SOCIETÀ

La città, la democrazia deliberativa e i cittadini come costruttori di comunità /2

Ascolto attivo, il nuovo frattale.

Bertuglia, Greco e Vaio nell’aprire questo dibattito su “La città dopo la pandemia”,, scrivono: “La crisi mondiale scatenata dal covid-19 ha imposto l’esigenza di cambiare il modo di vivere in comune, come prima era accaduto soltanto a seguito di guerre, di rivoluzioni o dell’instaurazione di dittature e totalitarismi”. 

A me sembra che il cambiamento in atto sia più radicale di quello avvenuto, per esempio, dopo le guerre mondiali e anche con la rivoluzione russa e l’avvento del socialismo reale. Il cambiamento oggi in atto riguarda direttamente quel totem e tabù, quel frattale che configura lo spartiacque fra chi sa e chi non sa, la cui permanenza è alla radice della vacuità che ha impedito di occuparsi di come costruire una democrazia e anche un socialismo reale con gli anticorpi alla violenza e autoritarismo, e di riconoscere la dovuta importanza a coloro che su questo concentravano la loro attenzione. Nelle mille compenetrazioni e sovrapposizioni fra globalizzazione, digitalizzazione ed emergenze (sanitaria, economica, sociale, ambientale) l’antico frattale non è che si sta sciogliendo (metafora della società liquida), è più giusto sostenere che sta esplodendo in mille pezzi. 

Dalla fine degli anni ’60 del secolo scorso in poi, è stato sempre più difficile negare che la sfera familiare, grazie alla rivolta giovanile e al femminismo, stava diventando un sistema complesso, dove nessun attore poteva omologare tutti gli altri. Sarebbe stato molto utile al sistema famiglia, nel passaggio dal semplice al complesso, poter riflettere sui cambiamenti che questa transizione comporta e sui vecchi e nuovi saperi da mettere in atto. Ma sia la scuola, sia la PA, due istituzioni che dovrebbero incorporare e rappresentare anche metaforicamente i gradi più alti del processo di civilizzazione, si trovavano totalmente impantanate nella vecchia cornice. E invece di fare da traino hanno fatto da freno. Poi è arrivato lo tsunami della digitalizzazione/globalizzazione e adesso tutte le sfere sono nel caos, in quanto, essendo divenute tutte complesse, continuano a essere governate da competenze e comportamenti inadeguati. 

Nei paragrafi che seguono, mi propongo di illustrare questa specifica conflittualità dal punto di vista dei meccanismi identitari, culturali e antropologici che impediscono o favoriscono il cambiamento. In particolare, ho diviso l’esposizione in due parti: A. Il pantano dei luoghi comuni e B. Che fare? Gli esempi portati riguardano: le nuove dinamiche relazionali e la pervasività dei luoghi comuni; la stretta connessione fra esclusività del sapere e un’idea della democrazia che si esaurisce nel confronto parlamentare; e infine i savoir faire della facilitatrice/tore, non a caso a volte paragonata alla levatrice, che consentono e promuovono l’emergere e affermarsi del nuovo frattale, imperniato sull’ascolto attivo.

C’era del vero nello slogan del ’68 «una risata vi seppellirà», ma, come insegna l’umorismo, per poter ridere abbiamo bisogno di una battuta e di un significato alternativo che rimpiazza quello dato per scontato in precedenza. Al momento, nonostante vi siano in tutte le sfere dell’agire abbondanti buone pratiche, mancano a livello di opinione pubblica sia l’attenzione per le stesse sia le battute che fanno scattare quella che Freud ha chiamato “doppia illuminazione”. Spero che quanto segue possa aiutare. 

La sindrome da indebita ingerenza

Prendo il via da un paio di esempi. Il primo riguarda la madre di un ragazzo di un Istituto Superiore che, attiva in alcune associazioni di volontariato, chiede un appuntamento al preside per proporgli di tener aperta la scuola di pomeriggio e consentire l’uso dei suoi locali a iniziative presenti sul territorio. La risposta del preside è irremovibile: «Non posso dare questo consenso per motivi di sicurezza». Una volta, di fronte a una risposta come questa da parte di un’autorità dello Stato, normalmente il cittadino si rassegnava e subiva. Lui, il preside, conosceva le leggi e lui decideva. Se diceva no, era no. Quell’argomento era chiuso. Punto. Ma la reazione della signora è di tutt’altro tipo. «Io so che in altre scuole lo fanno. E se lo fanno loro perché non potremmo farlo anche noi?» Nella reazione «Signor preside io le chiedo di informarsi per capire in base a quali regole e quali provvedimenti altri istituti restano aperti anche il pomeriggio» è contenuta l’idea di un procedimento di costituzione del diritto pubblico completamente diverso da quello autoritativo vigente. Al preside che spiega che «il regolamento non prevede l’apertura pomeridiana» e che in ogni caso «non abbiamo i soldi per pagare la sorveglianza o i bidelli» ecc., una società liquida costruttiva oppone un modo di operare basato sull’andare a vedere come altrimenti si fa altrove. 

Un secondo esempio lo traggo da un’esperienza di processo partecipativo sulla localizzazione di impianti di compostaggio in una grande città italiana. Uno degli abitanti dichiara: «A causa del traffico ci metto un’ora e mezzo per andare al lavoro in auto la mattina. Se immagino che sulla stessa strada passeranno duecento camion di umido, impazzisco. O mi spiegano come risolvono questi problemi o mi sdraio in mezzo ai cantieri e impedisco che i lavori procedano». A pensarla come lui sono in parecchi, organizzati in comitati “No agli impianti di compostaggio”. Di fronte a queste accese contestazioni, le reazioni presenti fra la dirigenza dell’Azienda di raccolta e trasformazione dei rifiuti vanno da “È la solita reazione Nimby, con loro non si può discutere», a «Ne abbiamo già tenuto conto e ne terremo conto, sappiamo noi come si fa».

In entrambi questi casi la “pretesa” della genitrice di avere voce in capitolo nella decisione di aprire o no la scuola alla comunità locale o quella del cittadino di discutere della rete dei trasporti, viene intesa, dal preside e dai dirigenti dell'Azienda, come una “indebita ingerenza”, un segno di mancanza di rispetto per le loro competenze e attribuzioni di comando, mentre dai cittadini come diritto di essere informati sul ventaglio delle esperienze e dei know how praticati altrove, prima di decidere. 

La genitrice e l’abitante che va al lavoro in auto vedono il diniego delle controparti come un segno di incompetenza e pochezza manageriale e considerano i regolamenti a cui si appellano dei rituali e gerghi astrusi dietro i quali si nasconde la irresponsabilità dei decisori. Viceversa il preside e i dirigenti dell’Azienda immaginano infastiditi una scuola o una città governate “da una masnada di cittadini incompetenti.” Questa visione dicotomica: “o noi competenti o loro dilettanti allo sbaraglio” è, come possiamo ben vedere non solo in Italia, una pericolosa profezia che si auto-realizza.

Esiste infatti una terza possibilità fra l’andare alla malora grazie ai competenti oppure grazie agli incompetenti, che consiste nel trattare la diversità non come base per un conteggio di numeri e di percentuali, ma come decisiva fonte di conoscenza qualitativa. 

Su competenza e diversità esiste un’interessante ricerca scientifica ad opera di un ricercatore di CalTech di nome Scott Page, il quale ha costruito con il computer un modello matematico per studiare l’ottimizzazione delle condizioni e strategie nella soluzione dei problemi. Il modello metteva a confronto gli esiti di gruppi composti dai migliori esperti con quelli di gruppi scelti in maniera casuale, e il risultato inaspettato è stato il seguente: quasi sempre “la diversità dava scacco alla competenza” (Page S., 2007, Making the Difference: Applying a Logic of Diversity, Academy of Management Perspectives, 21, 4, pp. 6-20– L’ espressione usata dall’autore è: «In my model diversity trumped ability»). In altre parole, se uno stesso problema viene presentato a due gruppi, uno dei quali composto esclusivamente di esperti e l’altro “differenziato”, in cui cioè è presente un’ampia varietà di persone, il secondo gruppo arriva sistematicamente a soluzioni migliori. Il motivo è che del secondo fanno parte anche gli esperti, mentre del primo solo gli esperti. Ovvero: l’inclusività è vincente. Piuttosto che di scacco alla competenza, sarebbe dunque più giusto parlare di un principio della maggiore efficacia delle decisioni inclusive. 

L’outing su sapere esperto/sapere comune e la democrazia.

La dicotomia fondamentale sulla quale il professionista escludente costituisce il proprio spazio e il proprio agire esclusivi è quella fra “sapere comune” e “sapere esperto”.

Anche a questo proposito riporto un caso che ho descritto più lungamente altrove. In una certa provincia, gruppi di genitori si sono organizzati e mobilitati, e hanno raccolto decine di firme per chiedere di includere nei programmi e negli edifici delle locali scuole materne ed elementari anche classi improntate al metodo Montessori. Le reazioni sono di due tipi: da un lato numerose giovani insegnanti si dicono molto interessate e si iscrivono ai corsi della Associazione Nazionale Montessori, per ottenere un attestato che consenta loro di operare in questo senso. Ma questo non fa notizia. Ciò che fa notizia sono le levate di scudi di chi ritiene che non sia competenza dei cittadini avanzare proposte del genere. La richiesta dei genitori è bocciata contemporaneamente da chi, nella scuola, sostiene che l’approccio Montessori è troppo arretrato rispetto agli avanzamenti pedagogici già in atto e da chi, all’opposto, sostiene che si tratta di un metodo talmente avanzato che il normale funzionamento della scuola italiana potrebbe solo stravolgerlo. In entrambi i casi vi è un chiaro sentimento che la propria competenza professionale è minacciata e oltraggiata, e si passa alla riscossa rendendo espliciti i confini da non oltrepassare. È interessante notare che tutti, pur nelle divergenze, fanno appello alle stesse identiche similitudini e luoghi comuni. Eccoli. 

L’outing di chi pensa che la Montessori “è troppo arretrata”: «Succede sempre più spesso che il comune cittadino immagini di poter dettare la ricetta per la cura della sua malattia al medico, indichi la strada per arrivare a una sentenza favorevole all’avvocato, ritenga legittimo pretendere da parte della scuola l’applicazione del metodo a lui più congeniale per l’educazione del figlio. [...] In ambito educativo prestare attenzione ai singoli bambini, confrontarsi con le loro famiglie, chiedere e accogliere suggerimenti in merito a strategie che possono rispondere meglio a particolari necessità non significa accettare qualsiasi richiesta. Non significa sposare metodi educativi solo per rispondere alle aspettative o all’insistenza di alcune (anche molte) famiglie».

L’outing di chi pensa che sia “troppo avanzata”: «Vi immaginate un qualsiasi settore professionale che fa scegliere agli utenti o ai clienti l’essenza stessa della propria competenza? Pensate a un chirurgo che entra in corsia il giorno degli interventi e si rivolge ai degenti che deve operare: ‘Allora ragazzi, come procediamo oggi? Volete un lavoretto mini-invasivo con assistenza robotica o andiamo col vecchio bisturi?’ I pazienti salterebbero dalle finestre. Se accade nella scuola, invece, nessuno si meraviglia [...] Troppi genitori non si rendono conto che queste sono cose da professionisti, che la democrazia qui non può nulla, che un metodo non si vota, e abboccano, si sentono coinvolti nelle scelte delle istituzioni».

L’intero confronto s’impernia sulla contrapposizione fra chi sa e chi non sa, fra chi possiede la conoscenza e chi no, e da questo discende lo sviluppo di un campo conversazionale che procede sui binari dell’ “io ho ragione, tu hai torto”, “giusto, sbagliato”, “amico, nemico”, “o con noi o contro di noi”. Dare spazio a posizioni divergenti è la débâcle, la rinuncia a esercitare la propria “responsabilità istituzionale e scientifica”. La possibilità di dialogo (inteso come ascolto attivo e moltiplicazione delle opzioni) non è contemplata. O voto a maggioranza (fatto coincidere con “democrazia”) o parere insindacabile degli esperti.

Se si vuole cambiare scenario, uscire da questa litigiosità dalla quale non si impara niente di nuovo, bisogna resistere alla tentazione di entrare nel merito degli argomenti così impostati e dedicare invece l’attenzione a re-impostare i rapporti su basi diverse. Bisogna andare senza tanti complimenti a collocarci nel sistema complesso. L’incipit, non dovrebbe meravigliare, è il sapere di non sapere. 

Competenza ed epistemologia, per una buona uscita dalla Pandemia

C’è una comune “cornice”, uno stesso frattale, che tiene insieme e dà coerenza, nella modernità, ai rapporti di potere e concezione dell’autorità in seno alla famiglia, nelle professioni, nella impalcatura autoritativa (cioè autoritaria e gerarchica) del diritto pubblico. Ognuna di queste sfere, ci ricordava Heinz von Foerster nel corso di un convegno tenutosi a Bolzano molti anni fa, si regge su un’idea della conoscenza come di qualcosa che alcuni possiedono e altri no. Chi ha il potere fissa gli archi di possibilità (la cornice) entro cui gli altri devono adattarsi, e chi “esce” subisce la riprovazione di tutti gli altri, non solo di chi è al potere. 

Nello stesso convegno Humberto Maturana ha aggiunto che «in biologia non la razionalità, ma i contrasti di premesse sono il linguaggio basilare». In assenza di questo linguaggio che opera per mutua modulazione fra campi fenomenici che rispondono a premesse divergenti, la vita non sarebbe mai nata sul nostro pianeta. Questo vale anche a maggior ragione sul piano sociologico e sociale. 

Tutte le competenze di base del professionista inclusivo, ascolto attivo, autoconsapevolezza emozionale, gestione creativa dei conflitti, sono rappresentabili graficamente come delle “bisociazioni”, ovvero come una modalità di comunicazione che accoglie i paradossi e trasforma i contrasti di premesse in intelligenza plurale. Questo è l’anello evolutivo che manca al professionista escludente e gli impedisce di capire che l’approccio “bisociativo” (termine coniato da Arthur Koestler nel suo fondamentale L’Atto della Creazione) è molto più interessante, divertente ed efficace della comunicazione unidirezionale. Questo implica idee diverse anche sulla scienza e sulla democrazia. Mentre le basi scientifiche del “Io so, tu non sai” sono chiaramente riduzionistiche, quelle della moltiplicazione dei punti di vista fanno riferimento ai sistemi aperti, alla cibernetica, alla fisica dei quanti. E in democrazia, a una concezione della stessa in cui i cittadini per decidere le loro preferenze ricorrono normalmente al dialogo e al confronto creativo, e solo occasionalmente e quando strettamente necessario al voto e al conteggio delle percentuali.

Ma una cosa è asserire quanto sopra e un’altra è seguire al microscopio e rallentatore un processo in cui questo avviene veramente. I prossimi paragrafi sono dunque dedicati a descrivere in modo alquanto circostanziato, “il mestiere della facilitatrice/tore”, cioè di quella nuova figura professionale che ha il compito di garantire che le parti in causa possano incontrarsi in contesti di mutuo apprendimento e di aiutarle a farne l'uso migliore possibile. Cioè più creativo e corrispondente al reciproco gradimento. 

Le dinamiche del Confronto Creativo: al microscopio e al rallentatore. 

Svolgo questo racconto come se mi avessero dato l’incarico di facilitare una soluzione creativa del conflitto. All’inizio abbiamo tre posizioni contrapposte, chi propone l’inserimento del metodo Montessori nella scuola, chi è contro perché troppo arretrato e chi contro perché troppo avanzato. Poi abbiamo le giovani insegnanti che si sono mobilitate per ottenere la qualifica di docente Montessori, le quali hanno anche loro delle loro idee e aspirazioni. Primo passo: costruire un contesto, un “contenitore”, in cui i portavoce di queste quattro posizioni ed eventualmente di altre espresse da chi ha a cuore il futuro della scuola, possano trovarsi fianco a fianco per seguire tutti assieme un percorso che ha delle precise tappe, che sono: 1. ascolto attivo reciproco; 2. moltiplicazione delle opzioni; 3. co-progettazione creativa. 

Trovarsi “fianco a fianco” significa che non c’è chi deve difendere una posizione data e chi la contesta, non ci sono guardiani di archi di possibilità già stabiliti e smantellatori degli stessi, ma una pluralità di attori che illustrano le proprie posizioni divergenti come contributo per capire tutti meglio di cosa si sta parlando. Tutti i partecipanti sono esploratori di mondi possibili e l’arco delle possibilità è aperto con la sola condizione che la meta deve essere un progetto implementabile.

Fase dell’ascolto attivo reciproco: ognuno cerca di capire le posizioni dell’altro assumendo che sia intelligente e che abbia delle buone ragioni; questo implica uscire dagli stereotipi e rendersi conto che quando si parla, per esempio, di “metodo Montessori”, con grande probabilità ognuno ha in mente immagini e particolari diversi. Quindi le domande sono, per esempio, del tipo: quali sono gli aspetti di questo approccio che ti sembrano più interessanti e che ti sembrano carenti nella scuola attuale? Quali sono gli aspetti specifici della scuola attuale che rendono impossibile un buon inserimento del Metodo? E così via. In questa fase l’unica interlocuzione consentita è la domanda per capire meglio, mentre è esclusa la discussione sui pro e contro di ogni singola posizione. Come nel brainstorming, chi dissente è invitato a proporre la sua idea alternativa. Si tratta di mantenere un clima in cui ognuno è percepito prima di tutto come una persona speciale e unica con una propria storia e possa trasmettere senza timori di essere criticato, i valori, le preoccupazioni e l’entusiasmo che stanno alla base delle proprie proposte, idee e suggerimenti. Quello che le persone dicono viene sintetizzato su un poster o una lavagna, possibilmente con la tecnica della visualizzazione e al termine della sessione si dedica un momento di riflessione a questo quadro sinottico e ci si domanda: dove dobbiamo cercare per trovare delle proposte che consentano di andare incontro alla maggior parte di queste idee e preoccupazioni? Questa domanda sancisce l’emergere di quella che è stata chiamata “intelligenza collettiva” o “intelligenza plurale” e ci introduce sulla soglia della tappa seguente, l’esplorazione e ulteriore moltiplicazione delle opzioni.

La esplorazione delle opzioni “in uno spirito di equità” rimanda all’immaginazione, creatività, patrimonio culturale di ognuno, ma il suo asse portante è la ricerca di esperienze già in atto (“buone pratiche”) in cui i desiderata emersi siano già stati in buona parte messi in opera. Oggigiorno, con internet e la possibilità di proiettare immagini, video, interviste, l’accessibilità di queste esperienze è incomparabilmente facilitata. Nel lavoro di scambio di queste “scoperte”, di solito di per se stesso molto piacevole, non di rado emergono nuove idee che si rivelano risolutive per passare alla fase successiva della co-progettazione creativa. 

Vediamo adesso quali sono le tipiche difficoltà e resistenze che si presentano in ognuna di queste tappe o fasi e come il facilitatore riesce ad aiutare i partecipanti a farvi fronte. Si tratta di un savoir faire che pur essendo posseduto magistralmente dai facilitatori, deve essere idealmente conosciuto e riconosciuto da ogni abitante del pianeta globalizzato e parte della cassetta degli attrezzi di ogni professionista inclusivo. 

 I “trucchi del mestiere” per navigare nella complessità.

Per prima cosa è necessario stabilire un rapporto di fiducia personale fra tutti gli attori in gioco. Qui lo strumento principale è l’ascolto attivo con cui la facilitatrice/tore approccia ognuno di loro, facendosi personalmente garante che non si tratta di stabilire chi ha ragione o chi ha torto, ma di permettere a ognuno di capire meglio le reciproche preoccupazioni e punti di vista. L’adesione dei partecipanti alle regole del gioco, è ciò che costituisce il “contenitore” dell’incontro. Da questo momento in poi il ruolo della facilitatrice è quello di una specie di nocchiero che deve garantire la tenuta della rotta in un mare sempre molto mosso. Nel corso della prima tappa c’è il problema di aiutare i partecipanti, in gran parte col proprio esempio e con il ricorso alla parafrasi, a passare da un atteggiamento giudicante a uno di ascolto attivo e a formulare domande maieutiche, che attivano negli interlocutori un senso di autostima e la voglia di tirar fuori il meglio di se stessi. 

Nella fase della moltiplicazione delle opzioni, le difficoltà principali sono di due tipi. La prima è che il compito appare impossibile, nessuno degli originali progetti è adeguato e nessuno sa cosa altro proporre. Qui torna prezioso un suggerimento di Kurt Lewin (l’inventore della ricerca-azione): quando si ha di fronte un problema sistemico è inutile intestardirsi a risolverlo, quello che si deve fare è cambiare punto di vista: passare dal problem solving al problem setting. A questo fine la discussione sugli ostacoli e sui vincoli va sospesa e sostituita con l’elaborazione collettiva di una visione di futuro desiderabile (quasi sempre già presente nella sintesi della tappa precedente) che diventa la guida per la ricerca di idee e buone pratiche di mutuo gradimento. L’altra difficoltà è l’ansia di arrivare a delle conclusioni, il timore che la moltiplicazione delle opzioni faccia perdere tempo e confonda le idee. A questo proposito è molto utile un po’ di umorismo, il clima giocoso della ricerca e qualche esempio su come in situazioni analoghe, proprio quando si stava per disperare, la soluzione inedita è apparsa. 

Dalle spiegazioni soporifere agli incidenti critici. 

Infine nel passaggio alla co-progettazione la difficoltà principale può essere sintetizzata in una domanda: in cosa consiste e come funziona l’operatività del progetto che ci interessa e come possiamo rendere quel know-how trasferibile? Il funzionamento di un sistema complesso non è lineare e unidirezionale, ma circolare e creativo. È specialmente in questa fase che si tocca con mano l’assenza nel pensiero dominante occidentale del gusto e savoir faire dell’operatività creativa, sostituiti da una attitudine che Gregory Bateson chiama “spiegazione soporifera”. 

Esempi di spiegazioni soporifere molto comuni nel nostro dibattito pubblico sono del tipo: “la ricostruzione post-terremoto è bloccata per colpa della burocrazia” (oppure: a causa della casta, del capitalismo, del ministero, dell’egoismo umano ecc.). O viceversa: “questa scuola funziona in modo eccellente per merito di una direttrice didattica molto brava” (oppure: per la sua capacità di leadership, ha studiato alla Bocconi, sa come trattare la gente, ecc.).

Queste spiegazioni non sono “sbagliate”, sono tautologiche, astratte, non dicono nulla di specifico su cosa bisognerebbe cambiare e cosa valorizzare. Il contrario della spiegazione soporifera è l’approccio basato sugli “incidenti critici”. Il passaggio dall’una all’altro richiede di volgere l’attenzione dai “comportamenti in generale” a delle specifiche, concrete e contingenti situazioni critiche, di crisi. La “direttrice brava” (descrizione soporifera) cosa ha fatto di diverso rispetto a una direttrice “normale” in una situazione critica analoga (descrizione non soporifera)? Ecco un esempio. I bambini di un’ottima scuola elementare pubblica di Roma all’uscita alle quattro del pomeriggio vogliono rimanere nel cortile a giocare tra loro. Una direttrice “normale” direbbe: «Non posso dare il permesso. Non ci sono più i bidelli e se si fanno male la responsabilità sarebbe mia». Anche la direttrice “in gamba” ha detto questo, ma poi rivolta ai genitori e nonni ha aggiunto: «Cosa facciamo?». Ha mantenuto aperta la esplorazione di altre soluzioni. Un genitore ha detto: «Mi informo se possiamo assicurarci come genitori». Era possibile, si sono organizzati e così si è risolto il problema. In sintesi, governare nella complessità richiede: qualcuno che apre l’arco delle possibilità, qualcun altro che accetta di collaborare e la capacità di mettere in atto le soluzioni trovate o inventate. L’operatività creativa procede in contesti caratterizzati dalla circolarità delle reazioni alle reazioni che portano per successive auto-correzioni a un esito o a un altro. È osservando questa circolarità che possiamo ricavare delle generalizzazioni relative agli archi di possibilità e riflettere sulle cornici di cui si è parte.

Per finire aggiungo che nel caso del rapporto fra metodo Montessori e scuola di stato italiana, come facilitatrice avrei proposto di organizzare delle visite sia a una normale ottima scuola Montessori sia ad alcune scuole pubbliche in cui questo metodo è già stato inserito. Visite predisposte per interrogare i luoghi e le persone nell’ottica degli incidenti critici. E non mi meraviglierei se lungo il cammino, emergessero delle idee più ambiziose su come ripensare la scuola e il sistema scolastico italiano, in modo che i futuri adulti che la frequentano vengano a conoscenza delle abilità di base della complessità e ne escano già almeno in parte vaccinati contro il dilagante chiacchiericcio soporifero.

Conclusioni: una trasformazione già in atto. 

La democrazia deliberativa offre una via di concreto superamento di queste dicotomie, sia a livello epistemologico che del tessuto sociale. A livello epistemologico, in quanto il presupposto da cui la DD parte è che l’unico modo per passare dal complicato al semplice è lasciare emergere la complessità e saperla valorizzare. A livello del tessuto sociale, moltiplicando i contenitori dialogici che affondano le radici nella maieutica socratica, ma che nelle turbolenze congenite del mondo contemporaneo possono imporsi solo se sorretti dai saperi, competenze e dispositivi della facilitazione e del confronto creativo.

Lo schema di quest’ultimo paragrafo procede così: per prima cosa un quadro sinottico sui diversi significati dell’espressione “ordine sociale” in una società gestibile come sistema semplice oppure come sistema complesso. Poi, alcuni esempi di Confronto Creativo già in atto nella governance dei territori e delle città. Infine, un ultimo quadro sinottico sui tratti salienti del nuovo frattale in embrione.

Le differenze evidenziate qui sotto nel grafico 5 (che si aggiunge e completa i quattro grafici della Prima Parte di questo scritto), sono tutte tendenze già in atto nel campo giuridico e giudiziario nelle pratiche di governance, negli istituti scolastici, nelle famiglie. Nella colonna di sinistra trovate le parole chiave della vecchia imbragatura, in quella a destra quelle relative al modo di operare secondo la logica dei sistemi aperti, della comunicazione circolare, della autocorrezione e mutua modulazione. Su queste trasformazioni, questi passaggi dall’ “Old Power” al “New Power” (J. Heimans & H. Timms, 2020) la letteratura è ormai chiara e abbondante. Il crowdsourcing, cioè il ricorso al patrimonio di saperi variegati e diffusi per informarsi ed elaborare soluzioni più adeguate, è il nuovo modo intelligente di stare al mondo. L’importanza dei contesti locali nella costruzione del senso e della realtà, non è più eludibile. Dal punto di vista della governance del territori e delle città, è importante sottolineare due modalità diverse e complementari di ricorso al crowdsourcing.

La prima consiste in un soggetto, un agente che via Internet si rivolge a tutti coloro che sono interessati a un certo tema o problema su un determinato territorio per chiedere la collaborazione di ognuno singolarmente. La seconda è un invito alla collettività a mobilitarsi e agire in modo gruppale, sempre su un certo tema o problema.

Un esempio molto interessante della prima modalità di crowdsourcing è in atto nel giornalismo. Come ha dichiarato il direttore del giornale olandese online De Corrispondent, «le persone fino a questo momento definite “pubblico” rappresentano la più grande fonte di conoscenze, competenze ed esperienze cui abbia accesso un giornalista. Eppure per più di un secolo e mezzo questa risorsa è stata poco sfruttata». Sono molti ormai i giornali, compresi The Guardian e il Washington Post che stabiliscono con i propri lettori rapporti di collaborazione redazionale e di raccolta sistematica di informazioni, come l’iniziativa di invitare ogni lettore a intervistare un rifugiato, o i dipendenti della Shell a parlare del rapporto fra le loro mansioni e le politiche della corporation. Un analogo esempio in campo industriale è quello della Toyota, dove, come racconta in un articolo sulla “impresa integrale” Federico Butera, in un anno i 350.000 dipendenti hanno suggerito 740.000 proposte di miglioramento effettivamente realizzate (ossia due proposte approvate per ogni dipendente), e dove la valorizzazione dell’agire artigiano dentro una impresa gigantesca si traduce, fra l’altro, nel riconoscere ad ognuno la work authority di poter fermare un processo difettoso (anche una catena di montaggio), il che costringe tutti ad accorrere quando sorge un problema. 

Questo è il tipo di aneddotica di cui si nutre questo nostro secolo scoprendo così la propria e nostra nuova identità. Ognuno è un “maker”, “change agent”, un “practitioner”, tutti termini in sintonia con l’approccio degli incidenti critici, con un’idea della progettazione flessibile, connessa, attuabile, adattabile, dialogica.

Ma la modalità più costruttivamente dirompente è quando il crowdsourcing si coniuga col confronto creativo. Mi soffermo qui solo su una di queste applicazioni: la stesura dei regolamenti attuativi delle leggi da parte della pluralità dei diretti interessati (la “reg neg” ovvero negotiated regulation, statunitense), perché mi capita di conoscere personalmente un paio di facilitatori professionisti che con i loro collaboratori hanno istruito processi partecipati di stesura di regolamenti relativi a leggi alquanto complesse e controverse, come la costruzione di un deposito di scorie nucleari nella zona della Yucca Mountain nel Nevada (Howard Bellman) e la regolamentazione per la sicurezza sul lavoro nei cantieri e impianti dove si usano gru giganti (Susan Podziba), e davanti agli esiti incredibilmente positivi in termini sia di accordo fra parti sia di efficacia nella implementazione, non posso fare a meno di pensare a quanto un procedimento del genere sarebbe utile in Italia. 

I vantaggi del reg neg, sottolineati dai suoi promotori, sono: 1. reg neg offre alle parti la partecipazione diretta alla stesura delle norme; 2. i facilitatori/mediatori sono più attivi nel coinvolgimento delle parti interessate di quanto avviene nelle normali procedure; 3. le parti sono impegnate direttamente nel merito del processo decisionale invece che essere sentite in qualità di esperti; 4. i costi e tempi della partecipazione sono ridotti perché le parti non hanno bisogno di predisporre gli incartamenti “difensivi” (non è necessario fare appello al Tar); 5. la qualità della partecipazione è più ricca, in quanto le parti sono in un contesto che le incentiva a esplicitare le proprie riserve e preoccupazioni; 6. un processo reg neg è positivo anche quando non si raggiunga il consenso completo, in quanto riesce comunque a chiarire i termini della questione e a mettere meglio a fuoco i termini del dissenso. 

Siamo ancora in fase di sperimentazione su tutto questo, ma le sperimentazioni si stanno moltiplicando e stanno diventando ogni giorno più numerose e creative, e un numero sempre più vasto di cittadini del mondo, in ogni continente, sta cliccando alla loro ricerca. Sotto la spinta della crisi pandemica globale, milioni di persone si stanno guardando attorno e stanno imparando prima di tutto, come disse la ragazzina membro del CCC che ho citato in precedenza, nella Parte I, «ad ascoltare, a dibattere e che esiste l’intelligenza collettiva». Per consolidare questi apprendimenti può essere utile anche quest’ultimo quadro sinottico, che illustra le caratteristiche del nuovo frattale, che rende naturale e semplice questo tipo di relazioni e di protagonismo a tutti i livelli, da quelli interpersonali alla governance dei territori, locali e internazionali. È il nuovo stile emergente dello stare felicemente al mondo. 

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