Se qualcuno ci chiedesse se siamo favorevoli o contrari alla precarietà del lavoro, sfido chiunque a rispondere “sono contrario”.
Se qualcuno ci chiedesse se siamo favorevoli o contrari alle sanzioni per chi, dopo aver ricevuto un contributo pubblico per investire e creare lavoro in Italia decide di spostare le attività produttive all’estero, sfido chiunque a rispondere “sono contrario”.
Come mai allora, quasi tutti gli esponenti delle categorie economiche e del sindacato delle imprese, una parte del sindacato dei lavoratori e diversi studiosi ed esperti hanno aspramente criticato il Decreto dignità?
Il nocciolo della questione, non è il cosa ma il come.
Vediamo le questioni relative al lavoro.
La tutela attraverso l’irrigidimento indifferenziato delle regole che disciplinano l’avvio, lo sviluppo e l’interruzione dei rapporti di lavoro mal si concilia con un’economia che sperimenta frequenti alti e bassi, con imprese e interi territori inseriti in filiere globali del valore obbligate a gestire gli alti e bassi che si verificano in altre parti del globo, con attività e interi settori ad elevata stagionalità.
In questa fase del ciclo economico ancora carsica (la ripresa c’è per qualche mese, poi scompare per un po’, poi improvvisamente riappare), con gli attuali livelli di disoccupazione (rigorosamente asimmetrici per Regione, livelli di inquadramento, età anagrafica, profilo di competenze) e con il numero imbarazzante di Neet che ci assegna la maglia nera in Europa (i giovani tra i 18 e 24 anni che non hanno un lavoro né sono all'interno di un percorso di studi, nel 2017 in Italia erano il 25,7% a fronte di una media europea del 14,3%), la saggia mano pubblica deve farsi carico di due attività chiave:
- creare le condizioni per agevolare l’avvio di nuovi rapporti di lavoro, anche in condizioni di incertezza;
- definire un portafoglio di servizi per supportare le persone tra una esperienza professionale e l’altra.
In altre parole, al Decreto Dignità manca tutta la parte sulle politiche attive del lavoro (dall’orientamento, al riorientamento, alla formazione ricorrente), che sono la chiave di volta per ridurre per davvero la precarietà e per passare dalla tutela del (posti di) lavoro alla tutela della persona che lavora. Non è una questione ideologica, ma pragmatica e contingente.
E se le politiche attive del lavoro proprio non potevano rientrare nel Decreto Dignità, allora sarebbe bastato incentivare le aziende che, ad esempio, trasformano un contratto a termine in un contratto a tempo indeterminato, invece di penalizzare chi non vuole o non può farlo per la troppa incertezza dei mercati o per altre (aziendalmente legittime) ragioni.
L’impatto sarebbe stato il medesimo, ma avrebbe avuto molti altri significati.
Premiare o incentivare i comportamenti virtuosi (usare in modo appropriato il contratto a termine o le altre forme contrattuali a tutele crescenti), in alternativa o insieme a sanzionare quelli scorretti, avrebbe fatto intendere che erano ben chiare le criticità che un numero crescente di imprese e di esperti di risorse umane incontrano ogni giorno, e che riguardano la stabilizzazione delle persone con le competenze adeguate (che a volte le stesse imprese hanno contribuito a formare, anche a proprie spese).
Infine, non si può non dire qualcosa sull’uso del bellissimo termine Dignità per qualificare la proposta che arriverà alle Camere.
Il lavoro dignitoso non è propriamente un concetto astratto e ideologico, ma l’obiettivo di un percorso concreto per garantire alle persone una vita buona, in linea con quello che dice l’art. 23 della dichiarazione universale dei diritti umani: “Ogni individuo ha diritto al lavoro, alla libera scelta dell’impiego, a giuste e soddisfacenti condizioni di lavoro e alla protezione contro la disoccupazione. Ogni individuo, senza discriminazione, ha diritto a eguale retribuzione per eguale lavoro. Ogni individuo che lavora ha diritto a una remunerazione equa e soddisfacente che assicuri a lui stesso e alla sua famiglia una esistenza conforme alla dignità umana e integrata, se necessario, da altri mezzi di protezione sociale. Ogni individuo ha diritto di fondare dei sindacati e di aderirvi per la difesa dei propri interessi”.
Chi glielo va a dire?