La chiesa teatro dell'attentato. Foto: Reuters
Non c’è ancora un bilancio ufficiale del massacro avvenuto domenica scorsa nella chiesa cattolica di San Francesco Saverio, nella cittadina di Owo, nello stato di Ondo, sud-ovest della Nigeria: c’è chi dice 38 vittime, chi 50, chi rilancia con “almeno 80 morti”, molti dei quali bambini, comunque fedeli che lì si erano radunati per celebrare la Pentecoste. Alcuni corpi, hanno riferito i testimoni, sono stati subito portati via dai familiari per la sepoltura privata. Come non c’è alcuna rivendicazione: ed è strano, per un’azione così eclatante, così “visibile”, finita sulle prime pagine in ogni angolo del mondo. L’unica certezza è che non si è trattato di un attacco improvvisato. I quotidiani locali parlano di terroristi “travestiti da fedeli”, di esplosioni all’interno della chiesa che hanno spinto le persone ad alzarsi dai banchi e a fuggire verso l’esterno, trovandosi di fronte, sul portone d’ingresso, killer armati con fucili d’assalto AK-47 che hanno sparato a raffica, nel mucchio. Un agguato feroce e inaspettato proprio perché si è verificato in quello stato che, dei 36 che compongono la Federazione nigeriana, è tra i più tranquilli e mai toccato in passato da azioni criminali di simile gravità. E in assenza di prove si procede per indizi, per assonanze. Che portano inesorabilmente alle divisioni etniche e religiose che da anni devastano il paese più popoloso dell’Africa, pieno di risorse (è il 6° al mondo per il gas naturale) e di disuguaglianze, con oltre 200 milioni di abitanti e circa 250 etnie, in un equilibrio di convivenze più facile da spezzare che da costruire.
La linea di faglia delle religioni
Mentre il sud è a prevalenza cristiana, nelle 12 regioni del nord vige la legge della Shari'a, quell’insieme di riferimenti etici, morali e comportamentali che dovrebbe definire (salvo abusi e interpretazioni radicali) la condotta dei musulmani, il loro “percorso corretto” (qui un approfondimento del Council on Foreign Relations). Il vero problema è il fanatismo religioso, che da anni trascina con sé le più feroci violenze. L’intero nord-ovest è in mano a bande di organizzazioni terroriste jihadiste. La più nota è Boko Haram, affiliata ad al-Qaeda e allineata con l’autoproclamato Stato Islamico (ISIS), che nel corso dell’ultimo decennio si è resa protagonista di migliaia di rapimenti di massa, compreso quello delle 276 studentesse prelevate con la forza nel 2014 in una scuola secondaria a Chibok, città nel nord-est del Paese, una “pratica” che ha segnato la vita sociale di intere regioni, provocando da allora la chiusura di oltre 600 scuole e l’aumento dei matrimoni precoci. «In questi ultimi 8 anni più di 1.500 scolari nigeriani sono stati rapiti da gruppi armati e le autorità nigeriane non riescono a proteggerli», denuncia Osai Ojigho, avvocata, esperta di diritti umani e direttrice dell’ufficio in Nigeria di Amnesty International. «Rifiutandosi di rispondere agli allarmi di imminenti attacchi alle scuole nel nord del Paese, le autorità nigeriane non sono riuscite a prevenire i rapimenti di massa di migliaia di bambini in età scolare. In tutti i casi, le autorità nigeriane sono rimaste incredibilmente riluttanti a indagare su questi attacchi o a garantire che gli autori di questi crimini siano individuati e perseguiti».
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Altrettanto pericolosi, se non di più, i ribelli jihadisti dell’ISWAP (Islamic State's West Africa Province), nati come “costola” di Boko Haram, che imperversano nel nord-est del paese e nel confinante bacino del lago Ciad, portando violenza e instabilità anche oltre i confini nazionali, soprattutto in Niger. Si calcola che dieci anni di attacchi terroristi, soprattutto nel nord, abbiano provocato oltre 50mila vittime e costretto oltre 3 milioni di persone ad abbandonare le loro case. A questo si aggiungano le scorribande dei banditi della milizia islamica Fulani, un’etnia nomade, di religione islamica, dedita alla pastorizia e al commercio, che agisce soprattutto nella “Middle Belt” nigeriana, in quella zona che segna quasi un confine tra il nord musulmano e il sud cristiano. Si calcola che in quell’area, dal 2009 a oggi, siano avvenuti circa 15mila omicidi, rimasti quasi sempre impuniti. La milizia Fulani prende di mira in modo specifico i dirigenti della Chiesa, i sacerdoti, i villaggi cristiani e i simboli del cristianesimo: uccisioni, rapimenti, scorribande. Ma, soprattutto, i Fulani sono in perenne lotta contro gli Yoruba, grande gruppo etnico stanziato nel sud, principalmente agricoltori, nel quale convivono pacificamente sia cristiani, sia musulmani.
Il clima scatena conflitti
Perché in questo caso è la terra, più che la religione, l’oggetto del contendere: con i Fulani che a causa del cambiamento climatico (che provoca siccità e progressiva desertificazione) si spingono sempre più spesso verso sud in cerca di pascoli, invadendo con la forza fattorie private, trovando l’opposizione delle popolazioni e delle autorità locali. Già nel 2017 l’Onu aveva stabilito come i cambiamenti climatici siano diventati “catalizzatori dei conflitti in Africa”. Un dato su tutti: il prosciugamento del lago Ciad, che negli anni 70 era la sesta fonte d’acqua dolce del Pianeta. Oggi, a causa delle precipitazioni estremamente ridotte e dell’aumento delle temperature, dei suoi 25mila chilometri quadrati ne sono rimasti appena 1.300. Quindi il sospetto è che la strage di Owo sia in qualche modo ascrivibile ai Fulani. Secondo il segretario dell’associazione socio culturale del popolo Yoruba, Afenifere, si è trattato di una “vendetta” contro il governatore dello stato di Ondo, colpevole di aver fatto rispettare in modo troppo rigoroso le limitazioni al pascolo libero. Mentre già nel 2018 il cardinale John Olorunfemi Onaiyekan, arcivescovo di Abuja (la capitale della Nigeria) commentava con lucidità: «A causa del clima sta cambiando tutta la regione del nord della Nigeria, che si è inaridita. Dove i pastori avevano i loro pascoli non c’è più erba da mangiare e allora si spostano sempre al sud. E portando gli animali al sud incontrano i contadini che hanno i loro campi, e gli animali entrano nei campi, mangiano le piante dei contadini e così cominciano i problemi. Alle volte i contadini si arrabbiano e uccidono gli animali, i pastori tornano e uccidono i contadini. Ora il fatto è che i pastori sono per la grande maggioranza musulmana e i contadini sono per la grande maggioranza cristiani e la cosa assume l’aspetto di “cristiani che uccidono i musulmani e viceversa”. Mentre questo non ha veramente niente a che fare con la religione».
Anche se la persecuzione dei cristiani in Nigeria resta un dato di fatto incontrovertibile. Nel 2021 quasi 6mila cristiani sono stati uccisi nel mondo, vale a dire 16 al giorno. E di questi, 4650 omicidi sono avvenuti in Nigeria: 12 al giorno, in aumento del 25% rispetto al 2020. Numeri da prendere comunque per difetto, visto il gran numero di sparizioni, di rapimenti o di mancate denunce. «Per Boko Haram, ISWAP e Fulani uccidere uomini cristiani è una strategia chiave, perché distrugge i mezzi di sussistenza e spopola le comunità cristiane», denuncia la missione cristiana Open Doors. «Mentre è più complessa la violenza perpetuata dai banditi armati, con le attività di queste bande, tra cui il rapimento a scopo di riscatto, che tendono a essere puramente criminali piuttosto che motivate religiosamente». Nonostante questi dati, lo scorso novembre gli Stati Uniti hanno rimosso la Nigeria dall’elenco dei Paesi che destano particolare preoccupazione per le violazioni della libertà religiosa
Ma la violenza resta il pane quotidiano. Il mese scorso l’Isis ha diffuso un video in cui mostra l’uccisione di 20 cristiani, nello stato di Borno, nel nord-est. A fine maggio due sacerdoti sono stati rapiti a Sokoto, capitale dell’omonimo stato, nell’estremo nord, non distante dal confine con il Niger. Mentre ha suscitato orrore la notizia dell’uccisione, sempre a Sokoto, di una studentessa dello Shehu Shagari College of Education, Deborah Samuel, accusata di aver pubblicato un post offensivo contro Maometto su una chat di gruppo. E per questo lapidata e bruciata viva da alcuni suoi coetanei (e sul web sono comparsi video che documentano l’atroce morte della ragazza). Ad aprile alcuni raid condotti nel nord-est dalla forza congiunta multinazionale MNJTF (collaborazione tra le forze armate di Benin, Camerun, Chad, Niger e Nigeria nata nel ’94 per arginare gli atti di terrorismo nell’area del bacino del lago Ciad) hanno portato alla morte di 25 terroristi jihadisti dell’ISWAP nel corso dell’operazione denominata “Lake Sanity”. Gli analisti non escludono che l’attacco di domenica scorsa alla chiesa di Owo possa essere una sorta di “vendetta”, anche se mai in passato i ribelli pro-Isis si erano spinti fino al sud del paese.
Il presidente della Nigeria, Muhammadu Buhari, che il prossimo anno lascerà l’incarico dopo 8 anni di mandato, ha condannato l’attacco alla chiesa cattolica di Owo: «Questo paese non cederà mai alle persone malvagie, e le tenebre non vinceranno mai la luce. Alla fine vincerà la Nigeria». Ma sono in molti a puntare il dito contro l’incapacità dimostrata dallo stato centrale nel risolvere la questione della violenza, dell’impunità, delle disuguaglianze, del rispetto dei diritti. Come Stephen Rasche, ricercatore senior per la politica internazionale sulla libertà religiosa presso il Religious Freedom Institute: «Non è una questione di governo che non fa abbastanza, è più una questione di governo che non fa nulla», accusa Rasche. «Prove crescenti indicano che i membri della polizia e dell’esercito non solo sono inefficaci, ma anche complici. Tutto ciò deriva da un crollo della leadership e del controllo del paese che ha provocato caos in tutto il nord e nelle regioni centrali, e ora anche nel sud. Le principali autostrade sono regolarmente bloccate e perquisite da grandi gruppi di banditi in motocicletta. Le ferrovie e persino gli aeroporti sono attaccati da questi stessi gruppi. Il governo sta creando da anni una cultura dell'impunità». E la situazione potrà soltanto peggiorare nei prossimi mesi, quando la stagione agricola sarà nel pieno. Con oltre 100 milioni di nigeriani, circa la metà della popolazione, che già oggi vive sotto la soglia della povertà.