CULTURA

Cinema: trent’anni di Cina tra politica e sentimenti

Lo streaming, surrogato del cinema in sala nell’era Covid, ci regala ogni tanto qualche premio di consolazione. E a volte il premio ci rende così felici da farci dimenticare che, un tempo, i film li vedevamo al buio sul grande schermo. Il Fescaaal (Festival del cinema africano, d’Asia e America Latina), arrivato alla trentesima edizione tutta online, ci ha donato la prima visione italiana dell’opera di un maestro del cinema cinese, Wang Xiaoshuai, premiata due anni fa a Berlino e poi seppellita da lungaggini distributive e dalla pandemia: So Long, My Son, che in Germania valse la doppia statuetta ai protagonisti femminile e maschile, Yong Mei e Wang Jingchun (premio che da quest’anno è unico e asessuato, perché è sembrato poco carino limitarsi a contemplare due soli generi). Xiaoshuai, noto soprattutto per i celebrati Le biciclette di Pechino e Shanghai Dreams, dispiega in due ore e cinquantacinque minuti un fiume narrativo che intreccia privato e pubblico, una saga familiare e la storia politica e sociale della Cina dall’inizio degli anni Ottanta ai giorni nostri. E a chi si spaventasse per una simile durata, va detto che è tale l’alternanza di emozioni, la sensibilità con cui è descritta la connessione tra vicende collettive e sentimenti personalissimi, che è difficile trovare momenti in cui la tensione si affievolisce.

Essere genitori, dunque. Una condizione intima, interiore, che la Cina degli anni Ottanta trasforma in dovere pubblico regolandola con lucida spietatezza: è la politica del figlio unico, pilastro tra le riforme di Deng Xiaoping, rinnegata solo pochi anni fa. So Long, My Son attraversa tutte le variazioni di questo tema, partendo dalla più tragica. Anni Ottanta, una città della Mongolia Interna. Liyun e Yaojun, operai in fabbrica e genitori del piccolo Xingxing, devono rinunciare al secondogenito: Haiyan, la responsabile del reparto, è loro intima amica, ma è prima di tutto una funzionaria solerte, e di fronte alla gravidanza “illecita” di Liyun non le lascia scelta. Un lutto personale e politico, che ne prefigura un altro, ancora peggiore: la morte di Xingxing annegato nel lago, convinto a tuffarsi proprio dal bimbo dei loro amici, Haiyan e Yingming. Un doppio lutto, una doppia, terribile responsabilità che separa le due coppie.

I protagonisti, fuggendo dalla disperazione, si trasferiscono a sud, sulla costa del Fujian. Li ritroviamo insieme a un nuovo figlio, adottivo, ormai adolescente: una terza occasione, ostacolata però dal carattere inquieto e ribelle del ragazzo. E c’è una quarta nascita che interseca la storia della coppia… Il tempo scorre, Liyun e Yaojun invecchiano, e il loro smarrimento personale, la loro solitudine, sono lo specchio della Cina che cambia, di un Paese sempre più ricco e immemore delle proprie radici. A richiamarli alla città natale, e a fare i conti finalmente con la loro storia, sarà proprio Haiyan, consumata dal senso di colpa, desiderosa di riconciliarsi in extremis. Sarà il momento per rivelare un segreto covato per trent’anni, ma anche l’occasione, per Liyun e Yaojun, di ritrovare una ragione di vita…

Fin qui, l’osso della trama di So Long, My Son. Ma il regista dipana il soggetto, nelle sue molteplici articolazioni, evitando qualunque linearità cronologica: la trama è un continuo avvicendarsi di blocchi narrativi lontani nel tempo e nello spazio, con flashback, salti in avanti, omissioni, sorprese. Decenni di storia cinese recente vengono ripercorsi, ponendo in primo piano sempre le vite e le emozioni dei protagonisti: la politica, la società sono ben presenti, ma sullo sfondo. Xiaoshuai è maestro nel giocare con i sentimenti, aiutato anche dalla straordinaria bravura degli interpreti, capaci di esprimere il proprio universo interiore con uno sguardo o la piega delle labbra. Se un difetto possiamo trovare a So Long, My Son è nel finale, nel quale il regista, forse sopraffatto da un intreccio così complesso, si lascia prendere la mano, offrendo uno scioglimento conclusivo tutto sommato prevedibile, un po’ammiccante, in contrasto con la raffinata misura con cui conduce ogni dialogo durante le tre ore del film.

Ma l’opera ci dona sequenze indimenticabili, contrappuntate da paesaggi aspri che sembrano echeggiare i tormenti dei personaggi: l’aborto forzato di Liyun, di fronte al quale l’amica-direttrice, che ne farà il suo rimorso ossessivo, non potrà ribattere in seguito che “stava solo facendo il proprio lavoro”; lo smarrimento dei protagonisti nel tornare, dopo vent’anni, alla propria città natale, irriconoscibilmente cementificata (“non c’è quasi traccia del nostro passato”); il licenziamento selettivo dei lavoratori della fabbrica durante l’incontro pubblico con il direttore, in cui la retorica del patriottismo maschera la crudeltà del socialismo in chiave neocapitalista; la carezza alla lapide del figlio, ritrovata sulla collina ai margini di un immenso cimitero. Momenti che, affidati a un altro regista, si squaglierebbero in melodramma pop, con Xiaoshuai appaiono autentiche, magistrali esplorazioni dell’animo umano di fronte al lutto, al tradimento, all’amore filiale, all’amicizia che resiste al tempo e alle sventure.

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