SOCIETÀ

La città dopo la pandemia: cambiamenti di fase

Solido / liquido / gassoso / plasmatico: transizioni o “cambiamenti di fase” della materia attraversano “punti critici” indifferentemente nei due sensi.

Anche in architettura vi sono “cambiamenti di fase” e “momenti critici” nei quali si coagula quanto da tempo è nell’aria solidificandosi in fatti o date, simbolo del diffondersi di tensioni verso una diversa concezione degli ambienti di vita. In architettura i “cambiamenti di fase” hanno poco a che fare con forme, stili o linguaggi perché – è l’ormai antico aforisma di Aulis Blomstedt – la forma architettonica è come un iceberg la cui parte visibile non è che segnale di realtà più ampie e profonde.

Fra gli stati della materia non c’è gerarchia. I “cambiamenti di fase” degli ambienti di vita – tralasciando i nostalgici – solitamente hanno invece carattere progressivo. L’avventura umana è punteggiata da rivoluzioni e nuovi modi di pensare. Sapiens, da animali a dèi è l’acuto titolo di della breve storia dell’umanità scritta da Yuval Noah Harari (pubblicata in Israele nel 2011, uscita in Italia, presso Bompiani, nel 2014), che ripercorre l’evolversi della capacità di comprendere, delle mentalità e delle organizzazioni. Certo non sono mancati sbandamenti, ma sono parte del momento storico nel quale vivono e si concludono.

Comunicazioni, accumuli di esperienze, collaborazioni, connessioni, cultura: homo sapiens è un particolare essere sociale anche se afflitto da patologie individuali. Dopo il generalizzato lockdown e qualche mese di sostanziali assenze, il verde ha cominciato a emergere dal pavimento delle piazze, il mare è diventato trasparente e cristallino, gli animali incuriositi si sono trovati a percorrere spazi a loro interdetti. Soprattutto, altra è l’aria che si respira, perfino altre sono le immagini della Terra che arrivano dallo spazio.

Da un po’ si ragiona sui temi della “distanza sociale”: come viaggeremo in aereo, sui treni, sui tram; come ridisegnare le panchine; come accedere a banche, uffici, negozi; come lavorare nelle fabbriche; come visitare i musei; cosa diventeranno ospedali, teatri, cinema, stadi. Poi, a scala globale, come eccitare ogni forma d’interazione online, come azzerare particolato e inquinamenti. Covid-19 genera ripensamenti, fa combattere concentrazioni e abitudini improprie, ma – superata l’emergenza – la questione non sarà più “distanziare”, piuttosto, “aggregare” con maggiore e solidale vigore. Usciti dall’emergenza, superata questa crisi, per poterne affrontare altre in futuro occorre che qualcosa cambi senza l’incubo di un medioevo prossimo venturo.

Nella seconda metà del ‘900 non mancano “cambiamenti di fase”, significativi anche se non epocali:

  • la fine dei CIAM e l’abbandono degli schematismi che animavano la Carta di Atene;
  • il risveglio prodotto da I limiti dello sviluppo, la ricerca promossa dal Club di Roma e che precede di poco la crisi del 1973; 
  • la caduta del muro di Berlino e la mostra Deconstructivist Architecture, sul finire degli anni ’80.

Tra la fine dei CIAM e la grande crisi energetica intercorre un intervallo di tempo analogo a quello che separa la stagione delle “domeniche a piedi” dalla caduta del muro di Berlino. Quindici anni dopo la grande crisi energetica, una nuova sostanziale mutazione dei modi di pensare avviene a fine anni ’80. Al MoMa di New York, la mostra Deconstructivist Architecture sembra intuire la caduta del Muro di Berlino e la necessità di un nuovo International Style in grado di dimostrare l’ineluttabile trionfo del capitalismo sui modelli “oltrecortina”. Inizia così la lunga stagione di oggetti catapultati in varie realtà, apparentemente magnifici e sconvolgenti, ma di fatto lontani dalle esigenze dei singoli contesti: sculture variamente manieristiche, astratte rispetto alle questioni che il costruire deve risolvere.

Anche questa terza fase è esaurita da tempo grazie alla recessione 2007-08, che tra l’altro riportò in auge frugalità e decrescita. Una densa nuvola di avvenimenti non aiuta a individuare date nodali negli ultimi decenni, mentre la rivoluzione informatica ormai interconnette tutto e tutti rendendo disponibili infinite quantità di dati e informazioni. A Parigi nel dicembre 2008 – mentre alla Cité de l’Architecture et du Patrimoine era in corso la mostra Team X: A Utopia of the Present – nell’occasione del suo cinquantenario, Le Carré Bleu, feuille internationale d’architecture lancia il progetto di Déclaration des Devoirs de l’Homme. Accelerazioni e impennate del XX secolo sono anche alla base di Collasso. Come le società scelgono di vivere o di morire, di Jared Diamond (edizione italiana: Einaudi, 2011). La crisi economica dà spazio ad ambizioni opposte a quelle del ventennio precedente. Nel pieno della crisi, Spillover: l’evoluzione delle pandemie, di David Quammen (edizione italiana: Adelphi, 2014), mostra come il dominio dell’uomo sull’ambiente sia la più pericolosa pandemia contemporanea e che le caratteristiche fisiche, chimiche e biologiche del pianeta sono sempre più condizionate dalla presenza umana. Non molto dopo, Laudato si’ denuncia le logiche che distruggono la natura e sfruttano i più deboli, intreccia la crisi ambientale ed ecologica con la crisi sociale, ha confortanti riscontri a scala mondiale che però poi si attenuano e contraddicono. Nel 2016 Reporting from the front è il tema della Biennale di Architettura a Venezia, Taking Care – Progettare per il bene comune quello del Padiglione Italia. La realtà però non cambia. Frugalità e resilienza restano slogan. Benché nel settembre 2015 l’Assemblea dell’ONU abbia adottato l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, l’inquinamento continua la sua corsa: lo comprovano l’attuale pandemia e il “cambiamento di fase” che ne scaturirà.

Lo stimolo a tradurre Laudato si’ in termini operativi si materializza nei contributi che animano il volume La cura della casa comune, pubblicato proprio nei giorni in cui il Covid-19 invade il Nord dell’Italia e poi si diffonde in Europa. Il volume, curato dalla “Fondazione Italiana di Bioarchitettura e Antropizzazione sostenibile dell’Ambiente”, pubblicato nel 2020 da Libreria Editrice Fiorentina, raccoglie testi provenienti da vari paesi, suggerimenti e punti di vista di sociologi, paesaggisti, geografi, urbanisti, architetti, artisti, agronomi, chimici, fisici, energetici; di tante personalità attive un po’ dovunque nel pianeta.

La pandemia dovuta al Covid-19 darà luogo a un nuovo “cambiamento di fase”. Indubbio, benché non sia chiaro come si manifesterà e con quali effetti nelle varie regioni del mondo. È comunque evidente che i maggiori focolai hanno trovato spazio in territori particolarmente inquinati e che, all’interno di queste stesse aree, non si sono diffusi in maniera omogenea. Ad esempio, a Milano l’area centrale della città ha fatto registrare densità di casi significativamente inferiore rispetto alle sue cosiddette aree periferiche. Da qui le prese di posizione di varie archistar, ingenuamente tese a riscoprire e proporre come risolutivi principi di decentramento, ruolo e potenzialità dei centri minori: cosa non nuova, apparsa già chiara, in realtà, sin dagli albori della “rivoluzione informatica”, la quale, nelle aree ad alta densità abitativa, caratterizzate da intense reti di centri a modeste distanze fra loro, aveva già posto le premesse (ma solo quelle) per una relativa indifferenza territoriale e per il recupero dei centri minori.

Sorprende che solo oggi si scopra la positività di borghi e centri minori. Da decenni è chiaro che la rivoluzione informatica genera conseguenze opposte a quelle della rivoluzione dovuta all’automobile. Quest’ultima ha dovunque favorito disgregazioni, dispersioni, isolamenti, autonomie; mentre la rivoluzione informatica ha invece conseguenze diverse nei differenti contesti: in molti casi ha favorito isolamenti e dispersione, ma nella “terra di città” supporta la riscoperta dei centri minori, dove aggregazioni e rapporti sociali sono decisamente più intensi che in megalopoli o metropoli. Per rendere efficiente questa eccezionale densa rete multicentrica occorrerebbero però idonei servizi per tutti, elevate qualità di interconnessioni e agili, economici e rapidi rapporti con i centri maggiori. 

In Triumph of the City: How Our Greatest Invention Makes Us Richer, Smarter, Greener, Healthier and Happier, del 2012, dal suo punto di vista quello di un economista Edward Glaeser sostiene che la principale invenzione dell’umanità è la città, indipendentemente dalle sue qualità spaziali. Glaeser guarda la città come fenomeno. La cultura mediterranea ed europea esprime però un’idea di città molto diversa da quelle di altre regioni del mondo, e il libro di Edward T. Hall, La dimensione nascosta, uscito in inglese nel 1966 (pubblicato in Italia da Bombiani nel 1982), avverte che «l’esperienza è percepita attraverso filtri sensoriali disposti secondo condizionamenti culturali: è diversa da quella di chi vive in ambienti culturali differenti». Due anni dopo questa introduzione alla prossemica, in Europa prese forza Le droit à la ville di Henri Lefebvre (1968): «forma superiore dei diritti, come il diritto alla libertà, all’individualizzazione nella socializzazione, all’habitat e all’abitare. […] Nostro principale compito politico è immaginare e ricostituire un modello di città completamente diverso dall’orribile mostro che il capitale globale e urbano produce incessantemente». Nella condizione contemporanea l’urbano non è “città”, ma un patologico insieme di monadi che esaltano separazioni funzionali, banalità e assenze di identità. Densità di relazioni, commistioni e intrecci sono l’essenza di città che aggregano, che riducono spostamenti non a piedi, che consentono confronti e alternative senza estenuare chi preferisce evitare un particolare giornalaio o barbiere.

L’attuale pandemia porterà profonde mutazioni nei processi di rigenerazione degli ambienti di vita. A volte le trasformazioni immateriali prevarranno su quelle fisiche. Nei nostri contesti, Civilizzare l’urbano punta a un futuro diverso, anche rintracciando reti di centralità non omogenee, di varia scala e in agevole rapporto fra loro. Ognuna di queste centralità può essere parte della “città dei 5 minuti”, altro concetto con radici lontane: Five Minutes City. Architecture and [Im]mobility, di Winy Maas (2002), tesa ad espellere le auto dalla città, magari avvalendosi di sistemi di “accelerazione pedonale”. Ai primi di febbraio del 2020 – non si sospettava nemmeno che Covid-19 potesse invadere l’Europa – a breve distanza l’una dall’altra, la notizia che il Sindaco promette di trasformare Parigi in “città dei 15 minuti” e quella che Nordhavnen (Copenhagen) realizza la città sostenibile del futuro, basata (come il Piano urbanistico di Caserta, del 2007, non ancora attuato) sul principio della “città dei 5 minuti” e “navette ecologiche” a idrogeno verde. Quindi reti di spazi pubblici e di “luoghi di condensazione sociale” le cui identità si rafforzano attraverso continui adeguamenti e stratificazioni.

Architettura è politica: rigenerare gli attuali ambienti della vita impone visione visionaria, nuove mentalità, impegno da “riarmo morale”, immense risorse. Lo potranno fare solo comunità convinte che la qualità dei loro ambienti incida positivamente sui vari aspetti della vita: benessere, sicurezza, economia, salute, socialità, felicità. Ciò può essere vero se, agendo a scala locale, rigenerare è simultanea premessa a equità sociale e, pur se micro, anche contributo all’immensa questione ambientale. Non si può più ignorare, infatti, l’intima relazione tra pandemie e qualcosa di quanto fin qui sembrava progresso e modernità.

Il “cambiamento di fase” dovuto al Covid-19 non si risolve con slogan e formule banali: prenderà avvio da mutazioni dei modi di pensare, dall’abbandono di riferimenti obsoleti, da una rigenerazione mentale che si diffonde creando nuove sensibilità. Alla fine degli anni ’50 del secolo scorso, l’affrancarsi dai principi della Carta di Atene dette spazio ad azioni diverse, accomunate da un comune sentire sui temi delle trasformazioni degli ambienti di vita. Appartengono a quella temperie l’Architecture Mobile di Yona Friedman, il movimento Metabolism in Giappone, le origini del Team X, la cui spinta non sembra ancora esaurita. Quindici anni dopo, le tesi del Club di Roma e la grande crisi energetica del ’73 hanno dato spazio a una forte riconsiderazione delle tematiche ambientali ed ecologiche: guarda caso, proprio quando si conclude l’era nella quale le risorse del pianeta erano ancora sufficienti per i suoi abitanti. Allora l’Overshoot Day non intaccava ancora il mese di dicembre. Poi, per cinquant’anni, ha continuato ad avvicinarsi: nel 2019 era arrivato al 29 luglio. Nel 2020 per la prima volta arretra. Grazie a Covid-19, con un poderoso e confortante salto indietro torna addirittura dov’era quindici anni prima. Nel 2021 siamo però di nuovo ai valori del 2019, e peraltro l’Overshoot Day cadrebbe addirittura a metà maggio se l’intera popolazione mondiale avesse stili di vita analoghi ai nostri.

Ancora due secoli fa gli ambienti di vita apparivano come «quasi una seconda natura, la quale corrisponde agli usi civili», espressione famosa di Wolfgang Goethe, del 1816, a proposito dell’architettura antica italiana, che quasi anticipa quella di fine ’800, di Oscar Wilde: «Se la natura fosse stata confortevole, l’umanità non avrebbe mai inventato l’architettura». La triade vitruviana per molti secoli ha veicolato principi del costruire adatti a una società che si andava evolvendo con qualche discontinuità, ma con sostanziale continuità, almeno fino all’avvio della rivoluzione industriale. Da allora, progressivamente i sedimenti delle attività umane hanno assunto sempre maggiore rilevanza; vi è riduzione delle biodiversità con progressiva omogeneizzazione di molti fattori; si registra un’inedita e irruente accelerazione demografica: rispetto ad allora la popolazione mondiale è quasi decuplicata. A questo periodo, ormai identificato come “antropocene”, ampio, ma brevissimo a scala geologica, caratterizzato peraltro da crescenti disattenzioni, è imputabile il forte degrado ambientale e il diffondersi dell’attuale pandemia, che il mondo della scienza non vede come fenomeno isolato, ma considera replicabile. Emerge quindi l’esigenza di un “cambiamento di fase” e di mutazioni mentali che spingano verso un agire sostanzialmente diverso, in vista di un assetto sociale più giusto, più equo, più ecologico.

Per quanto riguarda le trasformazioni del territorio e degli ambienti di vita, questione sostanziale è abbandonare l’era della separazione in vista di quella dell’integrazione. Buckminster Fuller riteneva impossibile cambiare le cose combattendo la realtà esistente, suggeriva quindi di renderla obsoleta tramite l’introduzione di nuovi modelli.

La tensione per una mutazione sempre più essenziale informa il numero-manifesto Fragments / Symbiose, 0/2006, da cui ha preso le mosse l’attuale fase de Le Carré Bleu

Per secoli l’autonomia dei singoli interventi è stata supportata dalla triade “Utilitas / Firmitas / Venustas”. Oggi ogni aspetto e ogni componente di qualsiasi costruzione è regolato da pleonastici e farraginosi apparati normativi, retaggio dell’approccio funzionalista. La logica della separazione è quella per la quale a volte gli impianti tecnologici hanno quasi solo ruolo di correzione degli errori di progetto, mentre le strutture sembrano ridursi a dover tenere in piedi gli edifici. Anche le norme urbanistiche per lo più si limitano a prescrivere indici edificatori nelle varie zone di territorio con scarsa attenzione alle molteplici relazioni fra i singoli interventi. 

Sono convinto dell’opposto. Quale ne sia la scala – un quartiere o un insieme dell’edificato o anche una singola costruzione – è sostanziale considerare ogni intervento come parte di un tutto, mai più nella sua autonomia. Qualsiasi intervento non è che frammento dell’Ambiente (emergenza e questione planetaria), del Paesaggio (non importa se naturale o artificiale: identifica la cultura della comunità che lo abita), e dello specifico intorno in cui va a immergersi (che, specie nelle nostre realtà, è un susseguirsi di stratificazioni fisiche e l’intrecciarsi di memorie collettive o individuali).

“Ambiente / Paesaggio / Memoria” è una triade sostanzialmente diversa dalla precedente: affranca i singoli interventi da ogni malintesa autonomia, esprime il prevalere di relazioni e logiche di immersione rispetto alle regole interne. Ha ruolo sostanziale nei tre momenti basilari di ogni trasformazione: quello della programmazione (la delicatissima formazione della domanda, spesso sottovalutata), quello della concezione (nella quale è essenziale distinguere “l’armatura della forma” dagli specifici linguaggi espressivi), quello nel quale la proposta di progetto viene valutata (quando si giudica un concorso; quando il progetto viene autorizzato; quando infine viene validato).

In altre parole dare priorità alle relazioni significa far sì che non prevalgano più ottiche di settore; significa opporsi sia alle banalità proprie dei “semplificatori terribili” sia a interventi autoreferenziali, espressioni dell’egoismo dei committenti e/o del narcisismo dei progettisti. Dare priorità alle relazioni tende anche a evitare strumenti urbanistici le cui norme privilegino interventi isolati, favoriscano consumo di suolo, si esprimano attraverso indici volumetrici e non di superficie utile, puntino a densità e relazioni sociali. Un nuovo modello virtuoso impone che le scelte basilari di un intervento, pur lasciando ampio spazio ai singoli linguaggi espressivi, derivino da processi partecipativi: il “progettista reale” ormai non può che essere un essere diffuso.

Tutto questo sintetizza i principi di una svolta, di una mutazione in grado di produrre benefici sostanziali se tradotta in prassi. Sarà un processo lungo: presuppone azioni su formazione, norme prestazionali, criteri decisionali e così via.

L’attuale pandemia produrrà un nuovo “cambiamento di fase”. Occorre scrutarne i segnali, anche se deboli e senza ben distinguere quello che sarà da quello auspicato.

La città del futuro deve tornare a privilegiare il non-costruito, spazi di relazione, spazi pubblici disponibili per tutti, che interpretino morfologia e condizioni naturali; spazi che utilizzino strategicamente il mondo vegetale, intrecciandone la vita con quella degli abitanti, riportando l’attività agricola in ambito urbano, non solo a scala maggiore, ma anche tramite orti urbani e sistematica copertura a verde del costruito. Nella contemporaneità e nel futuro va garantito a ogni cittadino di poter raggiungere agilmente almeno un punto della rete di “luoghi di condensazione sociale” utilmente supportati da scuole di nuova concezione. Ambizioni perenni: per Aristotele – lo ricorda Bertrand Russell in La saggezza dell’Occidente, pubblicato in Italia da Longanesi nel 1959 – la città ideale è quella che si può osservare con lo sguardo dall’alto di un colle; mentre per gli archeologi (Ruth Whitehouse, The First Cities, 1977) le città sono nate quando lo spazio fra gli edifici ha assunto significato o, meglio, quando questo significato ha cominciato a prevalere su quello dei singoli edifici che lo contornano.

Lo spazio pubblico è l’essenza della città mediterranea ed europea: oggi, oltre a essere invaso da automobili in sosta, non di rado è ancora disegnato assumendo come finalità primaria quella della circolazione. Sembra ignorato il messaggio della Berlino dell’Internationale Bauaustellung che fra i suoi obiettivi aveva anche quello di cancellare questi segni e ridefinire lo spazio pubblico privilegiando altri fattori. Certo oggi la “città dei cinque minuti” non è più un semplice slogan, ma si avvia a concretizzarsi anche in grandi realtà urbane.

Quindi accanto al tema dello spazio pubblico, con la sua capacità di favorire identità e luoghi di condensazione sociale, c’è necessità di sperimentare nuovi requisiti per il costruito, i quali peraltro, sotto il profilo strettamente economico, determinano significativi valori aggiunti. Anche per gli alloggi – oltre l’80% del costruito globale – sono da auspicare spazi privi di vincoli nell’organizzazione interna, altamente modificabili magari pure nelle facciate o nella posizione delle ormai indispensabili logge. Magari rendendo possibile accogliere l’automobile al piano, anche se non con le ipotesi avveniristiche lanciate da Edward Grinberg negli anni ’80-’90.

Un “cambiamento di fase” riguarderà l’idea stessa di periferia, sinonimo d’altro, non questione geometrica. Cos’è una periferia se non qualcosa pensata come parte separata, spesso caratterizzata da recinti monofunzionali e assenza di monumentalità, a volte dotata di attrezzature e servizi sovrabbondanti rispetto ad altre parti della città, priva però di quelli rari a scala urbana o metropolitana, comunque un’area che alla fine, nella totalità e nei componenti, si presenta come sommatoria di monadi prive di relazioni tra loro e con il sistema nel suo insieme? La questione attuale è rigenerare le periferie assicurando densità tali da garantire intensità di rapporti sociali, compresenza ed acuta commistione di attività diverse, diversità espressiva del costruito, spazio a stratificazioni, plurime identità delle parti e dando caratteri ai luoghi, al non-costruito, evitando lo stanco affiancarsi di unità edilizie e tipologie omogenee.

Non ha senso quindi sostenere che le periferie sono “da rammendare”: slogan tranquillizzante, ma improprio. Le periferie sono disagi da superare, hanno necessità di trasformazioni profonde, cioè di uno specifico “cambiamento di fase”, capace di ricondurle a nuove centralità o a integrarle nel sistema urbano e metropolitano. In questo clima non è più possibile considerare le periferie come realtà stabili. Le periferie negano il “diritto alla città”, sono una patologia del territorio: ne vanno rimosse le cause, poi, estirpando quanto inguaribile, si potrà avviare la cura più adatta ai singoli casi. Le periferie sono un prodotto della “cultura della separazione”, così come lo sono gli isolati a scala dell’edificio, così come lo è qualsiasi trasformazione del territorio che punta a risposte dirette a problemi complessi, al di fuori di valutazioni d’insieme e di una visione sistemica.

Il nuovo “cambiamento di fase” impone la profonda mutazione del modo di approcciarsi al tema della formazione o trasformazione degli ambienti di vita. Deve scardinare convinzioni stantie e inattuali, come ad esempio quella per la quale c’è distinzione fra architettura e edilizia, pericolosa perché porta a giustificare interessi differenziati. Qualsiasi trasformazione fisica dello spazio incide sulla sua qualità, e non ha senso – soprattutto ha scarso interesse – compiacersi dei valori espressivi di un edificio, se questi valori non incidono sulle relazioni che quel singolo intervento stabilisce con i suoi intorni. Un sostanziale “cambiamento di fase” si avrà quindi quando, abbandonate le patologie del costruire contemporaneo, gli ambienti di vita non verranno più trasformati aggiungendo edifici e oggetti, ma avvalendosi soprattutto di relazioni immateriali prima che materiali. Per gli storici del futuro potremmo anche essere noi quelli che dettero avvio a una svolta epocale: mutando mentalità, abbandonando le ottiche settoriali, diffondendo la visione sistemica. Per trasformare quanto esiste e quanto si continua impropriamente a generare non sono sufficienti agopunture. Attraverso frammenti gli archeologi cercano di comprendere il senso di quanto esisteva; i progettisti del futuro (anche quelli del presente) hanno invece il quasi impossibile compito di dare senso a insiemi che non l’hanno mai avuto.

Revisione della traduzione in italiano di Phase Transitions (1. During the second half of the twentieth century; 2. Visions of the Future), pubblicato in The Bulletin of the European Association of Professors Emeriti, 2020, n. 5, pp. 86-88, e 2020, n. 6, pp. 103-105).

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