Lo scoppio della pandemia da Covid-19 ha avuto un drammatico impatto sulle città di tutto il mondo e ha sollevato questioni cruciali sull’evoluzione urbana. La pandemia in corso è stata all’origine di fenomeni, o ne ha accelerato lo sviluppo, che conoscevamo poco o non conoscevamo affatto. Fenomeni che toccano numerosissimi ambiti diversi, non solo quello strettamente sanitario. Fra questi fenomeni, di particolare rilievo sono quelli che, in varie forme e sotto molti punti di vista, attengono alla città, spaziando su settori della vita urbana che vanno ben oltre quello strettamente sanitario e quello urbanistico, ma di pari importanza e interesse scientifico, e soprattutto altrettanto di rilievo riguardo agli effetti sulla vita di tutti noi. I fenomeni nuovi che, insieme alla grave crisi economica e sanitaria, la pandemia ha messo in moto nella città coinvolgono dunque molti settori della vita degli individui nella società urbana, tutti molto importanti nell’epoca in cui viviamo. Essi si estendono dal settore sociologico a quello economico, dai temi del lavoro, della sua organizzazione, del suo finanziamento e della produzione in generale, soprattutto nel secondario e nel terziario, a quelli dei trasporti, dell’istruzione pubblica a tutti i livelli, così come a tutta quella vasta area delle attività economiche, sociali e culturali che da sempre consentono in modo fondamentale la vita dei cittadini e caratterizzano e arricchiscono la vitalità della città.

I fenomeni nuovi che la pandemia ha messo in moto coinvolgono molti settori della vita nella società urbana

Questo testo introduttivo era stato scritto, nella sua stesura preliminare, tra novembre e dicembre 2020, prima del 18 dicembre, giorno in cui è improvvisamente venuto a mancare l’amico Pietro Greco, redattore capo della testata online Il Bo Live e coautore di questo testo. La tristissima notizia della sua scomparsa ha profondamente addolorato tutti noi che l’avevamo conosciuto, gli eravamo amici, e che lo stimavamo grandemente, non solo per la sua vastissima cultura scientifica e storica, ma soprattutto per il suo inestimabile valore umano: quello di un vero ‘signore’, discreto e sempre affabile. Pietro aveva entusiasticamente accolto la nostra idea preliminare di dare inizio a questo dibattito pubblico, facendola immediatamente diventare un’iniziativa a tre. Fu lui stesso a proporre subito la testata Il BoLive, su cui ospitare il dibattito. Manteniamo la firma di Pietro su questo testo, la cui stesura preliminare lui aveva letto e approvato, e proseguiamo in questa proposta del dibattito, che illustriamo nel seguito. 

Grazie Pietro, a te va il nostro commosso ricordo e tutto il nostro affetto!

Aspetti dell’impatto della pandemia sulla città

La pandemia ha tracciato un solco tra un ‘prima’ e un ‘dopo’, uno spartiacque a dir poco drammatico tra un mondo che pensavamo di controllare e un mondo dal profilo incerto. Dall’inizio del 2020, nel volgere di poche settimane, gran parte delle nostre certezze si sono frantumate. La crisi mondiale scatenata dal Covid-19 un anno fa – la prima ‘zona rossa’ fuori dalla Cina, è stata istituita a Codogno e in altri nove comuni con ordinanza del 21 febbraio 2020; il lockdown è stato poi gradualmente esteso, in Italia, fino a interessare, l’11 marzo, tutto il territorio nazionale; nelle stesse settimane, misure di lockdown venivano via via adottate in altri paesi europei e, dopo poco, anche in paesi extraeuropei – ha imposto l’esigenza di cambiare il modo di vivere in comune, come prima era accaduto soltanto a seguito di guerre, di rivoluzioni o dell’instaurazione di dittature e totalitarismi.

Siamo stati chiamati a riflettere su ciò che è stato, sulle cause di quanto stiamo vivendo, sulle conseguenze sociali, economiche, politiche; siamo stati chiamati a porci domande sul futuro che ci attende. Un minuscolo virus ci ha neutralizzati e facciamo fatica a essere resilienti, a resistere e reagire.

«Un anno di distanza. Si conclude un anno di morte di dolore di incertezza di disperazione di disuguaglianze. Un anno che non avremmo mai voluto vivere e che invece dobbiamo capire e ricordare per tornare infine a sperare» Così titolava icasticamente in prima pagina il quotidiano Domani del 31 dicembre 2020.

Dopo lo shock, quello delle città deserte, spettrali, del primo lockdown, i luoghi dello shopping abbandonati, il lavoro che scompare, le scuole e le università chiuse, i treni e gli aerei quasi tutti fermi o semivuoti, in che direzione possiamo sperare di ripartire? E poi dovremo fare i conti con l’inedita esperienza di isolamento, di separazione dagli altri di questi ultimi mesi, che ha toccato tutti, giovani e vecchi: chiusi in casa, separati anche fuori, attenti a schivarsi per strada e nei grandi magazzini e, a maggior ragione, nei locali di piccole dimensioni. 

A lungo dovremo tenere le distanze fisiche fra noi. Quanto ciò inciderà sulla natura e sulla qualità delle nostre relazioni interpersonali? Ci dovremo abituare a una vita ‘a bassa intensità’?

La pandemia ha generato una condizione diffusa d’insicurezza, per noi, per gli altri, per coloro che ci sono vicini, per coloro che ci sono lontani. È una condizione d’insicurezza generalizzata, da cui si può uscire veramente, come richiamava Pier Aldo Rovatti, sulle pagine de L’Espresso del 6 dicembre 2020, non da soli, ma insieme, tutti insieme. Allo scoppio del contagio, prima ancora della pandemia, l’insicurezza, la paura di una ‘cosa’ ignota e oscura, l’esperienza del nuovo, l’isolamento, la solitudine inquietante delle strade deserte anche di giorno, mai viste così prima, come nemmeno i coprifuoco della seconda guerra mondiale avevano prodotto, durante tutta la giornata, nelle città – chi fra noi li ricorda per averli vissuti, chi li ha solo sentiti raccontare da chi li aveva vissuti – si erano tradotti in un nuovo forte senso di socialità. Una nuova socialità fatta di canti fra i balconi sulle vie, a reciproco incoraggiamento, di scambio di video e di WhatsApp ironici e spiritosi sulla nuova situazione, di sguardi incuriositi e imbarazzati di persone che si sorridevano dietro alle mascherine e si scusavano di non potersi avvicinare, costretti in nuove strane file ‘distanziate’, fuori dai negozi. Una nuova socialità dell’«andrà tutto bene», che traduceva incoraggiamento reciproco, compatimento, in senso etimologico, e una voglia di rifugiarsi nella fiducia, nella speranza e perfino in una inusitata ‘complicità del distanziamento’. 

Questo caldo senso di socialità che ci ha sorretto durante il primo lockdown, osservava Marco Damilano, ancora su L’Espresso del 6 dicembre 2020, è franato ora, nel secondo lockdown meno rigido del primo, meno generalizzato, e sentito perlopiù come un inutile peso imposto ‘da chi comanda’. Nessuna socialità, nessuna ‘complicità del distanziamento’. Nessuno dice più «ce la faremo!» L’incertezza, la paura, ma anche la fiducia e perfino l’ironia sulla nuova situazione si sono tramutate in noia e seccatura, in un ‘déjà vu’ che non ci tocca più nel profondo, che non evoca più nulla, come invece accadeva prima. La complicità fra i cittadini chiamati a raccolta nella lotta comune, in uno slancio corale contro il virus nel primo lockdown si è spenta, se non addirittura tramutata in un serpeggiante astioso litigio di tutti contro tutti per una coperta troppo corta da condividere o per una dilagante e stizzita insofferenza per le restrizioni imposte dai decreti, che trova supporto e rifugio nel negazionismo, quando non addirittura in un sottaciuto cinico ed egoista: «Ma sì! Perisca chi deve perire, tanto non sono io! basta che non vengano più a seccare me e a interferire nella mia attività!», talora cavalcato perfino da forze politiche di stampo populista, a livello locale e a livello nazionale. Oggi, nel secondo lockdown, nessuno canta né applaude più dai balconi, nessuno fa più risuonare «Nessun dorma... Vincerò! Vincerò!». Indifferenza, noia e seccatura. Ma la pandemia da Covid-19 è tutt’altro che finita. Continua a dilagare, soprattutto nelle città. Siamo cambiati noi. Soprattutto noi: gli abitanti delle città.

Osserva a questo proposito Walter Tocci in Roma come se. Alla ricerca del futuro per la capitale, il suo ultimo libro, di recentissima pubblicazione: «I comportamenti incivili si sentono in qualche modo giustificati dalla crisi dello spazio pubblico, dall’inefficienza dei servizi e dal disperante confronto con altre città. Dall’altro, però, proprio la gravità dei problemi convince una parte della cittadinanza a prendere posizione contro la mentalità dominante e a ricercare le ragioni della convivenza nell’esperienza individuale o di gruppo. Questa seconda tendenza sembra debole perché non ha ancora trovato una rappresentanza politica e neppure un racconto nel discorso pubblico. Infatti, la sua forza latente si rivela solo in condizioni eccezionali, come si è visto nella prima fase dell’epidemia Covid. Smentendo l’abusata immagine negativa, c’è stata un’adesione popolare alle regole, più ampia rispetto alle altre città europee, come hanno riconosciuto con stupore diversi osservatori internazionali. Le associazioni e i singoli cittadini hanno organizzato la solidarietà verso le persone bisognose e offerto da mangiare agli affamati, ben prima dell’amministrazione pubblica» (p. 6).

Con oltre la metà della popolazione mondiale raccolta in insediamenti urbani formali e informali, la crisi sanitaria, ormai in corso da un anno, non solo ha mostrato tutta la difficoltà delle città nell’affrontare le nuove sfide poste, portando alla luce sia questioni strettamente urbanistiche sia questioni fondamentali di uguaglianza, accesso e partecipazione dei cittadini alle decisioni. L’impatto della pandemia, ad esempio, ha portato a misure di blocco della circolazione, non solo delle auto ma perfino dei pedoni, a chiusura di scuole, di spazi pubblici e di istituzioni culturali, e ha causato un forte aumento della disoccupazione in molti settori, come – ma verrebbe da dire ‘prima di tutti’, in particolare nelle città – quelli legati al turismo. Ha aumentato e ha reso più evidenti, in particolare, le disuguaglianze economiche nella società, le quali, come spesso è accaduto in situazioni analoghe, hanno portato a un’ondata di xenofobia, al dilagare di isteriche interpretazioni complottiste affiancate dal diffondersi di negazionismi antiscientifici di ogni genere, a un arroccamento su posizioni nazionalistiche, sulle quali, più che lo spirito identitario degli individui che compongono una comunità, si canalizzano egoismi diffusi e condivisi, quando non all’insorgere di ciechi e ottusi localismi, e financo a un aumento dei fenomeni di violenza domestica.

Il virus si diffonde nelle grandi densità della popolazione: è noto da millenni che le città sono il terreno di sviluppo ideale per qualsiasi forma di contagio. Il modo più efficace per contenere il contagio è noto da molti secoli: è il distanziamento fisico fra gli individui, la disaggregazione fisica dei raggruppamenti sociali. Per la maggior parte dell’umanità, dunque, l’evoluzione futura dei centri urbani sarà uno degli elementi di maggior peso nel dare forma al ‘nuovo normale’ della vita quotidiana che verrà nel dopo pandemia.

Le grandi città, almeno quelle del mondo occidentale, i cuori pulsanti della vita culturale, economica e sociale per miliardi di persone, sono state aggredite dal virus: centri storici vuoti, negozi, bar, ristoranti, teatri e cinema chiusi, e turisti assenti. Le megalopoli, che non si fermavano mai, si sono trovate quasi tutte, in varia misura, come se fossero ferme, senza fiato, a fissare il vuoto, capaci solo di offrire malinconici stimoli a chi le può godere in solitudine. E che dire poi delle città e delle megalopoli del terzo mondo? Città colpite dalla pandemia come le città del mondo occidentale, ma di cui poco si parla, e su cui circolano poche notizie, pochi dati e poche statistiche: città dove lo smart working e la disaggregazione sociale erano e sono in larghissima misura solo pure utopie.

Le ripercussioni stanno colpendo in modo particolare le componenti socialmente svantaggiate delle popolazioni urbane, le quali spesso si trovano a vivere in aree molto densamente popolate, svolgono lavori precari, hanno scarsa resilienza finanziaria, accedono con difficoltà all’istruzione a distanza, all’assistenza sanitaria e ad altri essenziali servizi.

La pandemia ha lasciato un segno indelebile nel panorama delle città e induce in modo pressante a ripensare nella sua essenza lo sviluppo delle città in diverse dimensioni: sociale, culturale, infrastrutturale, economica, ambientale e altro ancora. Le città sono state tra le prime aree del globo a essere colpite, ma le città, sede da sempre di vivace vita economica e culturale, sono anche il luogo in cui vengono ideate soluzioni creative. Le città hanno dimostrato la loro capacità di adattarsi alla situazione globale in rapida evoluzione, fornendo talora risposte locali immediate, oltre a ripensare e reinventare le strutture urbane e i tessuti urbani per poter diventare più sostenibili.

Lo sviluppo urbano è multiforme e coinvolge molti aspetti a diverse dimensioni. I futuri modelli di sviluppo urbano per riuscire a soddisfare le diverse esigenze e la costante trasformazione dovranno quindi essere recepiti e accettati, e tenere conto dei forti legami e delle strette interconnessioni tra le diverse dimensioni della pianificazione urbana. Le esperienze delle città e le soluzioni innovative che stanno emergendo, così come le principali sfide affrontate, fra le quali i modi per sviluppare e promuovere un turismo resiliente e sostenibile, ci possono indicare come creare ambienti urbani più sostenibili e più equi per il tempo a venire, attraverso un processo decisionale più informato.

La pandemia in corso è all’origine di una vera e propria esplosione di riflessioni sulle città, sulle differenti evoluzioni a cui esse potrebbero andare incontro e sulle politiche che su di esse si potrebbero mettere in atto. Ad esempio, lo smart working, in Italia prima pressoché inesistente, si è rapidamente diffuso proprio a seguito del lockdown: il lockdown radicalizza la separazione tra ambiente privato sicuro e ambiente pubblico pericoloso per la salute dei cittadini, e mette in grave crisi il diffuso convincimento che identifica la città come il luogo precipuo per ogni forma di condivisione economica e sociale. Le città permettono agli esseri umani di tessere reti sociali, intellettuali ed economiche. Le città sono da sempre luoghi d’innovazione e di creatività, vivificati da processi di aggregazione fra gli individui. Potranno continuare a esserlo anche in futuro? Potranno continuare a esserlo nella stessa misura di prima? Per continuare a esserlo nella stessa misura, occorrerà rendere non pericoloso l’ambiente pubblico, l’ambiente condiviso. Ciò sarà possibile? E sarà possibile renderlo non pericoloso nella stessa misura in cui lo era prima? E tutto ciò a quale costo?

Le prime reazioni alla pandemia

Quando esplode una catastrofe come la pandemia, la maggior parte degli aspetti della vita assumono improvvisamente una nuova forma. La reazione immediata alla catastrofe si focalizza sui bisogni primari e sulla prevenzione dei rischi secondari. Nel caso della pandemia da Covid-19, la reazione ha spesso assunto la forma di blocco di attività non essenziali e di attribuzione di fondamentale priorità all’assistenza sanitaria e ai servizi di base. Altri servizi, fra i quali le scuole e le università, sono stati chiusi e spesso rimpiazzati rapidamente da soluzioni virtuali, svolte non ‘in presenza’. Ciò è accaduto, in forme e modalità differenti e a diversi livelli, più o meno in tutti i paesi fin dall’inizio del primo lockdown e, in gran parte, dura tuttora. Il quotidiano Domani del 28 novembre 2020 riporta, in un articolo a firma Lisa Di Giuseppe, che ENI fa lavorare da casa, in remoto, circa 15000 persone e che in futuro un terzo dei dipendenti lavorerà in remoto, mentre Enel ha trasferito in telelavoro il 55 percento dei dipendenti, e Intesa Sanpaolo fa lavorare in smart working oltre 60 mila dei 90 mila dipendenti.

Le città, in particolare, sono state in prima linea in questa reazione alla pandemia, fornendo risposte a molti livelli e su differenti dimensioni per consentire ai loro abitanti di affrontare la pandemia. Le amministrazioni cittadine, le comunità e gli individui hanno aperto la strada. Immagini di persone che cantavano e applaudivano sui balconi sono state comuni in tutto il mondo, rapidamente diffuse in rete o su WhatsApp; sono stati ideati servizi online per aiutare i vicini, e sono stati sviluppati strumenti e modalità per diffondere e condividere con ampi gruppi di persone non attrezzate tecnologicamente le informazioni sui nuovi provvedimenti e sulle successive misure in rapida evoluzione. Quali sono stati i più riusciti di tali iniziative, nuovi strumenti e modalità di comunicazione? Come hanno aiutato le città e i loro abitanti ad affrontare la pandemia? Come sono state diffuse le informazioni rilevanti e come è stato realizzato l’accesso ai servizi? ma anche: come è stato raccolto il feedback dai cittadini sulle comunicazioni e sulle successive misure prese?

Durante il picco dell’emergenza nei paesi colpiti per primi, fra i quali l’Italia, le città sono stati i luoghi privilegiati in cui tradurre a livello locale i regolamenti e le linee guida nazionali o regionali, e dove garantirne l’implementazione. L’implementazione locale richiede uno sforzo concertato da parte dell’amministrazione, dei gestori dei servizi e degli stessi abitanti, nonché la raccolta di feedback a livello nazionale. In molte città, la risposta immediata alla pandemia ha mostrato in quale misura i sistemi locali siano flessibili e adattivi nell’affrontare la crisi; spesso ha favorito la cooperazione, in un rapido adattamento a una nuova realtà, tra servizi che raramente prima si coordinavano fra loro. Che ciò significhi una chiusura imprevista, il passaggio a una nuova forma di operare o l’essere innovativi e affrontare un grande aumento della domanda, o che significhi altro, nessun settore della società ne è rimasto fuori. Come hanno collaborato tra loro i diversi settori? Quali sono le principali sfide affrontate, e quali sono le soluzioni più innovative? La maggiore cooperazione ha comportato anche una maggiore consapevolezza dell’importanza della preparazione al rischio, sia nei riguardi di una pandemia sia nei riguardi, ad esempio, dei drammatici e troppo sottovalutati effetti dei cambiamenti climatici o nei riguardi di qualsiasi altro rischio a cui la città può essere soggetta. Ci si sforzerà di essere maggiormente preparati quando arriverà la prossima crisi, e come?

La pandemia e le diseguaglianze economiche e sociali

La pandemia ha messo in luce le enormi disuguaglianze che aumentano le vulnerabilità in tempi di emergenza. L’aumento della povertà diffusa, a fronte dell’incremento della ricchezza di pochi, è una delle poche certezze che abbiamo in ordine alle conseguenze economiche e sociali della crisi innescata dal Covid-19. Alla scala globale, la pandemia causerà un’interruzione del percorso verso lo sradicamento della povertà estrema.

Secondo le stime di giugno 2020 della Banca Mondiale, la pandemia provocherà un aumento degli individui in condizione di povertà estrema (intendendo come tali le persone con un reddito giornaliero inferiore ai due dollari) compreso tra i 70 e i 100 milioni di unità.

Non ci sono dubbi riguardo al fatto che il covid-19 porterà a un aumento del numero dei poveri e a un acuirsi del livello di povertà di questi, anche nei paesi più sviluppati. Per comprendere la portata di questo evento, attualmente in corso, è utile il confronto con le pandemie del passato; per esempio con l’influenza ‘spagnola’, del 1918-19, la quale, come il covid-19, fu caratterizzata da un’altissima diffusibilità, ma da letalità relativamente contenuta (si stima che la ‘spagnola’ in Italia abbia ucciso il 3-4 per cento dei contagiati).

Nel nostro paese, studi recenti suggeriscono che la spagnola abbia portato a un aumento significativamente elevato della disuguaglianza di reddito, a seguito della disoccupazione, e abbia colpito più duramente le fasce più povere della popolazione.

Gli insegnamenti tratti dalle risposte alle crisi in tutto il mondo hanno reso evidente come, in fin dei conti, una crisi sia primariamente una questione sociale, in cui i gruppi socialmente svantaggiati e maggiormente vulnerabili sono colpiti in modo drammatico e soprattutto sproporzionato. Anche da questo punto di vista, vi sono grandi differenze tra le città, riferibili sia alle dimensioni della popolazione che vi abita sia ai disagi legati alle specifiche tensioni sociali che le popolazioni devono affrontare. Le città tendono a essere sede di disuguaglianze, spesso molto più grandi ed evidenti rispetto a quanto accade nelle aree rurali, più o meno in tutto il mondo. Ciò comporta che le sfide per affrontare la pandemia siano differenti tra le città e lo siano perfino all’interno di ciascuna di esse. 

Un approccio unico nella maggior parte dei casi non funziona. Un’economia lenta porta alla perdita di posti di lavoro, che colpisce soprattutto chi non ha accesso al risparmio o alla sicurezza sociale. La chiusura delle scuole non è vissuta allo stesso modo da chi non ha accesso all’elettricità o a internet, o da chi condivide la stanza con numerosi fratelli o sorelle. Una pandemia richiede il rafforzamento delle misure igieniche, ed è molto più difficile da affrontare nelle aree densamente popolate in cui l’accesso all’acqua pulita è limitato o non è per tutti. 

Le città, in particolare quelle che si trovano a gestire le grandi disuguaglianze, devono così studiare e definire modi specifici per affrontare tali disuguaglianze e mettere in atto misure specifiche per ridurle. Laddove l’attacco del Covid-19 ha esacerbato le disuguaglianze, molte città hanno escogitato nuove modalità per sostenere i più vulnerabili tra i loro cittadini.

Le conseguenze della pandemia sulla psicologia delle persone

Nella città in epoca di pandemia è cambiato anche il rapporto tra il corpo stesso dell’individuo inserito nella comunità urbana e la comunità urbana nel suo complesso. Si prospetta la necessità di una duratura e drastica prevenzione sanitaria di tipo sociale, che si esplica nell’uso delle mascherine, nel ripetuto controllo della temperatura, nel distanziamento fisico nei mezzi di trasporto pubblici, nei luoghi di lavoro, di studio e di svago. Il lockdown imposto, l’isolamento subito, le paure vissute, il disarmante senso di impotenza di fronte a un nemico sconosciuto, le sofferenze patite, i lutti diffusi, le scelte difficili su chi curare con maggiore urgenza in situazioni di carenza di servizi sanitari, gli attanaglianti dilemmi morali scatenati hanno lasciato profondi segni tanto nella società quanto nelle coscienze, nelle sensibilità e nelle concezioni individuali dei rapporti sociali.

In una situazione come quella che stiamo vivendo è inevitabile imbattersi nel cosiddetto ‘problema morale degli ultimi’. Lo richiama su la Repubblica del 14 ottobre Michela Marzano: «Gli ultimi della pandemia». Quando non puoi salvare tutti, chi abbandoni al suo destino, chi rinunci a salvare? «Quelle situazioni in cui – scrive Michela Marzano – qualunque sia la scelta che si faccia, le conseguenze sono sempre negative». «Si devono proteggere i residenti dal virus vietando le visite [...] oppure si possono lasciare entrare le persone care per preservare affetti e legami spesso necessari alla sopravvivenza esattamente come lo sono i farmaci e le cure? Si possono tenere prigionieri, o comunque segregati, gli ultrasessantacinquenni in attesa che si trovi un vaccino oppure li si deve lasciare circolare anche se alcuni reparti sono al limite del collasso, in certi ospedali non c’è già più posto e c’è chi attende il ricovero parcheggiato in una autoambulanza?» Nessuna soluzione sembra del tutto soddisfacente, come accade quando ci si trova di fronte a un dilemma morale; le conseguenze delle scelte, soprattutto sulle persone più anziane e fragili, possono essere terribili. Un problema che, ricorda il più anziano degli autori di questa Introduzione, era narrato dalla madre, la quale, giovane tredicenne, aveva vissuto la pandemia del 1918 in Sicilia. All’epoca, in quella narrazione, venivano abbandonati gli anziani! Certo, in etica medica esiste un principio secondo cui l’età o la disabilità non dovrebbero mai essere prese in considerazione quando si tratta di decidere chi accogliere o meno in ospedale, chi intubare e chi invece lasciar morire. «È un principio ispirato al valore dell’uguaglianza [...] Ma è proprio tale principio che, data la scarsità dei posti in ospedale, sta ora scricchiolando. E quindi?»

Più in generale, nessuna soluzione è sicura e la scarsità di risorse complica lo scenario. Ma gli anziani hanno il diritto di essere protetti. 

come si fa a difendere senza isolare e curare senza scegliere? Come si fa a riconoscere a tutti la stessa dignità?

E, per contro, come si fa a difendere senza isolare e curare senza scegliere? Come si fa a riconoscere a tutti la stessa dignità?

Già nei primi mesi della pandemia, dai numeri di marzo 2020, Lancet Psychiatry pubblicava numerosi articoli che, sulla base della precedente esperienza cinese del lockdown, sottolineavano con insistenza la necessità di studi approfonditi sugli effetti della pandemia sulla salute mentale dei gruppi più fragili, e sull’impatto del continuo bombardamento di contenuti mediatici sul covid-19. Le osservazioni confermano il sospetto di pesanti effetti indiretti del lockdown da pandemia che si manifestano nella forma di un incremento dei casi di depressione, soprattutto nei settori più vulnerabli della popolazione. Sugli anziani, in particolare, pesa la riduzione degli stimoli cognitivi, fisici ed emotivi, con la conseguenza di un’accelerazione del decadimento cognitivo. L’Organizzazione Mondiale della Sanità stima un aumento drammatico dei disturbi psicosociali e psichiatrici.

Molto si è scritto in questi mesi in ordine alle problematiche biologiche e clinico-assistenziali correlate alla pandemia da covid-19. Minore attenzione, invece, hanno ricevuto le questioni psicosociali conseguenti sia a un disastro inatteso, come la pandemia, al quale nessuno era preparato, sia al lockdown che ne è seguito. Il distanziamento ‘sociale’ (o meglio: ‘fisico’), resosi necessario in questi mesi, rappresenta una forma di vita innaturale, che confligge con il bisogno di legami sociali radicato nell’essere umano.

L’isolamento, imposto dal lockdown, è una condizione ben diversa dalla solitudine: la solitudine è la condizione soggettiva di chi non percepisce legami sociali soddisfacenti, mentre l’isolamento è caratterizzato da una mancanza oggettiva di interrelazioni sociali. Ci si può sentire isolati ma non soli, infatti, e ci si può sentire soli anche in mezzo a una folla! La disponibilità odierna di molteplici mezzi di comunicazione ha agito come efficace meccanismo protettivo di fronte al rischio di trasformare in solitudine l’isolamento causato dal distanziamento fisico. Numerose sono le ricerche condotte in questi mesi su campioni della popolazione totale, i cui risultati però sono, purtroppo, per motivi diversi non sempre attendibili. Si vedano a questo proposito gli articoli pubblicati su Il Sole 24ore del 27 settembre 2020, scritti da Giovanni de Girolamo (p. IX), da Alberto Mantovani («Un nemico che ancora conosciamo troppo poco)», e da Enrico Bucci («Se anche la comunità scientifica mostra sintomi di malattia»), contro l’abbandono del principio di superiorità della competenza.

Siamo a una di quelle svolte della storia alle quali concorrono fenomeni strutturali, come digitalizzazione, globalizzazione, disuguaglianze, cambiamento climatico, scelte politiche, dalla Brexit alla sconfitta di Trump, e imprevedibili acceleratori/deceleratori della storia, come la pandemia.

Il mondo, dopo, non sarà più lo stesso. Quando sapremo quanto lavoro e quanta ricchezza saranno stati distrutti, quando scopriremo quali sono state le politiche più virtuose, quando e dove arriverà la ripresa (presto? tardi? dappertutto? in pochi paesi? in più paesi?) e scopriremo chi recupera (molto? poco? rapidamente? lentamente?) solo allora comprenderemo chi sono i vincitori, se ce ne saranno (pochi!), e chi i vinti (tanti!) di questa tornata della storia

 La riapertura e le città

Dopo circa quattro mesi dallo scoppio della pandemia, molte città in tutto il mondo hanno iniziato ad allentare le misure restrittive prese inizialmente, in vista di un’auspicata e rapida ripresa economica. In linea di principio, il lockdown è una misura relativamente semplice da attuare, la riapertura graduale è invece un processo notevolmente complesso. Il recupero attraverso l’elaborazione di linee guida chiare è forse la fase più difficile per i governi centrali, a causa dei diversi tempi e delle diverse velocità secondo cui si possono riavviare i settori, delle diverse esigenze che caratterizzano le varie componenti delle popolazioni interessate, e dei diversi luoghi.

Le città giocano un ruolo cruciale in questo processo, forse ancor più che durante lo stesso lockdown. Abbiamo visto i governi locali aprire la strada alla riapertura in sicurezza delle attività. In che modo le città hanno comunicato le nuove misure? Come sono state diffuse e condivise le informazioni per gestire questa fase, e come è stato modificato l’ambiente urbano per favorire la comunicazione? In che modo le città hanno elaborato disposizioni migliori per l’igiene pubblica e per gli altri servizi? Tutto ciò può essere particolarmente impegnativo per le città, anche perché esse esercitano un forte impatto anche sulle persone che non vivono in città. Mentre la fase acuta si è concentrata sulle città, con il loro blocco, la riapertura torna a vivificare il ruolo della città come elemento centrale in una regione più ampia, vista come un centro che attira lavoratori pendolari, studenti, acquirenti, visitatori e turisti.

L’utilizzo in sicurezza dei mezzi pubblici o la fruizione delle aree verdi pubbliche da parte dei cittadini sono stati gestibili in modo relativamente facile durante il blocco, ma le stesse cose diventano molto più impegnative una volta che la città si apre e cessa di essere riservata ai soli abitanti. La forza della città come catalizzatore non solo delle economie regionali, ma anche dell’istruzione e della vita sociale e culturale, può facilmente tramutarsi in un elemento di debolezza, se non è gestita adeguatamente nella nuova fase. Città di tutte le dimensioni, in tutto il mondo, hanno trovato modalità adatte per affrontare queste sfide o si stanno impegnando con grandi sforzi per trovarle. In quali modi tutto ciò è stato gestito finora, nella riapertura dopo il primo lockdown, e come potrà essere fatto in seguito?

Proprio in virtù del loro ruolo di catalizzatore delle economie regionali, dell’istruzione e della vita sociale e culturale, le città tendono a essere il cuore pulsante nella vita dei paesi. Sono punti di transito per lavoratori e pendolari, sia all’interno del paese sia a livello internazionale. Sono luoghi verso cui le persone si recano per cercare l’istruzione superiore, per godere di un museo o per assistere a un concerto o a una rappresentazione teatrale. Proprio questo è ciò che conferisce vitalità alla città e la rende vibrante e creativa. Sebbene questa vitalità sia essenziale per la vita in città, potrebbe risultare particolarmente difficile riuscire a rinvigorirla dopo la pandemia. La ripresa è certamente auspicata, ma le persone potrebbero esitare a raccogliersi nuovamente in gruppi numerosi per andare a un ristorante, fare shopping o per andare in viaggio, al concerto o a teatro. La sicurezza doveva rimanere una priorità dopo la fine del primo lockdown, essa ha portato a un fragile equilibrio fra restrizioni e incoraggianti ‘via!’. Come hanno fatto i vari settori della società a collaborare fra loro per riportare in vita la loro città dopo il blocco del lockdown? In che modo i cittadini sono stati incoraggiati a impegnarsi, a interagire in sicurezza e a prendere parte nuovamente alla vita dopo il lockdown?

Riavviare l’economia in questo modo ha richiesto di superare i consueti schemi di pensiero, e di attingere a nuovi mercati. In tutto il mondo, le imprese piccole e medie, manifatturiere e dei servizi, le imprese culturali, i siti turistici e le imprese che dipendono dalle entrate del turismo hanno dovuto essere creative e innovative, spesso hanno sfruttato il periodo del lockdown per ripensare in tutto o in parte i propri modelli di business. Dal museo che deve fare affidamento solo su visitatori locali o su visite virtuali, alla scuola che fornisce istruzione a distanza, alla città che allenta le regole consuete per consentire punti di ristoro, tavolini o mercati su terreno pubblico. In che modo la città può aiutare le imprese pubbliche o private a riposizionarsi per sviluppare nuovi prodotti o attirare nuovi pubblici? In che modo le città hanno implementato misure per avviare il recupero nel bilanciamento fra restrizioni e graduali riaperture nei vari settori? Come riavviare l’economia locale e il turismo, escogitando modi in cui le istituzioni culturali ed educative possono essere mobilitate, impegnando i giovani e migliorando la mobilità?

 La risposta delle città alla pandemia

Le città stanno già gestendo le loro risposte immediate alla pandemia, ma stanno anche guardando avanti, per pianificare e sostenere gli sforzi per un recupero a lungo termine. Molte parti del mondo sono oggi nella prima o nella seconda fase della pandemia, ma ciò non deve impedire di rivolgere lo sguardo al futuro. Riflettere sulle esperienze delle città finora, così come sulle lezioni apprese dalle città che sono progredite ulteriormente nel ciclo di risposta, consentirà di avanzare nuove idee sia su come le città stesse possano rimanere in prima linea nella risposta e nell’innovazione sia su come esse possano meglio soddisfare le esigenze economiche, sociali e culturali dei cittadini.

I rischi e le sfide globali sono molteplici. La difficile situazione attuale determinata dalla pandemia e le sfide che essa propone possono costituire, in realtà, un’opportunità per trasformare in modo significativo le città, per accrescere resilienza e sostenibilità anche di fronte ad altre gravi ed incombenti emergenze ambientali e naturali, fra le quali non ultima la crisi climatica, già oggi grave, che minaccia di rivelarsi presto drammatica. Le città di tutto il mondo tendono a essere ben consapevoli dei rischi da affrontare per disastri naturali e ambientali sempre più frequenti e intensi, o legati alla rapida crescita della popolazione. Quali sono le lezioni apprese finora? Le città saranno meglio preparate in futuro? Numerose iniziative negli ultimi anni hanno cercato di ripensare la vita in città. In quanto pandemia, il covid-19 ha toccato il mondo intero, e ha indotto un insieme ancora più ampio di esperti, di professionisti e di innovatori a interrogarsi, tutti insieme, su come cogliere questa opportunità per ripensare a come la popolazione mondiale possa vivere meglio, in modo più sicuro, più armonioso e più sostenibile. Come si può andare oltre la ‘nuova normalità’, dicendo semplicemente: ‘non ricostruire, ma ripensare’? Ci stiamo muovendo verso la ‘città di domani’? Quale aspetto avrà?

La sfida è grande, non solo perché è in città che vive la maggior parte delle persone, ma anche perché il modo in cui oggi le città funzionano solleva pesanti interrogativi di fronte a una crisi globale. La crisi può costituire per i cittadini e i pianificatori l’opportunità giusta per ripensare radicalmente il modo in cui noi tutti viviamo, consumiamo, produciamo e viaggiamo. Le città sono i luoghi in cui tutto e tutti si connettono, ciò rende le città stesse vivaci e stimolanti, ma le rende anche vulnerabili. Le persone che vivono nelle città sono dipendenti più delle altre da servizi pubblici e privati per il trasporto, per l’alimentazione e per la fruizione di spazi aperti. Il lockdown ha mostrato come proprio l’interconnessione urbana possa essere un elemento di vulnerabilità, in una condizione in cui l’accesso inadeguato ai servizi o la loro interruzione renda questi stessi vulnerabili. Allo stesso tempo, le iniziative di quartiere che sono sorte in tutto il mondo hanno chiaramente mostrato che esiste anche un altro modo per vivere insieme nelle città. Quali sono le iniziative di successo che meritano di essere portate avanti in futuro, e come queste possono essere sostenute oltre la pandemia? Quali particolari sfide urbane devono essere affrontate per fornire soluzioni di vita sostenibili e salutari per i cittadini a lungo termine?

Una nuova modalità di lavoro: il lavoro a distanza

Lo stabilirsi del lavoro a distanza per le mansioni tradizionalmente svolte negli uffici privati e in quelli pubblici e l’adozione della teledidattica per le università hanno per effetto consistenti riduzioni della presenza giornaliera nei centri urbani dei pendolari per ragioni di lavoro e di studio. Ciò è all’origine della catena di crisi nel campo della ristorazione e dei bar, ma anche del piccolo commercio, compresi i negozi di qualità.

Uno dei dati più rilevanti delle dinamiche innescate dalla pandemia, in particolare nelle grandi città, è lo svuotamento degli uffici come esito dell’adozione diffusa di forme di smart working e di telelavoro. Gli analisti al servizio dei grandi investitori immobiliari stimano una riduzione della domanda di uffici almeno di un terzo. Questo potrebbe segnare una battuta d’arresto per il fenomeno della concentrazione del terziario e, fra le altre cose, potrà anche aprire la strada a riconversioni nell’uso dell’edificato in senso opposto a quanto accaduto negli ultimi decenni: da uffici ad abitazioni. Ciò, con la conseguente possibile, e per molti versi auspicabile, sottrazione della città ai voraci processi di finanziarizzazione dei centri sviluppatisi nei decenni della globalizzazione, e il ridimensionamento dei valori immobiliari.

A questo proposito, osserva Walter Tocci ancora in Roma come se: «Il Covid determina delle controindicazioni – la domanda di spazio domestico per il lavoro e lo studio a distanza – che certo frenano, ma non cancellano i margini di queste politiche [il riferimento è alle politiche di incentivazione della locazione privata]. Nel contempo, però, apre anche un’occasione ben più importante: tutti gli analisti prevedono un crollo della domanda di spazi per uffici a causa dello smart working. Con la riconversione del terziario a favore del residenziale si può aumentare l’offerta di abitazioni in affitto. In balia del mercato privato, però, questi processi non saranno in grado di garantire l’accesso alla casa per i redditi medio-bassi. Ritorna l’esigenza di una politica pubblica, non tanto per costruire nuove case ma per incentivare l’uso dello stock esistente nella locazione a canone calmierato e nell’edilizia sociale orizzontale» (p. 199).

Alcune formule sullo sviluppo urbano avanzate in questi mesi prevedono la possibilità di un riequilibrio insediativo che, proprio in virtù del telelavoro e della conseguente minore necessità di abitare in città, porterebbe al recupero dei piccoli borghi, ampiamente diffusi in tutto il territorio italiano, da decenni in crisi di spopolamento o, alcuni, del tutto abbandonati. L’eventuale processo di rivitalizzazione e ripopolamento su vasta scala dei borghi sarebbe, naturalmente, un processo molto complesso per molti aspetti. Ad esempio, nel caso dei borghi collinari e montani, esso richiederebbe una cura e un capillare lavoro di rifondazione dell’abitabilità dei borghi stessi, a cominciare da un’adeguata ed efficiente dotazione di servizi pubblici. Oltre a ciò, un processo siffatto vedrebbe affidato alla tecnologia il ruolo di ridefinire i quadri di vita, avendo come riferimento un homo tecnologicus che nel suo isolamento è sempre connesso alla rete, ma che si libera dagli obblighi della convivenza civile, a cominciare dai rapporti di prossimità, così come dalle potenzialità di cui questi rapporti sono portatori.

Altri immaginano una soluzione ibrida: quartieri densi, quasi autosufficienti, non concepiti come enormi contenitori di un gran numero di individui stipati in spazi angusti, dove virus e batteri si diffonderebbero rapidamente, come erano gli spazi edificati nei decenni della rapida e convulsa industrializzazione novecentesca di molte città italiane.

Una di queste soluzioni, a esempio, è la cosiddetta ‘città dei quindici minuti’, proposta dall’urbanista franco-colombiano Carlos Moreno: una nuova concezione della città, maturata nel contesto parigino prima della pandemia, adottata da Anne Hidalgo nella campagna elettorale che ha portato alla sua rielezione alla carica di sindaco. Moreno così sintetizza la proposta in un’intervista su Libération del gennaio 2020: «Sei cose rendono felice un abitante della città: vivere dignitosamente, lavorare in condizioni adeguate, procurarsi il necessario, benessere, istruzione e tempo libero. Per migliorare la qualità della vita, dobbiamo ridurre il raggio d’accesso a queste sei funzioni. Ho scelto il quarto d’ora per incidere sulle coscienze».

La ‘città dei quindici minuti’ esalta le parti del contesto urbano che presentano i maggiori vantaggi nell’accesso al lavoro e ai servizi, consentendo così il massimo risparmio di tempo negli spostamenti, ma non dice pressoché nulla su come preservare ed estendere tali qualità. La formula di Moreno è la più recente fra le proposte di rinnovamento urbano di impronta funzionalista, in linea con l’impostazione che ha orientato la Carta d’Atene (1933) e i progetti urbanistici di Le Corbusier. La ‘città dei quindici minuti’ è, per certi versi, la riproposta della questione della misura nelle relazioni di prossimità già affrontata in passato: ad esempio, da Clarence Stein e Henry Wright con il progetto della città di Radburn, fondata nel 1929 nell’area metropolitana di New York, per la quale i progettisti intesero riferirsi ai principi della pianificazione delle garden city inglesi

Tuttavia, qualcosa manca alla ‘città dei quindici minuti’. La riconquista della centralità dell’abitare non può che passare attraverso il ritrovamento e il potenziamento dell’equilibrio fra l’abitare privato e l’abitare condiviso, tra la casa e lo spazio pubblico, dove la vitalità e la qualità architettonica di strade, piazze e parchi è altrettanto importante quanto il fattore tempo. Assumere come riferimento fondamentale unicamente il parametro ‘tempo’, come sarebbe per qualsiasi altro parametro settoriale, non consente di comprendere a fondo la complessità della città e le sue potenzialità, né di costituire la guida di una politica urbanistica volta al bene comune.

Nella risposta delle città alla pandemia è fondamentale la necessità di rendere le città stesse più inclusive. L’impatto del covid-19 è più grave nelle aree urbane povere e densamente popolate, soprattutto per quel miliardo di persone che vivono in insediamenti informali e in baraccopoli. Le immagini dei lavoratori migranti a basso reddito che cercano in tutti i modi di tornare a casa nel pieno del lockdown, si ripresenteranno quando quelle stesse persone avranno bisogno di trovare modi e mezzi per ritornare ai loro luoghi di lavoro. Una volta che la fase di recupero a lungo termine sarà iniziata, il ripensamento della vita urbana non dovrà essere solo una questione di design urbano, ma dovrà affrontare, con politiche e azioni concrete, anche questioni strutturali attinenti alle disuguaglianze e all’inclusione. Come possono le politiche nei vari settori rendere le città più inclusive e ridurre queste vulnerabilità? Quali progetti sono in corso di studio per affrontare questo problema?

L’inclusività non è solo guardare ai più vulnerabili: essa implica in modo essenziale anche un’ampia partecipazione. I giovani, in particolare, in questo senso, possono e devono svolgere un ruolo chiave nel plasmare le città di domani. Saranno loro che le abiteranno. Durante le prime fasi della risposta al covid-19, amministrazioni, imprenditori e altri attori urbani hanno escogitato modi per garantire la partecipazione dei giovani. Cosa si può imparare da ciò? In che modo un’ampia varietà di cittadini può essere attiva nel pensare e dare forma a nuove iniziative per promuovere la creatività e l’innovazione?

 «Rendere le città e gli insediamenti umani inclusivi, sicuri, duraturi e sostenibili»

Il 25 settembre 2020, mentre il presidente del Consiglio Giuseppe Conte presentava all’Onu il progetto italiano per il contrasto ai cambiamenti climatici e sottolineava la volontà del Governo italiano di incoraggiare la mobilitazione dei cittadini sul tema, è tornato a manifestare in Italia e nel mondo il movimento Fridays for future, ispirato da Greta Thunberg, la quale, minorenne priva del diritto di voto, ha inventato per sé una nuova modalità di partecipazione politica.

La domanda è dunque: quali forme può prendere l'impegno individuale a fronte di un problema globale come il cambiamento climatico, di portata più ampia ancora della pandemia? Questa è la domanda che si pone Marcello Di Paola sul quotidiano Domani del 10 ottobre, a p. 13. Di Paola, riflettendo sul caso di Greta Thunberg, osserva che la sua è una «pratica di partecipazione politica pubblica, performativa, innovativa, radicale, accessibile e scalabile. È una pratica perché continuativa e ripetuta; pubblica perché chiamava in causa direttamente le istituzioni; performativa perché inscindibile dall'esecuzione in prima persona; innovativa perché rielaborava uno strumento familiare come lo sciopero, mettendolo a servizio di una causa nuova; radicale perché incorporava il sabotaggio (pacifico e simbolico) di uno dei gangli fondamentali della macchina sociale, la scuola, rappresentata come attualmente insufficiente se non inospitale all’articolazione ed espressione di una coscienza critica riguardo il cambiamento climatico [...]; accessibile perché era aperta a tutti e non costosa; scalabile perché efficacemente comunicabile [...] e facilmente replicabile [...] da altre persone in altri contesti».

Questa lista di caratteristiche fornisce un modello per articolare creativamente degli esperimenti di partecipazione e di mobilitazione politica non convenzionali sul tema del clima e non solo, che migliorino la qualità della vita dei cittadini e rispondano alle urgenze che assillano la società, come auspicato alle Nazioni Unite dal presidente Conte.

Di Paola aggiunge che un esperimento di tal genere sta prendendo piede in Italia e nel mondo. Esso ha il nome generico di agricoltura urbana, e include fenomeni disparati: dal giardinaggio individuale e di quartiere, alla creazione di complesse reti fisiche e digitali che connettono stakeholder anche molto diversi fra loro. In numerose città italiane sono già in corso esperimenti evoluti di agricoltura urbana diffusa e connessa. L’agricoltura urbana può avere un impatto climatico molto positivo, certamente, ma, oltre a ciò, può configurarsi come un esperimento di mobilitazione politica, performativa, continuata e ripetuta, facilmente accessibile, comunicabile e scalabile.

Il quesito fondamentale e generale che si pone è dunque: in che modo le città possono ripensare le politiche urbane per rafforzare la propria preparazione al rischio e la propria capacità di risposta, in accordo con l’Obiettivo 11 «Rendere le città e gli insediamenti umani inclusivi, sicuri, duraturi e sostenibili» dei diciassette ‘Obiettivi per lo sviluppo sostenibile’ posti nella Risoluzione adottata dall’Assemblea Generale dell’ONU il 25 settembre 2015, a tutti nota come «Agenda 2030»?

L'invito

Abbiamo invitato numerosi studiosi di grande rilievo a scrivere le proprie riflessioni, i propri commenti e le eventuali proposte su uno o più dei molti aspetti delle tante tematiche diverse che si possono ricollegare al tema generale «La città dopo la pandemia», che abbiamo presentato e illustrato nelle pagine precedenti. I loro contributi, scritti sotto forma di testo, verranno pubblicati con frequenza settimanale sulle pagine online de Il Bo Live, che ci ospita e che ringraziamo per la tribuna che ci offre. La loro pubblicazione costituirà la prima fase del dibattito pubblico che stiamo avviando.

Noi saremo lieti di pubblicare, in una seconda fase, altri studi ci giungessero. Saremo ugualmente lieti, una volta avviato il dibattito, di pubblicare i commenti e i contributi che ci perverranno anche dai lettori di questo sito, e di dare così voce anche a persone da noi non contattate, per svista o dimenticanza, cose di cui fin da ora ci scusiamo, o perché non le conosciamo personalmente, e quindi non sono state direttamente invitate, ma che a vario titolo e per varie ragioni si sentono coinvolte in un tema così importante come quello che dà titolo al dibattito.

Ogni contributo, di qualsiasi origine e tendenza, e di qualsiasi orientamento scientifico e politico sarà il benvenuto.

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