance a OCSE-Pisa, i protagonisti sono spesso i numeri. Usati per fare comparazioni e trarre conclusioni sullo stato di salute di questo o quel sistema scolastico. Facciamo un passo indietro, però, e proviamo a capire quale sia il ragionamento che sta dietro quei numeri e la loro raccolta, e quindi come vengano scelti gli indicatori.
Il rapporto OCSE non è nato per dare una pagella né per fare una graduatoria. Molto spesso, nella comunicazione pubblica di questi lavori, finiamo con il privilegiare solo questi aspetti e attorno a questi poi c’è sempre un dibattito anche mediatico che distoglie dal vero valore informativo dei dati raccolti. Una tendenza, va sottolineato, che infastidisce poi gli addetti ai lavori che vivono la pubblicazione di questi studi come una sorta di momento di gogna pubblica. Soprattutto in Italia dove ci siamo abituati a essere spesso in fondo alla scala: che si parli di innovazione, di digitalizzazione, delle cosiddette competenze acquisite in ambito scolastico e di molti altri settori, il nostro paese finisce lì, tra quelli messi peggio, insieme a un pugno di altri paesi considerati, sostanzialmente, casi disperati.
Il senso vero di questi enormi lavori di raccolta e analisi dei dati, sarebbe in realtà più quello di informare i legislatori e i policy makers e di dare dunque strumenti di elaborazione delle politiche educative che si basino sui dati. Ma proprio questo ci riporta a un nodo di criticità: la scelta del tipo di dati raccolti finisce con l’avere inevitabilmente un peso notevole sul risultato. In molti hanno criticato nel corso degli anni la tendenza sempre più diffusa a utilizzare i rapporti OCSE-Pisa e dunque i test che stanno dietro la raccolta di quei dati per mettere in campo riforme spesso affrettate e poco sensate solo per risalire di qualche posizione nel confronto con altri paesi. Non solo, questa stessa frenesia ha anche ricadute sulla metodologia didattica perché finisce con l’influenzare in modo significativo le attività svolte in classe che devono includere sessioni di preparazione al test, spesso in contraddizione con una pedagogia che si basa su altri presupposti e non sul test compulsivo. La discussione è ben documentata da molti scambi a volte anche accesi tra sostenitori e detrattori dei test e della misurazione quantitativa delle performance educative. Nel 2014, un gruppo nutrito di accademici, docenti e ricercatori di molti paesi diversi ha pubblicato una lettera-appello rivolta al direttore dell’OCSE sul quotidiano britannico The Guardian, dal titolo OECD and Pisa tests are damaging education worldwide esplicitando una serie di critiche e facendo delle controproposte. La risposta di Andreas Schleicher, direttore del settore educativo di OCSE, oltre a voler precisare che molte delle informazioni contenute nella lettera sono scorrette, difende l’idea che la comparazione consenta, al contrario, la messa a punto di sistemi correttivi delle disuguaglianze e di politiche di breve ma anche medio termine che migliorino la qualità dell’educazione.
Un tema interessante, o almeno uno spunto su cui ragionare, è la (apparente) contraddizione tra l’idea di un’educazione principalmente mirata alla formazione di cittadini consapevoli del proprio ruolo e dei propri diritti all’interno delle nostre democrazie nonché allo sviluppo completo e al benessere della persona e quella più fortemente influenzata dalle necessità e richieste dei sistemi economici, che dunque guarda alla scuola principalmente come a un laboratorio di costruzione di competenze spendibili poi sul mercato. Diciamo apparente perché è evidente che nella testa di molte persone la scuola risponda in realtà ad entrambe le esigenze, diventando luogo imprescindibile di formazione culturale e umana ma anche mezzo per la costruzione di nuove o maggiori opportunità di costruzione di un futuro lavorativo soddisfacente e di una possibilità di mobilità socio-economica.
Education at a glance non ha lo sguardo ristretto solo sulle competenze tipico dei test Pisa, va detto. Al contrario, la scelta degli indicatori è sufficientemente ampia per poterne utilizzare i risultati per fare un ampio range di considerazioni e comparazioni. La scelta di questi indicatori, specificano i redattori del rapporto nella nota metodologica, deve guardare ai temi che sono presenti nelle agende politiche nazionali e per i quali la comparazione internazionale può offrire spunti di miglioramento, come ad esempio la percentuale di spesa pubblica dedicata alla scuola o agli investimenti in università, o lo stipendio dei lavoratori del comparto scolastico. Gli indicatori devono permettere delle comparazioni ma non devono perdere la capacità di descrivere anche le specificità dei diversi paesi, tanto che poi nel rapporto c’è una serie di focus paese per paese che guarda più in dettaglio le diverse realtà. Devono poi essere indicatori chiari, comprensibili ma non così semplici da perdere di significato, data la complessità delle situazioni misurate. E infine, devono essere in numero gestibile ma al contempo permettere di avere un quadro sufficientemente completo della situazione. Ci sono di output e altri di input, che guardano ad esempio agli investimenti fatti e alle risorse in termini di docenti. Una descrizione più dettagliata e comprensiva si può trovare direttamente qui.
Cosa c’è di nuovo nel rapporto 2020
Dati sul rapporto tra educazione e mondo del lavoro, sull’impatto sul reddito a seconda del percorso scolastico scelto, sugli incentivi a studiare. Ma anche dati sulla popolazione scolastica, sulla mobilità, e sul rapporto tra scuole secondarie e università. E poi dati sui finanziamenti alle scuole, e sui profili degli insegnanti, dei loro stipendi, e via dicendo. Torneremo su questi dati in una prossima puntata. Per ora però ci concentriamo sulle due novità del rapporto di quest’anno rispetto alle edizioni precedenti. Il focus sulla formazione tecnico-professionale e quello sugli impatti della pandemia in corso sui sistemi educativi.
Focus sulle scuole tecniche.
Da un lato la pandemia ha reso evidente il ruolo fondamentale di lavoratori dei comparti tecnici, da quelli ospedalieri a quelli alimentari, alla manifattura e via dicendo. Dall’altro, la formazione tecnico-professionale è spesso trascurata nei discorsi sulla scuola ed è però anche quella che più rischia di subire conseguenze negative grazie a Covid. I laboratori pratici fanno fatica ad essere svolti, gli stage in azienda sono sospesi, la possibilità di collaborare a progetti in squadra fortemente limitata e via dicendo. Per i ragazzi delle scuole tecniche il ritorno a scuola rischia più che per gli altri di non essere un’esperienza piena, perché le norme necessarie di distanziamento sociale impediscono sostanzialmente quelle stesse attività che sono caratterizzanti i percorsi di formazione tecnico-professionali. I numeri della vocational education, come viene definita la scuola tecnica, sono rappresentati in questa serie di infografiche.
Un primo dato che emerge è che in linea di massima, nei paesi OCSE, c’è la tendenza da parte degli studenti di 15-19 anni a scegliere sempre meno gli studi tecnici in favore degli altri (in Italia questo si tradurrebbe in una sempre maggiore tendenza all’iscrizione ai licei rispetto alle scuole tecniche). Per ora, in media, sono quattro su dieci i ragazzi che fanno questa scelta. Al contrario, tra gli studenti adulti, con più di 25 anni di età, che tornano a scuola per aggiornarsi o completare la propria formazione, sono 6 su 10 quelli che scelgono una formazione tecnica.
Rispetto al passato, il titolo di studio terziario, quindi la laurea, offre sempre maggiori prospettive a livello di mercato. Dunque, chi è in possesso di un diploma tecnico trova più facilmente un lavoro rispetto a chi fa un'altra scuola, nell’immediato, ma chi prende una laurea ha marcatamente più opportunità di lavorare, fare carriera e veder crescere il proprio reddito. Chi lavora con un diploma tecnico tende a guadagnare il 34% in meno (quindi più di un terzo in meno) rispetto a chi ha una laurea, nella media dei paesi OCSE.
I dati mettono in evidenza un altro elemento: la netta maggiore capacità di impiego di chi ha preso un diploma tecnico all’interno di un sistema educativo molto aggiornato che consenta ai propri studenti di stare al passo con lo sviluppo tecnologico accelerato tipico del periodo nel quale stiamo vivendo. In altre parole, i tecnici specializzati servono, e serviranno sempre più. Ma devono avere una formazione che consenta loro di continuare a formarsi e ad aggiornarsi seguendo la rapida evoluzione del contesto industriale e produttivo, che va verso filiere con una forte automazione, una digitalizzazione spinta e una continua innovazione. Per supportare questa continua capacità formativa, dice OCSE, si mostrano più adatti i sistemi di formazione mista, che prevedono una forte interazione tra scuola e lavoro e non si limitano a una formazione all’interno dell’ambiente scolastico.
Per quanto riguarda l’Italia, i dati sono piuttosto diversi da quelli di altri paesi. Il 54% degli studenti iscritti a una scuola secondaria sceglie una scuola tecnica o professionale, contro il 42% della media OCSE. Le scuole tecniche italiane sono però marcatamente maschili, e la presenza femminile è solo del 37% contro la media OCSE del 45%. Le scuole tecniche sono anche quelle dove maggiormente si osserva l’abbandono da parte degli studenti. L’obbligo scolastico, i 16 anni, contribuisce a promuovere l’iscrizione dei ragazzi alle scuole ma non necessariamente a portarli fino in fondo al percorso di studi. Cinque studenti su dieci delle scuole tecniche-professionali non completano il percorso iniziato nel tempo previsto (tre su dieci nei licei). Sappiamo anche che complessivamente il nostro paese ha ancora un tasso di abbandono scolastico molto alto, attorno al 24%, e cioè un quarto dei ragazzi tra i 25 e i 34 anni hanno solo un titolo di terza media. Ma forse il dato più interessante è quello che indica che, nonostante una forte percezione diffusa in questo senso, il titolo di scuola tecnica non è necessariamente garanzia di impiego. In Italia infatti il tasso di impiego con un diploma tecnico-professionale è del 70% mentre nella media OCSE si arriva a più dell’80%.
Infine, è provato che un percorso tecnico che non è a fondo cieco, e che quindi può eventualmente portare anche all’iscrizione all’Università è più attrattivo nei confronti degli studenti. In questo caso, le differenze tra paesi sono anche molto marcate, perché ci sono paesi dove la scelta della scuola tecnica preclude la possibilità di proseguire gli studi. E ci sono paesi, come il nostro, dove invece la possibilità c’è tanto che più del 90% degli studenti delle scuole tecniche potrebbe, se lo volesse, proseguire gli studi e andare all’Università. In generale, gli studenti con un diploma tecnico tendono a preferire percorsi universitari più brevi, come la laurea triennale, rispetto ai percorsi che includono lauree magistrali, master e via dicendo.
Questo è un momento cruciale, dice dunque l’OCSE, per aggiornare e rivalutare i percorsi tecnico-professionali e renderli più rispondenti alle esigenze del mercato, da un lato, e a quelle formative degli studenti dall’altro.
La scuola e la pandemia: un rapporto molto problematico
In media, nei paesi OCSE, il periodo di chiusura delle scuole è stato di almeno 10 settimane, con differenze anche marcate tra un paese e un altro. In Italia, a seconda delle regioni, le scuole sono state chiuse tra fine febbraio e inizio marzo, e sono rimaste chiuse fino alla fine dell’anno scolastico.
Il numero di bambini e studenti rimasti a casa in primavera, dal nido alla secondaria, calcolato da Openpolis con i dati disponibili Istat e Miur che sommano quelli delle scuole statali e di quelle paritarie, è stato complessivamente di più di 8 milioni, come vediamo nel loro grafico qui sotto.
La chiusura ha evidenziato, come già raccontato da più parti, le disuguaglianze, sia economico-sociali che digitali. Dovendo fare affidamento, almeno nella prima parte del lockdown, quasi esclusivamente su risorse familiari e personali, gli studenti si sono trovati in situazioni di accessibilità alla scuola in modalità digitale molto diverse.
“ Solo 6 ragazzi su 10, tra i 6 e i 17 anni, vivono in famiglie dove è disponibile almeno un computer per componente. Istat
Ma anche quando sono stati forniti devices per le connessioni, assai frettolosamente acquistati nel corso della pandemia da tante scuole, sono anche le situazioni al contorno che possono avere un enorme impatto sulla capacità reale degli studenti di seguire le lezioni, di studiare, di essere seguiti e aiutati e sostenuti dalla scuola. Il rapporto Disuguaglianze digitali e povertà educative, pubblicato a luglio scorso da Openpolis, consente di inserire la questione dell’emergenza tecnologica, sia in termini di accesso agli strumenti che alla rete vera e propria (un tema di cui abbiamo parlato molto anche qui - "L'Italia in rete, connettività e digitalizzazione nel nostro paese") in un più ampio quadro di riferimento che guarda anche alle differenze socio-economiche tra le famiglie italiane e a come queste differenze si riflettano poi sui percorsi educativi.
Quali sono le prospettive nei paesi dell’OCSE?
Nelle infografiche qui sotto vengono evidenziati alcuni degli indicatori più rilevanti che danno la misura di cosa è successo ai sistemi educativi nel corso del lockdown e di cosa potrebbe succedere negli anni a venire.
Spesa in educazione. La preoccupazione maggiore riguarda i finanziamenti al settore educativo. Al di là della contingenza e di qualche piano di tamponamento, con tante approssimazioni come si è visto in Italia in questi mesi con differenze marcatissime da luogo a luogo e anche da scuola a scuola, il vero problema sarà la spesa in educazione e scolarità a lungo termine. Se i fondi pubblici per l’emergenza e i piani per la ripartenza hanno tutti un forte focus sulla spesa sanitaria e sull’economia, il settore educativo rischia di perdere ulteriormente di priorità.
Non solo è possibile che la spesa pubblica diminuisca, sia in percentuale rispetto al PIL che in assoluto, dato l’enorme calo di PIL previsto. C’è anche la ben concreta possibilità che il sostegno privato alla scuola venga a ridursi nei prossimi anni, a seguito della crisi economica generalizzata che si sta già evidenziando. E per molti paesi questo è un tema senz’altro centrale, perché hanno un sistema di scuola privata prevalente rispetto a quello pubblico, com’è invece il caso italiano. Purtroppo però, non è che avere un sistema di scuola pubblica sia garanzia di finanziamento, come ben sanno i dirigenti scolastici e gli insegnanti italiani, da anni alle prese con un continuo calo di fondi dedicati alle scuole, sia in proporzione al PIL che in termini assoluti. La media della spesa in educazione rispetto al totale della spesa pubblica è dell'11% (dati 2017) nei paesi OCSE. In Italia, siamo appena sopra l’8%. In termini di PIL, siamo passati dal 4,2% del 2005 al 3,8% del 2016. E non è perché il nostro PIL è talmente cresciuto in questo periodo da consentire che in termini assoluti la spesa rimanesse invariata o addirittura crescesse. Al contrario, 64 miliardi di euro spendevamo nel 2005 e più o meno la stessa cifra oltre 10 anni dopo, nel 2016.
“ Le crisi economiche mettono sotto pressione i budget pubblici. In alcuni paesi questo si traduce in tagli alla spesa in educazione.
Mobilità degli studenti. Sono circa il 6% gli studenti soprattutto universitari che viaggiano e fanno scambi con altri paesi durante il loro percorso di studi. Tra gli studenti che fanno un dottorato questa percentuale sale al 22%.
La pandemia ha azzerato questi scambi con un impatto sulla formazione molto consistente: questi studenti avranno una ridotta esposizione alle esperienze internazionali, e soprattutto a potenziali mercati dove trovare un lavoro. Non solo questa mobilità mancata si traduce anche in ridotti introiti per quelle università, e non sono poche, che fanno affidamento su una percentuale consistente di studenti stranieri. Si traduce anche nella ridotta possibilità di attrarre talenti stranieri nei diversi paesi, una pratica che è ormai alla base di gran parte delle organizzazioni sia accademiche che professionali. Insomma, se ognuno rimane a casa sua, non solo ci sono meno opportunità di impiego ma le stesse università, aziende e organizzazioni possono fare più fatica ad arruolare nuovi talenti.
Preparazione digitale dei docenti. La migrazione verso la didattica digitale ha evidenziato la fragilità della formazione digitale dei docenti e la loro necessità di imparare non solo l’uso degli strumenti digitali ma anche la loro integrazione nei contesti educativi. Solo un insegnante su due, nei paesi OCSE, utilizzava tecnologie digitali a scuola prima della pandemia, con enormi differenze tra paese e paese. Solo sei insegnanti su dieci avevano ricevuto una formazione specifica all’uso delle tecnologie in ambito didattico, e addirittura due su dieci dichiaravano di avere grandi difficoltà e quindi un grande bisogno di formazione in quest’ambito.
Forse è questo uno dei pochi risultati positivi di questa crisi immensa. Che, almeno nel nostro paese, ha spinto una vera e propria transizione al digitale, certo non abbracciata con entusiasmo ma iniziata per necessità e vissuta con tante difficoltà. Ma, se inquadrata e sostenuta in una serie di interventi ben più ampi e di sostegno a tutto il sistema scolastico, potrebbe ora prendere una forma diversa e diventare non una condanna ma una opportunità di integrare i diversi modi di fare scuola e renderli più in sintonia con il mondo in cui vivono i ragazzi.