SOCIETÀ

La globalizzazione alla prova del virus

Con il coronavirus la prima epidemia del capitalismo Just In Time è arrivata e, malgrado il numero di morti finora contenuto in confronto alle grandi epidemie della storia (20 milioni la peste nera del 1347, 100 milioni l’influenza spagnola nel 1918-20) lascerà un segno profondissimo. La medicina probabilmente limiterà il numero dei morti (il virus sembra molto contagioso ma poco letale), il problema è che l’economia mondiale prenderà la bronchite, forse la polmonite. Il Fondo Monetario Internazionale ha definito il virus Sars-Cov2 “Un’emergenza sanitaria globale che ha danneggiato l’attività economica in Cina e potrebbe mettere a rischio la ripresa economica mondiale” e ha già annunciato che la crescita quest’anno probabilmente sarà zero. Ne parlano il professor Marco Bettiol, del dipartimento di Economia e il professor Fabrizio Tonello, del dipartimento di Scienze politiche.

Marco Bettiol ha sottolineato come negli ultimi 30 anni la Cina sia stata “la fabbrica del mondo” e quanto sia difficile assicurare il buon funzionamento di “catene di fornitura estremamente complesse e delicate. “Se in una fabbrica di automobili i pezzi che dovevano arrivare ieri sera non sono arrivati significa che l’intera auto non può uscire dalla fabbrica”. In realtà tutto ciò tocchiamo ogni giorno nella nostra vita quotidiana in misura maggiore o minore viene dall’estero. Non solo i telefonini ma anche le automobili con cui ci spostiamo, i computer con cui lavoriamo, il letto in cui dormiamo, la farina del pane che mangiamo. Questa interdipendenza rende vulnerabili le economie, tuttele economie nazionali, anche quelle che non hanno ancora visto l’arrivo di un singolo caso di paziente colpito dal virus.

Il pericolo maggiore per le aziende italiane viene, da una parte, dalla possibile espulsione dalle catene di fornitura estremamente rigide ed esigenti che ora governano attraverso algoritmi la manifattura, dall’altro dall’incognita sull’impatto che l’epidemia potrà avere sui consumi interni cinesi, che per Lombardia e e Veneto valgono parecchi miliardi di euro.

Fabrizio Tonello si è concentrato sull’impatto del coronavirus negli Stati Uniti, la locomotiva dell’economia mondiale. Come ben si sa, gli Usa non dispongono di un servizio sanitario universale bensì si affidano ad assicurazioni private e oltre 40 milioni di americani che non dispongono di alcuna assicurazione sanitaria. Facile prevedere che molti cittadini andranno in ospedale solo quando i sintomi saranno di una gravità tale da rendere impossibile ogni altra scelta. A quel punto, sperando che non sia troppo tardi, comunque il paziente avrà infettato la sua famiglia, i colleghi di lavoro, gli utenti dell’autobus che avrà preso o del McDonald’s dove avrà mangiato, creando decine, o più probabilmente centinaia, di nuovi casi. 

La sanità in mani private è l’ambiente ideale per la propagazione del virus: mercoledì il Center for Disease Control ha annunciato che chiunque chieda il test potrà farlo, se autorizzato da un medico, ma la capacità di effettuare i test è ancora estremamente limitata. In altre parole, mancano le strutture, mancano decisioni centralizzate e mancano i soldi: gli 8 miliardi di dollari stanziati dal Congresso non saranno certo sufficienti a evitare la propagazione dell’epidemia.

POTREBBE INTERESSARTI

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012