CULTURA

Musica, poesia e cultura a inizio Ottocento: spunti su Rossini e Leopardi

Nella sterminata bibliografia leopardiana non manca ovviamente un certo spazio dedicato al rapporto fra il poeta e la musica, le melodie e le arie di compositori e cantanti della sua epoca. I fili di saggi e discussioni fanno riferimento a vari aspetti: il diffuso interesse per la musica all’interno dell’antica casa degli aristocratici Leopardi; la collocazione di libretti musicati da Rossini fra le letture o all’interno della biblioteca organizzata e aggiornata dal padre Monaldo (che peraltro si reputava “stonato”); la giovanile attività di Giacomo Leopardi al teatro amatoriale che pare si svolgesse nella grande casa nobiliare (probabilmente anche grazie all’Accademia letteraria recanatese degli Animosi); la sua presenza (come di familiari, amici e conoscenti) alle rappresentazioni operistiche di città in cui visse o che visitò; la sensibilità e l’eventuale vera e propria “filosofia” musicale dell’illustre recanatese (1797 - 1838, sepolto a Napoli), affascinato più dalle voci che dalle melodie; l’influenza in vita delle opere letterarie sull’attività di musicisti a lui contemporanei; le successive composizioni su suoi precedenti testi lirici, narrativi o culturali, perlopiù postume. Di Leopardi in relazione a Rossini si sa molto di più che di Rossini in relazione a Leopardi (esiste poco a riguardo, presumibilmente per ragioni oggettive). 

Rossini e Leopardi: due geni marchigiani

Il pesarese Giovacchino Antonio Gioacchino Rossini (Pesaro, 29 febbraio 1792 - Passy, 13 novembre 1868, sepolto prima a Parigi, dove a Père Lachaise resta la tomba, poi a Firenze) fu contemporaneo di Leopardi, aveva oltre cinque anni più dell’intellettuale di Recanati. Nacquero a una distanza di chilometri non enorme, nemmeno a quel tempo senza auto e treni (sette caselli di autostrada oggi, o poche stazioni ferroviarie), il loro “genio” fu in parte abbastanza apprezzato già in vita, in particolare quello di Rossini, frequentarono eccelsi circoli culturali nelle maggiori città italiane e hanno lasciato entrambi una straordinaria eredità lirica e sensoriale. Parliamo delle due grandi personalità un poco staccate qui dal contesto sociale e culturale, politico e istituzionale di un inizio Ottocento molto “mosso” nei territori della futura Italia ed europei. È molto probabile, quasi certo sulla base delle centinaia di loro separate biografie (meglio utilizzare sempre il “forse”), che non si incontrarono mai. E, ovviamente, Rossini potrebbe non aver mai parlato o scritto di Leopardi. 

Leopardi e l’ascolto delle opere di Rossini

Pur limitandosi a pochi cenni e a una verifica incompleta delle scritture di Leopardi, risultano noti, invece, alcuni incontri del recanatese con le opere musicali del pesarese. Il giovane favoloso poeta e filosofo dimostrava di apprezzare la musica del compositore. Si citano spesso, infatti, una serie di lettere spedite da Roma a Recanati nel 1823. Già a inizio anno (all’Epifania) Giacomo aveva scritto al fratello Carlo di due opere di cui aveva visto la rappresentazione a Roma, Eufemio di Messina e Il corsaro: “…Ho sentito tutte e due le Opere: quella d’Argentina e quella di Valle. La prima è del Maestro Carafa, quasi tutta rubata a Rossini, ma così male, che non reca il piacere né dell’originalità né dell’imitazione; e se il Carafa vi si disprezza, il Rossini non vi si può godere…Quanto all’opera di Valle, ch’è buffa, tenete per certissimo che il nostro Turco in Italia, non solamente per la musica, ma per ciascun cantante, a uno per uno, e tutti insieme, fu migliore senza nessunissimo paragone. Il teatro è per lo più deserto, e ci fa un freddo che ammazza…”.  

Le impressioni di Leopardi indicano una discreta parziale predilezione per l’aspetto vocale, trattato con proprietà lessicale, e un implicito apprezzamento per Rossini, autentica pietra di paragone nel panorama lirico tra gli anni Dieci e degli anni Venti dell’Ottocento, ai cui meriti artistici si aggiungeva la comune appartenenza alle “marche” pontificie dell’Adriatico centrale (poi divenuta un’unitaria regione italiana, l’unica restata “plurale” ancor oggi). Traspare anche una certa sufficienza, se non snobismo, nei confronti del pubblico romano quando ricorda, accanto alla condivisa disapprovazione per la musica, le positive reazioni davanti alle “decorazioni” del Corsaro, sulle quali preferisce non pronunciarsi. Ancora nel segno di Rossini avviene la successiva registrazione di impressioni operistiche. Sembra confermato: Giacomo Leopardi sopportava poco di partecipare a rumorosi eventi pubblici, non amava andare al teatro dell’opera e apprezzava molto, comunque, Rossini. 


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Ciò emerge in particolare, nella successiva lettera inviata al fratello, testo giustamente celebre, in cui menziona proprio direttamente la musica di Rossini, dopo che Carlo il 26 gennaio 1823 gli aveva segnalato che una rappresentazione operistica lo aveva profondamente colpito (era lì anche per corteggiare la cantante di cui era infatuato, discreto successo con l’altro sesso per il conte Carlo Leopardi). Siamo durante il periodo di carnevale. A Recanati, nel comune natio borgo selvaggio sono appunto in corso alcune rappresentazioni della Cenerentola di Rossini che, con avviluppati nodi, impressionano Carlo fino alle lacrime: “… Cenerentola […] è andata in iscena jer sera. A questo proposito ti posso dire, che ho inteso una cosa assai bella, che voi altri col vostro Caraffa non avete. Adesso ho conosciuto Rossini: già fra noi un’impressione forma epoca più di un avvenimento: sicché non mi vergogno di parlarti del gran piacere che mi ha dato questa Musica, che è arrivata a carpirmi le lagrime …” 

Gli risponde Giacomo il 5 febbraio: “… mi congratulo con te dell’impressioni e delle lagrime che t’ha causato la musica di Rossini, ma tu hai torto di credere che a noi non tocchi niente di simile. Abbiamo (al Teatro Argentina) la Donna del lago, la qual musica eseguita da voci sorprendenti è una cosa stupenda, e potrei piangere anch’io, se il dono delle lagrime non mi fosse stato sospeso giacché m’avvedo pure di non averlo perduto affatto. Bensì è intollerabile e mortale la lunghezza dello spettacolo, che dura sei ore, e qui non s’usa d’uscire del palco proprio. Pare che questi fottuti romani che si son fatti e palazzi e strade e chiese e piazze sulla misura delle abitazioni de’ giganti, vogliano anche farsi i divertimenti a proporzione, cioè giganteschi, quasi che la natura umana, per coglionesca che sia, possa reggere e sia capace di maggior divertimento che fino a un certo segno…”. Mitico Leopardi! 

L’opera era andata in scena per la prima volta a Napoli nel 1819 proponendo un soggetto per molti “versi” sorprendente. Col librettista Andrea Leone Tottola, Rossini aveva infatti messo in musica il poema TheLady of the Lake che Walter Scott aveva pubblicato nel 1810 e che non era ancora stato tradotto in italiano (nel 1813 era però uscita una traduzione francese), anticipando elementi dei famosi romanzi storici come la cura dell’ambientazione e l’individuazione della couleurlocale, una pratica fondamentale per la definizione dell’estetica romantica, non solo letteraria ma anche musicale. L’ammirazione per la musica rossiniana si inserisce nella più ampia riflessione di Leopardi sulla melodia e sulla musicalità, stimolata dal dibattito romantico del tempo, all'interno delle riflessioni di inizio Ottocento sul ruolo delle arti e sul concetto di “sublime”.  

La riflessione musicale di Leopardi

Nel corso della successiva estate 1823 tornano sotto l’attenzione di Leopardi tanto Rossini quanto il canto vocale umano. L’apprezzamento per la musica rossiniana trova spazio nell’ampia riflessione sulla musica e sull’armonia, sviluppata ad agosto 1823 e stimolata appunto dal dibattito “romantico”. Leopardi riflette sull’armonia che rischia di essere determinata dalle assuefazioni, cioè da convenzioni, e ribadisce l’apprezzamento per la musica di Rossini (il solo musicista citato nelle numerose pagine) “… perché le sue melodie o sono totalmente popolari, e rubate, per così dire, alle bocche del popolo; o più di quelle degli altri compositori, si accostano a quelle successioni di suoni che il popolo generalmente conosce ed alle quali esso è assuefatto, cioè al popolare; o hanno più parti popolari, o simili, ovver più simili che dagli altri compositori non s’usa, al popolare”. Un paio di settimane dopo Leopardi tornerà ad affermare la propria opinione sulla superiorità della voce rispetto alla melodia. 

Del resto, l’intera esistenza di Leopardi coincide con uno dei periodi di massima espansione e affermazione del fenomeno operistico italiano, inteso tanto come forma d’arte quanto come evento sociale dai risvolti mondani e politici, Rossini ne fu il principale protagonista, forse così notevolmente famoso e assorbito dalla popolarità da potersi non “curare” di altre personalità meno “aggraziate”. Esistono documenti e ipotesi sul rapporto del geniale gobbo recanatese con le musiche del grande gaudente pesarese e di altri autori lirici, tuttavia è questione sulla quale ancora si dovrà ancora indagare con ulteriori stimoli e spunti. Certamente, nello Zibaldone abbondano i riferimenti al teatro e alla musica, con un uso appropriato e specifico di termini musicali.

Non sono mancati riferimenti a valori virtualmente “melodrammatici” dei versi leopardiani. È senz’altro credibile che l’attuale lista delle conoscenze operistiche di Leopardi possa ancora allungarsi di qualche voce, ed esistono già cronache (forse non complete) della sua partecipazione a esecuzioni private di arie o a rappresentazioni presso i teatri di Recanati (sotto il controllo della madre, che talvolta oppose poi un divieto alla sorella Paolina), Senigallia e Ancona (e nel 1827 la stessa Adelaide impedì al marito Monaldo di andare), oltre che in teatri delle altre residenze a Roma, Milano, Bologna, Firenze, Pisa e Napoli; né mancano elenchi di ascolti possibili negli studi consultati, pur talvolta sconfinanti nelle consuete “illazioni”. 

Probabilmente, l’ultima attestazione diretta di una serata di Leopardi all’opera è di vari anni dopo e viene da Bologna, città ricca di teatri e di vita musicale, e costituisce un’eccezione alla progressiva esplicita indifferenza leopardiana nei confronti del melodramma. Prima di quell’evento, nella lettera del 13 dicembre 1825, Paolina aveva immaginato che Giacomo, durante il primo mese e mezzo trascorso a Bologna, avesse sentito la Semiramide di Rossini, oggetto dell’entusiasmo di Carlo nelle recite al teatro di Senigallia, e che fosse l’autore di uno dei sonetti pubblicati per celebrare la cantante protagonista. In realtà, è solo nella primavera del 1827 che Leopardi partecipa a due delle tre recite operistiche in programma, spinto dalla bella stagione e dalle insistenze di amici, con biglietti procuratigli da Pietro Brighenti. Solo le ricerche degli studiosi hanno appurato che si era trattato della Semiramide rossiniana, mentre Leopardi tace nella lettera del 18 maggio alla sorella persino il titolo e si limita a precisare di avervi assistito da posizione diversa dalla platea e nemmeno riferisce alcuna impressione personale alla sorella minore, che pure sapeva avida pure di dettagli. 

Rossini e Leopardi nella cultura contemporanea

E tuttavia, continuare a trovare il modo di accostare Rossini e Leopardi appare un compito fertile e fervido. Lo ha certamente svolto efficacemente nel 2014 il regista Mario Martone, accomunandoli con l’aggettivo “favoloso”; il suo allestimento teatrale e il suo film presentati proprio nel corso di quell’anno, l’opera al Rossini Opera Festival di Pesaro ad agosto e il film in anteprima alla Mostra del cinema di Venezia i primi di settembre. Spiegava allora Martone: “… Non solo appartengono entrambi alla stessa epoca, alla stessa terra. Non solo entrambi ne fuggirono, alla ricerca di più liberi orizzonti… Soprattutto, sia Rossini che Leopardi, seppero creare un mondo espressivo che è solo loro, tipicamente loro. E che per entrambi è fuori del tempo… Ne Il giovane favoloso ho usato il Rossini della Matilde, dello Stabat Mater, delle Sonate per Archi, scritte ad appena dodici anni” (per inciso, circa alla stessa età Leopardi scriveva di astronomia, lui certo “scienziato” oltre che poeta). Concludeva Martone: “… c'è una vicinanza innegabile, non solo territoriale o storica, fra questi due geni. Si, lo so: Gioachino viene spesso considerato un reazionario, un codino; Giacomo un malinconico intristito dai suoi guai di salute. Ma si tratta solo di stereotipi. In realtà entrambi erano soprattutto spiriti liberi…” 

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