SOCIETÀ

Il circolo vizioso tra disturbi mentali e disuguaglianza sociale

Esistono dei nessi causali tra povertà e disturbi mentali? Se così fosse, studiare i meccanismi alla base di questa relazione può rivelarsi fondamentale per compiere scelte politiche mirate, che promuovano il riprodursi di un circolo virtuoso tra benessere psicologico e miglioramento delle condizioni economiche. Questa è la tesi sostenuta in un lavoro di revisione sistematica condotto da Matthew Ridley, del dipartimento di economia del MIT, insieme ad altri ricercatori della stessa struttura e di Harvard. Il loro scopo era quello di comprendere la relazione complessa e multidimensionale tra povertà e disturbi mentali analizzando i risultati sperimentali ottenuti in diversi studi che mostravano un effetto positivo del trattamento della malattia mentale sull'occupazione. I loro risultati sono stati pubblicati su Science.

Per molto tempo, riportano gli autori dello studio, ansia e depressione sono state considerate “malattie del benessere”, cioè in grado di colpire principalmente coloro che appartenevano alle classi più agiate. Questa tesi, secondo gli autori, è sostanzialmente falsa, perché gli studi da loro considerati hanno dimostrato che, al contrario, è chi vive in povertà a correre un maggiore rischio di soffrire di disturbi mentali. Il loro studio sembra dimostrare infatti che la perdita del lavoro e le condizioni di vita difficili siano spesso collegate all'insorgenza di disturbi mentali come ansia e depressione.

Perché questi disturbi hanno avuto la reputazione di malattie del benessere per tanto tempo? E come è stata screditata questa convinzione? Lo abbiamo chiesto alla professoressa Daniela Palomba, direttrice del Centro di Ateneo dei Servizi Clinici Universitari Psicologici (SCUP), rivolto agli studenti e dipendenti dell'università di Padova, che include tra le sue attività l'identificazione precoce di ansia e depressione e lo sviluppo di protocolli scientifici per la loro prevenzione e trattamento.

“Si tratta di un tema che riporta al periodo del '68 e del post '68, soprattutto quando sono cominciati i movimenti di medicina democratica e psichiatria democratica, che denunciavano l'impostazione gerarchica dei sistemi medici nell'accesso alle cure. Già a metà degli anni Sessanta, August Hollingshead e Frederick C. Redlich, che erano rispettivamente un sociologo e uno psichiatra dell'università di Yale, hanno scritto il libro Classi sociali e malattie mentali, in cui riportavano i dati di un'indagine, dalla quale concludevano che i vari disturbi psichici sono collegati in modo significativo alla stratificazione sociale e che anche la cura degli stessi disturbi mentali rifletteva la stratificazione sociale.
Il problema, quindi, non era solo capire se chi apparteneva a una certa classe sociale soffrisse specificamente di disturbi mentali, ma se chi era socialmente svantaggiato avesse le stesse possibilità di venire curato. Infine, dimostravano che anche il tipo di trattamento prescritto dagli psichiatri era in relazione all'appartenenza sociale del paziente.
L’attuale rapida diffusione del programma Improving Access to Psychological Therapies (IAPT) è la dimostrazione più evidente dell’importanza prioritaria del garantire l’accesso alla cura per un trattamento adeguato del disturbo mentale e, in particolare, di ansia e depressione”

“Bisogna ricordare che esistono diverse forme di depressione”, continua la professoressa Palomba, “e una prima ampia distinzione può essere fatta tra la depressione cosiddetta endogena, una forma di depressione fortemente connotata da caratteristiche familiari, costituzionali e spesso anche genetiche che può manifestarsi in chiunque in modo spesso svincolato dalla classe sociale, e la depressione cosiddetta reattiva, che invece viene favorita dal verificarsi di eventi avversi, come un insuccesso o una situazione critica, come quella che stiamo vivendo in questo periodo. È vero che il contesto influenza tutte e due queste forme di depressione, che talora possono anche sovrapporsi, ma è altrettanto vero che riconoscere anche l’esistenza di una componente biologica oltre ai fattori sociali, permette una diagnosi e un trattamento più adeguato della depressione.

Il mancato riconoscimento dei diversi fattori che contribuiscono alla depressione ha certamente contribuito ad alimentare il pregiudizio che queste malattie potessero colpire solo alcune classi. Ci sono stati modelli culturali che hanno enfatizzato degli aspetti quasi romanzati dell'ansia e della depressione, pensando a questi disturbi come delle condizioni esistenziali, con caratteristiche intrapsichiche prevalenti. Come affermano anche gli autori dell'articolo, molte di queste convinzioni sono cambiate da quando sono stati perfezionati strumenti diagnostici standardizzati che permettono di distinguere le diverse forme di depressione per intervenire con la cura più adeguata.

Nel 2009, il National Institute of Mental Health ha sviluppato un progetto chiamato Research Domain Criteria (RDoC), che aveva lo scopo di capire perché nel campo della medicina sia stato possibile sviluppare delle cure molto mirate, personalizzate e specifiche per alcune patologie – per il tumore al seno, ad esempio, è possibile prevedere chi è più a rischio di sviluppare la malattia, studiando i geni alterati – ma questo non è ancora successo per le malattie mentali.
Il progetto accusava, sostanzialmente, i modelli culturali che hanno tralasciato l'indagine scientifica dell’interazione tra componenti biologiche, comportamentali, affettive e sociali della malattia mentale, concentrandosi piuttosto sui sintomi soggettivi riferiti. L'arricchimento di tali elementi permette di cambiare anche l'impostazione del trattamento e individuare il trattamento più mirato e il professionista più adatto per intervenire”.

Secondo gli autori dello studio su Science, difficoltà economiche e disturbi di ansia e depressione possono creare un circolo vizioso. Questo significa che trovarsi in situazioni di difficoltà economica può aumentare la probabilità di soffrire di questi disturbi e che soffrire di tali malattie ha ripercussioni sull'ambito lavorativo.

“Non c'è dubbio che ci sia un rapporto tra salute fisica e mentale e condizioni economiche”, conferma la professoressa Palomba, “infatti ci sono studi che dimostrano che l'aspettativa di vita di una persona che vive in Europa, in America e in Giappone è doppia rispetto a quella di chi vive in paesi in via di sviluppo, in particolare l'Africa, e di un terzo superiore a quella di chi vive in India e Sud America. La ragione principale è che le persone socialmente svantaggiate vivono in luoghi degradati, sono spesso esposte a guerre e violenza, hanno un accesso limitato all'istruzione e scarsa aderenza alle cure. Questo ovviamente vale per tutte le malattie, ma per quelle mentali c'è un'aggravante: in questi contesti c'è uno scarso riconoscimento della malattia che si riflette in uno scarso accesso alle cure.
Infatti, se chi soffre per un problema mentale non riconosce di avere una malattia, non sa di poter essere curato. In aggiunta, in alcuni contesti socio-culturali svantaggiati, questo mancato riconoscimento può essere parte integrante di una diffusa convinzione che alcune manifestazioni di natura mentale debbano essere curate con metodi basati su credenze popolari (ad es. rituali sciamanici o di derivazione religiosa”.

Come riporta anche lo studio pubblicato su Science, infatti, le lacune terapeutiche sono il frutto non solo di una scarsa offerta, ma anche di una scarsa domanda di tali servizi. Dalla loro analisi è risultato che spesso, nei contesti più poveri e di scarsa alfabetizzazione in materia di salute mentale, la domanda di servizi di supporto psicologico è molto bassa, perché la vergogna e lo stigma associato a questo tipo di terapie sono particolarmente diffusi.

“Il malato mentale è spesso considerato sospetto, se non addirittura pericoloso”, sottolinea la professoressa Palomba. “Nel caso dell'ansia o della depressione, lo stigma non è forte come quello che accompagna disturbi psichiatrici, come la schizofrenia, ma la persona depressa o ansiosa è comunque guardata con sospetto, e viene spesso incompresa.
Inoltre, lo stigma non esiste solo nei confronti della malattia ma anche del professionista. Spesso si prova vergogna, infatti, a rivolgersi a uno specialista. Inoltre, nel campo delle malattie mentali, rispetto a quelle del corpo, c'è anche poca consapevolezza di quale sia il professionista specifico a cui rivolgersi nel caso di un disturbo mentale. Per quanto questa disinformazione su quale sia la differenza, ad esempio, tra lo psicologo, lo psichiatra e il neurologo sia ancora presente anche nei paesi più sviluppati, essa ha più impatto nei contesti economicamente svantaggiati. Alla base di tutto questo c'è senza dubbio un problema di conoscenza: più le popolazioni sono istruite e consapevoli, più questo garantisce loro la salute mentale, oltre che fisica”.

C'è un modo per contrastare il circolo vizioso tra disturbi mentali e difficoltà economiche? La meta-analisi condotta da Ridley e coautori suggerisce di sì. Gli studi da loro esaminati rivelano che investimenti statali a favore dell'aumento del reddito e del tasso di occupazione riducano l'insorgenza di ansia e depressione, e che i programmi per contrastare la povertà possano avere impatti positivi sul livello di salute mentale a lungo termine degli individui. Allo stesso modo, secondo gli autori, investire in interventi di psicoterapia e farmacoterapia, e per la protezione della salute mentale delle persone che vivono in povertà, ha effetti positivi sull'occupazione. Inoltre, la promozione su larga scala di programmi per trattare i disturbi mentali, potrebbe aiutare anche a combattere lo stigma.

Le valutazioni degli interventi economici dovrebbero misurare regolarmente la salute mentale e le valutazioni a lungo termine degli interventi sulla salute mentale dovrebbero misurare i potenziali impatti sulla povertà e altri risultati economici chiave “Poverty, depression, and anxiety: Causal evidence and mechanisms”, Ridley et al., Science (2020)

Poiché la crisi dovuta alla pandemia in corso ha colpito maggiormente coloro che vivono in povertà, è necessario, secondo gli autori, aumentare l'offerta di programmi per la cura della salute mentale nei paesi a basso reddito.

“La relazione causale tra povertà e salute mentale che abbiamo descritto non potrebbe essere più pertinente rispetto alla pandemia in corso, che ha già influenzato negativamente entrambi questi risultati”, scrivono gli autori dello studio. “Nutriamo gravi preoccupazioni per le implicazioni sulla salute mentale della recessione economica che sta affrontando il mondo. La pandemia ha colpito in modo sproporzionato i poveri e può avere impatti negativi duraturi sul loro benessere economico e mentale. Un massiccio investimento nella salute mentale era atteso da tempo anche prima della pandemia ed è diventato estremamente urgente ora”.

POTREBBE INTERESSARTI

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012