CULTURA

Cinema, la maschera perbene della violenza sulle donne

È ancora difficile essere donna se la società in cui si vive è moderna e tecnologica, il proprio livello socioeconomico elevato, ci si circonda di persone con buoni studi e occupazioni prestigiose? È possibile che, celato da un velo di perbenismo e benessere, il pregiudizio rimanga sottilmente vivo, e si manifesti in modi più insidiosi, perché espresso in forme più ipocrite e discrete che in passato? A porci queste domande è As Far As I Know (“per quanto ne so”), coproduzione ungherese-rumena e primo lungometraggio dei magiari Nándor Lőrincz e Bálint Nagy. Opera interessante, vista in anteprima nazionale e vincitrice al Riviera International Film Festival, perché ci porta riflettere su quanto poco dobbiamo dare per scontate conquiste e diritti che nell’isola felice europea ci sembrano irreversibili: e che uno spunto del genere venga dall’Ungheria, Paese che sta conoscendo una preoccupante eclissi nella tutela delle libertà civili e politiche, è doppiamente significativo.

Prendiamo Nóra e Dénes, coniugi affluent di Budapest sulla quarantina, un buon lavoro nella stessa società di marketing, bella casa, amici brillanti che li festeggiano: una bimba adottiva è in arrivo. Un imprevisto turba la serata, i due finiscono per litigare, lei se ne va. Al rientro a casa, Nóra rivela al marito di aver subito violenza da un uomo incrociato per caso sul tram. Sconvolta, vorrebbe solo dimenticare, ma Dénes insiste per sporgere denuncia. Fortunosamente Dénes rintraccia il sospettato ma, malgrado Nóra ribadisca la sua versione, il confronto alla polizia lascia molti dubbi: Nóra e lo sconosciuto, quella sera, hanno bevuto insieme, le telecamere di sicurezza lo testimoniano. Il presunto violentatore, poi, si rivela tutt’altro che losco o sbandato, e nega con lucidità di aver commesso il reato. In mancanza di testimoni o prove biologiche (Nóra ha atteso troppi giorni prima di sporgere denuncia, cosa che le viene rimproverata come una colpa) la ricostruzione della donna non viene creduta dalla polizia e, ancor peggio, dal marito.

L’elemento narrativo centrale del film è qui. Nóra, donna benestante e istruita, si trova all’improvviso a dover fronteggiare una catastrofe che viene gestita dalla società in cui vive secondo parametri, in apparenza, da stato di diritto: viene ascoltata dalla polizia, gli investigatori cercano indizi, il sospetto viene chiamato al confronto. Ma le modalità (e il quadro giuridico) con cui le autorità operano rivelano una mentalità arcaica: il fatto di aver conversato al pub renderebbe meno credibile l’accusa di violenza (Nóra viene invitata dalla polizia alla prudenza, perché “spesso il giorno dopo le cose assumono una luce diversa”); lo stato di ebbrezza è considerato un’aggravante non per l’accusato, ma per la vittima; il confronto, pur alla presenza di una poliziotta, viene condotto in modo umiliante per Nóra, tanto da indurla a scappare. Lo stesso Dénes, marito innamorato e protettivo, di fronte alla versione di Nóra vacilla: in lui a prevalere non è la fiducia nella moglie, ma la rabbia per la sua piccola bugia (aver chiacchierato al bar con uno sconosciuto dopo il litigio con il marito). E quando Nóra, sdegnata, rivela pubblicamente quanto le è accaduto, il marito e i suoceri si preoccupano soprattutto sulle ricadute per la propria immagine e sul lavoro.

Accanto alla storia principale, i registi rimarcano il tema di fondo con cenni che emergono da altri blocchi narrativi: ai focus group della società di marketing cui appartiene Dénes, le donne invitate dimostrano ancora una forte dipendenza dai mariti per la propensione agli acquisti e la responsabilità su scelte di lungo periodo (uno schizzo su una condizione psicologica femminile ancora subordinata, pur in contesti sociali metropolitani e avanzati). Ma è la visione sociale di Dénes la più rivelatrice: se prima della violenza, al momento del diverbio, aveva rimproverato Nóra perché litigando “non si comportava come una mamma”, in seguito, accecato dai dubbi sulla “moralità” e l’equilibrio psichico della moglie, assume in solitudine decisioni delicatissime che riguardano entrambi, avocando a sé il giudizio su quale sia il rapporto “giusto” tra immagine pubblica e privata, tra turbamenti interiori, reazioni emotive e contegno esteriore.

Una trasformazione, quella di Dénes, che i registi Lőrincz e Nagy riconnettono, implicitamente, alle contraddizioni di una società in cui parità formale e sostanziale divergono, e la forza degli antichi preconcetti rimane intatta dietro una patina di modernità e sofisticatezza (gli amici borghesi della coppia, che al di là della vicinanza apparente inanellano gaffes che svelano visioni retrograde; i genitori di Dénes, compresi nel loro culto della rispettabilità e totalmente privi di empatia e affetto). Più ancora della ricerca della verità sullo stupro, conta infatti la svolta che Dénes compie nei confronti della moglie, un crollo di fiducia e di rispetto che trova appiglio nell’isolamento cui Nóra è condannata (cui cerca inutilmente di sfuggire inseguendo solidarietà e comprensione sui social). L’atmosfera è di una cupezza pervasiva, onnipresente, che Lőrincz e Nagy traducono in una fotografia altrettanto oscura, da noir, tra scene in notturna, volti sgomenti, luci biancastre di corridoi e stanzette in cui l’umanità lascia il posto alla mancanza di calore e comunicazione. Un gelo dell’anima, cui danno corpo le espressioni degli ottimi protagonisti: il rabbioso smarrimento di Nóra (Gabriella Hámori), i distaccati silenzi di Dénes (Balázs Bodolai). Malgrado il finale di As Far As I Know sia fin troppo conciliante, il merito del film è quello di aprirci gli occhi su quanto il fattore umano sia determinante nel tracciare il confine tra galateo e tutele, tra pil e libertà civili, tra diritto e giustizia.

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