La statua di Salvador Allende a Santiago del Cile. Foto: Reuters
Ci sono anniversari che ancora oggi, a distanza di decenni, nascondono tra le rughe frammenti di novità, briciole di un puzzle ancora non completamente assemblato. Come quello appena trascorso, i 50 anni dal devastante colpo di stato in Cile, che rovesciò il presidente socialista democraticamente eletto, Salvador Allende, per instaurare una delle più feroci dittature della storia, guidata dal generale Augusto Pinochet. Un golpe fomentato dalla Casa Bianca e orchestrato dalla Cia (qui una straordinaria galleria fotografica degli eventi di quei giorni, pubblicata dal Washington Post. Cinquant’anni sono molti, eppure le nebbie che per anni hanno avvolto quell’11 settembre del 1973 devono ancora del tutto diradarsi. Gli ultimi documenti, classificati top secret per decenni, sono stati desecretati meno di un mese fa dal governo statunitense. Leggendoli, si scopre che Richard Nixon sapeva, al millimetro, cosa stava accadendo a Santiago del Cile la mattina di quell’11 settembre. Il President’s Daily Breaf (PBD) di quel giorno, dimostra in modo non più equivocabile (o “negabile”, com’è spesso accaduto negli ultimi decenni) che la Cia informò puntualmente il presidente americano. Scrivendo che gli ufficiali militari cileni erano “determinati a ripristinare l'ordine politico ed economico”, anche se “potevano ancora mancare di un piano efficacemente coordinato che capitalizzerebbe sulla diffusa opposizione civile”. Ma un altro rapporto desecretato, datato 8 settembre 1973, dunque tre giorni prima del golpe, sempre fonte Cia e sempre indirizzato al presidente, sosteneva che non c’era “alcuna prova di un piano coordinato di colpo di stato a tre servizi” e che se le “teste calde della Marina” avessero istigato un colpo di stato “avrebbero potuto trovarsi isolate”. Poi, evidentemente, in quei giorni, le forze armate cilene trovarono (o furono aiutate a trovare) un accordo per portare a termine, tutte assieme, il colpo di stato.
Una foto contornata di fiori di Salvador Allende. Foto: Reuters
I protagonisti furono tre: il comandante in capo dell’esercito, appena promosso, Augusto Pinochet, il viceammiraglio della Marina, José Toribio Merino, e il comandante dell’Aeronautica, Gustavo Leigh. Il risultato fu fatale per la democrazia cilena: carri armati in strada, militari a sparare contro il portone d’ingresso del Palacio de la Moneda, il palazzo presidenziale, dove Allende si era barricato. Alle 9,10 del mattino il presidente eletto pronunciò, via radio, il suo ultimo discorso:
«Sicuramente, questa sarà l’ultima opportunità per me di rivolgermi a voi. L’Aeronautica ha bombardato le antenne di Radio Magallanes. Le mie parole non hanno amarezza, ma delusione. Possano essere una punizione morale per coloro che hanno tradito il loro giuramento: i soldati del Cile, i comandanti titolari in capo, l’ammiraglio Merino, che si è designato comandante della Marina, e il signor Mendoza, lo spregevole generale che solo ieri ha giurato fedeltà al governo, e che si è anche nominato capo dei Carabineros. (…) Posto in una transizione storica, pagherò per la lealtà alle persone con la mia vita. E dico loro che sono certo che i semi che abbiamo piantato nella buona coscienza di migliaia e migliaia di cileni non saranno avvizziti per sempre. Hanno forza e saranno in grado di dominarci, ma i processi sociali non possono essere arrestati né dal crimine né dalla forza. La storia è nostra, e le persone fanno la storia».
L’ultima foto, l’ultimo discorso
Mezz’ora più tardi fu scattata la sua ultima foto, che tutto racconta, nella quale Allende impugna un fucile AK-47, dono di Fidel Castro, e indossa un elmetto da soldato, sghembo e slacciato, mostrandosi determinato a combattere e a non arrendersi. Resa che invece arriverà poche ore dopo, quando gli aerei da combattimento Hawker Hunter dell’aviazione cilena cominciarono a bombardare il palazzo presidenziale, ormai avvolto dalle fiamme e dai fumi dei gas lacrimogeni. Salvador Allende, primo presidente socialista democraticamente eletto nelle Americhe, si uccise sparandosi due colpi, con quello stesso fucile tenuto tra le gambe. Il President’s Daily Breaf americano del 12 settembre, il giorno successivo al golpe, assume i toni del dramma: “Il presidente cileno Allende è morto e le forze armate, insieme ai carabineros, stanno lavorando per consolidare con successo il loro colpo di stato”. La Cia, in questo documento, tenne a informare Nixon che i membri della nuova giunta militare erano “tutti leader rispettati ed esperti, ma non sostenitori della democrazia. I nuovi governanti hanno dichiarato che il Congresso cileno è in pausa”. La dittatura di Augusto Pinochet durò 17 anni, al prezzo di migliaia di morti, di una distruzione tenace, feroce e sistematica di qualsiasi forma di opposizione. I documenti ufficiali parlano di oltre tremila persone uccise o scomparse, ma secondo alcuni rapporti le vittime della dittatura di Pinochet furono oltre quarantamila, tra arresti, torture (soprattutto degli oppositori politici), sparizioni, violenze e abusi sessuali. L’Estadio Nacional fu trasformato dalla dittatura militare in campo di prigionia per gli oppositori, tra torture, omicidi e abusi d’ogni genere. Il regime di Pinochet terminò quando il dittatore, nel 1988, accettò di mettere alla prova la tenuta del suo mandato indicendo un referendum. Lo perse, come perse le successive elezioni. Formalmente lasciò l’incarico nel marzo 1990, quando gli subentrò il presidente eletto, il cristiano democratico Patricio Aylwin. Pinochet rimase a capo delle Forze Armate fino al 1998, quando fu arrestato a Londra, su mandato di cattura internazionale, e posto agli arresti domiciliari. Non ha mai fatto un giorno di carcere, fino alla sua morte, nel dicembre 2006.
Per gli Stati Uniti Allende era una minaccia intollerabile: il presidente cileno s’era messo in testa di nazionalizzare le banche e le miniere, di riformare il sistema sanitario e scolastico, l’agricoltura, di ribaltare tutti i paradigmi economici e ideologici su cui si fondavano gli Stati Uniti. Al punto che già nel 1970 la Casa Bianca aveva tentato d’impedire la sua elezione. Il 15 settembre 1970 il presidente americano Nixon ricevette nello Studio Ovale Agustín Edwards, un magnate dell’editoria cilena, proprietario del gruppo conservatore El Mercurio, che fungeva da tramite con i vertici delle forze armate cilene. Lo stesso Edwards rispose che a suo avviso era improbabile che i leader delle forze armate potessero agire «senza disporre di garanzie chiare e specifiche, principalmente dagli Stati Uniti». Garanzie come: «Supporto logistico immediato costituito da armi, munizioni, trasporti, apparecchiature di comunicazione e carburante, sostegno economico immediato e massiccio», oltre all’assicurazione «che non sarebbero stati abbandonati e ostracizzati». Con la Cia fu delineato un piano per consentire ai militari di prendere il potere, sciogliere il Congresso e bloccare l’insediamento di Allende. Ma c’era di mezzo il comandante in capo dell’esercito cileno, il generale René Schneider. Che si era pubblicamente dichiarato a favore della Costituzione, precisando che «…le forze armate cilene non avrebbero interferito nelle elezioni del settembre 1970». Fu lo stesso Nixon a dare l’ordine di “rimuoverlo”, con l’obiettivo di rovesciare un governo democraticamente eletto. Il piano originario prevedeva il rapimento del generale Schneider, il che avrebbe costretto alla nomina di un nuovo capo dell’esercito, magari più “malleabile”. «Non lasceremo che il Cile vada in malora» disse il Segretario di Stato americano Henry Kissinger, il 12 settembre 1970, al direttore della CIA, Richard Helms in una telefonata. «Io sono con te», fu la risposta di Helms.
Kissinger a Nixon: «Sono incompetenti»
Il tentativo fallì: il 22 ottobre 1970 René Schneider fu gravemente ferito da colpi d’arma da fuoco sparati da tre estremisti di destra mentre in auto stava andando al lavoro. Il generale, portato in un ospedale militare, morì tre giorni dopo. Il 23 ottobre Kissinger chiama Nixon e gli riferisce, gelido: «C’è stata una svolta in peggio, ma non ha innescato nient’altro. Probabilmente è troppo tardi» (per impedire la formazione del governo Allende). Per poi aggiungere: «L’esercito cileno si è rivelato un gruppo piuttosto incompetente». Su raccomandazione del Dipartimento di Stato, Nixon trasmise poi questo messaggio al presidente Allende: «Caro signor Presidente: lo scioccante attentato alla vita del generale Schneider è una macchia sulle pagine della storia contemporanea. Vorrei trasmettervi il mio dolore per questo evento ripugnante che si è verificato nel vostro paese…». Due brevi considerazioni: in nessuno dei documenti desecretati emerge un pur pallido dispiacere per quanto accaduto, ad esempio la morte del generale Schneider, per non dire del sostegno esplicito e persistente all’operato di Pinochet nei suoi 17 anni di spietato regime. Inoltre, perché a mezzo secolo di distanza, nonostante le continue richieste del governo cileno (nel 2016 perfino il presidente Obama chiese la completa pubblicazione dei documenti) ci sono ancora documenti top secret relativi all’ingerenza americana sul colpo di stato? «La CIA sta cercando di tenere in ostaggio la storia», aveva dichiarato Peter Kornbluh, direttore del Progetto di Documentazione Cile presso il National Security Archive. Che oggi aggiunge: «Gli ultimi documenti pubblicati non contengono una singola frase che potrebbe compromettere la sicurezza nazionale degli Stati Uniti: è incomprensibile il motivo per cui siano stati coperti da segreto per decenni». Mentre il presidente cileno Boric ha avviato il “Piano nazionale per la ricerca della verità e della giustizia”, che punta a trovare risposte per i familiari degli oltre mille desaparecidos, il congresso cileno ha appena chiesto al presidente Biden un ulteriore sforzo per rimuovere i segreti rimanenti: ma evidentemente c’è ancora troppo imbarazzo per compiere il passo.
Le ferite del Cile, i “vizi” degli Stati Uniti
Eventi di simile portata, anche dopo cinquant’anni, restano di drammatica attualità. Ci sono donne che dopo aver perlustrato per decenni il deserto di Atacama, nella speranza di recuperare i resti dei loro mariti, oggi si battono per tenere alta la memoria sulla brutalità delle azioni degli “squadroni della morte”. Non pagine ingiallite, ma carne viva. Eppure a livello politico il Cile resta profondamente diviso. Il presidente cileno Gabriel Boric, leader della sinistra progressista (alle elezioni del dicembre 2021 aveva sconfitto il candidato dell’estrema destra, José Antonio Kast, origini tedesche, ammiratore dichiarato di Pinochet), ha guidato in occasione del 50° anniversario del golpe una marcia lungo l’Alameda, una delle principali vie di Santiago, che passa davanti al palazzo presidenziale, assieme ai familiari degli scomparsi. Manifestazione macchiata da manifestanti con cappucci neri, non identificati, che hanno attaccato la folla e lanciato pietre contro La Moneda. Boric e altri quattro ex presidenti hanno firmato una dichiarazione in quattro punti nella quale si ribadisce il loro impegno per la democrazia: i partiti cileni di destra hanno rifiutato di firmare. Un sondaggio pubblicato pochi mesi fa dall’istituto di ricerca Cerc-Mori mostra che il 36% dei cileni ritiene che il colpo di stato del 1973 fosse giustificato. Secondo la direttrice, Marta Lagos, «L’ombra di Pinochet cresce come un fantasma che non conosce pace». E accanto ai traumi per quegli intollerabili e imperdonabili atti di violenza, e d’impunità, la dittatura ha lasciato anche un’eredità economica. «Il più grande impatto della dittatura – sostiene lo storico Gabriel Salazar - è stato quello di imporre il modello economico neoliberista che gli Stati Uniti volevano tanto vedere messo in atto nei paesi in via di sviluppo. Il modello socioeconomico del regime di Pinochet ha instillato individualismo, competitività e mancanza di fiducia nella società cilena». Come scrive anche il Washington Post: «Il generale golpista ha perseguito un drammatico esperimento di libero mercato in Sud America, abbracciando politiche neoliberiste che, fino ad oggi, sono celebrate dai conservatori occidentali e condannate dalla sinistra per aver alimentato vaste disuguaglianze».
Il carattere di “attualità” della vicenda cilena riguarda anche gli Stati Uniti e la loro persistente ingerenza negli affari politici, ed economici, dell’America Latina, e non soltanto. Compresi i 72 colpi di stato sostenuti dalla Casa Bianca tra il 1947 e il 1989, durante la Guerra Fredda. Sempre con l’intento di “spazzar via il governo dei comunisti”, senza tollerare eccezioni perché anche un solo presidente di sinistra eletto (come Allende) avrebbe potuto innescare un pericoloso effetto domino. E sempre esibendo la “patente” della Dottrina Monroe (era il 1823, esattamente 200 anni fa, quando l’allora presidente James Monroe teorizzò il “dominio degli Stati Uniti nell’emisfero occidentale”). Ma oggi? John Kirk, professore emerito di studi latinoamericani presso la Dalhousie University, Canada, e Stephen Kimber, professore di giornalismo all’Università King's College di Londra, hanno pubblicato un intervento su Al Jazeera: «Purtroppo, gli sforzi distruttivi degli Stati Uniti per controllare il suo "cortile" continuano fino ad oggi. Washington sta ancora infliggendo sofferenze incommensurabili ai popoli delle Americhe per garantire che siano tutti governati in modo che non sfidi gli interessi degli Stati Uniti. Ad esempio, mantiene ancora Cuba nella lista dei paesi che sostengono il terrorismo nella speranza che le conseguenti difficoltà economiche scatenino un colpo di stato. Ha anche confiscato miliardi di dollari di proprietà venezuelane e sta facendo “urlare” l'economia venezuelana con le sue sanzioni per organizzare la fine del suo governo, senza prestare attenzione alle sofferenze del suo popolo. Barack Obama è stato il primo presidente degli Stati Uniti a rifiutare pubblicamente la politica interventista. Il suo segretario di Stato, John Kerry, nel novembre 2013 sostenne che “l’era della dottrina Monroe è finita”. Eppure, solo cinque anni dopo, e senza alcun grande cambiamento nelle politiche statunitensi nei confronti di Cuba, Venezuela e molti altri, il consigliere per la sicurezza nazionale di Trump, John Bolton sostenne che la dottrina Monroe era ancora una volta “viva e vegeta”. Esattamente 50 anni dopo la morte di Allende e 200 anni dopo la prima articolazione della Dottrina Monroe, la minaccia dell'intervento degli Stati Uniti continua a incombere sull'America Latina».