CULTURA

Cinema, una strana famiglia nata da due solitudini

Il Far East Film Festival appena concluso ci ha dato modo di esplorare lo stato dell’arte del cinema dell’estremo oriente, i cui filoni principali sono ben noti: thriller polizieschi, horror più o meno paranormali, commedie adolescenziali, drammi storico-nazionalisti, saghe familiari. “Like Father and Son” (“Come padre e figlio”), del cinese Bai Zhiqiang, si inscrive in quella preziosa minoranza di pellicole i cui autori tratteggiano con maestria storie di relazioni e sentimenti con accenti intimistici, lievi, alieni dalla ricerca ossessiva di compiacere il pubblico rincorrendo l’azione e le scene ad effetto. Ne avevamo fatto cenno per il grandioso So Long, My Son, in cui Wang Xiaoshuai riesce nell’impresa di narrare trent’anni di storia della Cina senza mai rinunciare a toni sussurrati e commossi, intersecando di continuo vicende pubbliche ed emozioni privatissime.

Certo, nel caso di “Like Father and Son” bisogna riconoscere che il tema non è nuovo: un uomo e un bambino, estranei, sofferenti entrambi, che si trovano per caso a tu per tu, e dall’iniziale ostilità e diffidenza costruiscono un po’ alla volta, quasi senza accorgersene, una vera relazione genitore-figlio. Ma il regista, per fortuna, non è un campione di retorica: nel rifarsi dichiaratamente al neorealismo, Bai Zhiqiang seleziona con cura gli elementi per conferire alla sua storia un reale spessore drammatico. Il film, del resto, nasce nelle sue intenzioni come documentario sulla condizione dei bambini della regione abbandonati dai genitori, emigrati per ragioni economiche; solo in seguito viene strutturato in lungometraggio di fiction. Gli elementi del dramma, dicevamo. Anzitutto i luoghi: il film è ambientato tra i monti aridi, le gole, le sabbie del nord della provincia di Shaanxi, ed è girato alternando la semplicità dei villaggi rurali e la ruvidezza caotica delle città. E poi ci sono due notevolissimi attori non professionisti: il “padre” Gouren (Hui Wangjun), la cui rabbia soffocata non lascia un briciolo di spazio ai melodrammi, e il “figlio” Maodou (Bai Zeze), un bimbo di espressività straordinaria quanto spontanea. La vicenda, infine, non si presta a mielosità: l’incontro tra Gouren e Maodou è l’incrociarsi di due rabbie, due frustrazioni insanabili, e il mondo che ne è cornice è una Cina in cui non c’è spazio per la pietà o la solidarietà umana.

Gouren è un ambulante che sopravvive girando per i villaggi con il suo furgone, vendendo merci e ritratti fotografici. La sua lotta quotidiana è resistere al dolore per la perdita del figlio, resa più atroce dall’inganno con cui un amico gli ha sottratto il denaro destinato a curarlo. Maodou è un bimbo abbandonato dal padre, andato a cercar fortuna come operaio edile in una grande centro urbano. Quando viene a sapere che Gouren passerà per la città dove crede sia il padre, Maodou non esita a nascondersi nel suo furgone, ma accidentalmente incendia una parte della merce dell’uomo. Visto che al villaggio nessuno intende risarcirlo del danno, Gouren decide di partire con Maodou alla ricerca di suo padre, con il solo intento di farsi rifondere.

Se la relazione tra i due inizia nel segno dell’interesse e del denaro, questo non è che lo specchio di una società, ci mostra Bai Zhiqiang, in cui tutto è in vendita, anima compresa. Lo stesso Maodou non è che merce: strattonato, legato, picchiato dallo stesso Gouren, viene spesso citato come possibile oggetto di scambio commerciale. Ma è ogni comportamento sociale, ci viene suggerito, ad essere dettato dal denaro: l’automobilista che si offre di spingere il camion impantanato in cambio di una mancia; il venditore che “noleggia” Maodou per fargli chiedere l’elemosina; gli operai che non parlano d’altro che di debiti non onorati, e ne scaturisce una rissa; gli ambulanti che picchiano Gouren, colpevole di non aver pagato una tangente per poter vendere la sua merce alla fiera. È in questo mondo governato dai soldi che il rapporto tra Gouren e Maodou, nato per interesse, si evolve lentamente: e se la prima intesa tra i due sarà commerciale (il bimbo dimostra talento nel vendere), poco alla volta Gouren riuscirà a vedere il piccolo non più come una risorsa economica, ma come un essere umano, fino a concepire una paternità elettiva che possa sostituire quella che il lutto ha spezzato. Questo processo sofferto ci viene mostrato dal regista senza pietismi, e coerentemente Bai Zhiqiang immagina un finale aperto, senza strizzate d’occhio o sorrisi impropri.

Sostenuto da una fotografia che rende coprotagonista il paesaggio, scabro come i suoi abitanti, e da musiche discrete, Bai Zhiqiang ci presenta una Cina sgradevole, antiretorica, nella quale non esistono eroi, ma solo persone in cerca di sopravvivere, e forse prosperare, schiacciandosi l’un l’altro. Un film in grado di offrirci molti spunti di riflessione ma anche momenti di intensità rara: come la breve sequenza simbolica in cui apprendiamo della morte della nonna di Maodou, unica figura che esprime generosità e calore umano. Pochi secondi in cui una folla indistinta rende omaggio all’immagine della defunta, offrendole doni sopra un tempietto. Accanto, Maodou versa una lacrima senza rumore, mentre nessuno gli bada.

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