SCIENZA E RICERCA

Covid-19: alcune regioni del genoma sono coinvolte nella suscettibilità e nel decorso della malattia

L’estrema variabilità della risposta individuale al virus SARS-CoV-2 ha rappresentato sin da subito uno dei grandi interrogativi collegati alla pandemia. Fin dall’inizio, infatti, sono stati identificati fattori di rischio significativi - come l’avanzare dell’età, la presenza di comorbidità o un grave eccesso ponderale - ma ci si è anche accorti che il decorso dell’infezione poteva talvolta volgere verso un quadro clinico severo anche nel caso di persone giovani e senza particolari problemi di salute.

E, più in generale, l’esperienza di chi rimane asintomatico e scopre di essere entrato a contatto con il virus solo dopo l’esecuzione di un test sierologico o di un tampone realizzato in occasione di uno screening è certamente molto diversa da quella a cui va incontro chi deve affrontare un lungo ricovero in ospedale perché il patogeno ha compromesso il funzionamento degli organi più importanti. Capire quali meccanismi sono alla base di una forma grave di Covid-19 è quindi molto importante anche perché potrebbe permettere di giocare d'anticipo davanti all'evoluzione dell'infezione, con terapie più mirate in grado di "correggere" i punti deboli della nostra risposta al virus o i motivi che rendono l'organismo più vulnerabile.

Accanto agli studi sulla genetica del virus, che sono strategici per capire come cambia il patogeno nel corso del tempo passando da una persona all'altra e quali caratteristiche oggi lo portano ad essere in parte differente rispetto alla prima sequenza analizzata, è dunque fondamentale studiare anche la genetica umana, andando così alla ricerca dei fattori che possono avere un impatto sia sulla maggiore o minore suscettibilità al contagio, sia sul decorso clinico dell'infezione.  

Con questo obiettivo nel marzo del 2020 è nata la Covid-19 Host Genomics Initiative, una rete internazionale di circa 3.500 ricercatori di 25 Paesi, a cui ha contribuito anche l'Italia con la partecipazione di numerosi enti, come l'università di Siena, l’Irccs Humanitas e il Politecnico di Milano. Il progetto, partito da un'idea di Andrea Ganna e del collega Mark Daly, entrambi al lavoro all'università di Helsinki e al Broad Institute di Cambridge, in Massachusetts, si è esteso fino a diventare una delle più ampie collaborazioni nell'ambito della genetica umana e nei giorni scorsi il riepilogo dei loro studi (in totale sono oltre 40) è arrivato sulle pagine della rivista Nature, dopo che era stato pubblicato in preprint a marzo su medRxiv. Si tratta di una ricerca basata sui dati di quasi 50.000 persone positive al virus e su quelli di circa 2 milioni di soggetti sani di controllo: una mole di informazioni (in continua estensione) che rendono questo lavoro il più grande studio di associazione a livello genomico che sia mai stato eseguito per Covid-19. 

Come spiega Francesco Suman sulle pagine del nostro giornale gli studi di associazione sull’intero genoma (Genome-wide association studies – GWAS) mettono a confronto genomi di individui accomunati da caratteristiche simili con quelli di individui che non presentano quelle caratteristiche. Identificano quindi quali lettere del DNA variano tra i due gruppi (polimorfismi a singolo nucleotide – SNP) e quali varianti (pacchetti di SNP) sono più comuni tra gli individui portatori del tratto sotto esame. Dal momento della loro introduzione, successiva alla prima mappatura del genoma umano avvenuta nel 2001, la principale applicazione dei GWAS è stata proprio quella di cercare di comprendere le basi genetiche delle malattie, attribuendo anche specifici punteggi di rischio a seconda della presenza o meno di determinati tratti genetici.

Questa frontiera di indagine è stata applicata anche per SARS-CoV-2. La finalità dei ricercatori della rete Covid-19 HGI è infatti quella di capire quali regioni del genoma umano esercitare un ruolo sulla probabilità di contrarre l’infezione (su questo punto anche lo studio di Vo' aveva osservato come ci fossero persone che non risultavano positive al virus nonostante condividessero la stessa abitazione con un soggetto contagiato) e su quella di sviluppare complicanze gravi. 

Dal lavoro di questo team internazionale è emersa l'esistenza di una dozzina di varianti genetiche che hanno una forte associazione statistica con le possibilità di una persona di risultare contagiato e di ammalarsi gravemente della malattia. In particolare, quattro regioni del DNA sembrano aumentare la probabilità di contrarre l'infezione, mentre altre nove sembrano favorire lo sviluppo di un quadro clinico grave in caso di contagio da SARS-CoV-2.

Va precisato che le associazioni genetiche che sono state riscontrate comportano un aumento di rischio relativamente contenuto, sebbene in alcuni casi (in particolare, come vedremo meglio in seguito, alcune varianti sul cromosoma 3) l'impatto può essere maggiore e diventare paragonabile a quello dei fattori di rischio conosciuti (come obesità, diabete e altre condizioni di salute sottostanti). Inoltre, come spesso accade negli studi di associazione sull'intero genoma, molte variazioni osservate nel DNA sono comuni e per questo motivo alcuni ricercatori ritengono maggiormente fruttuoso l'approccio che mira all'individuazione di mutazioni più rare, come quelle che hanno a che fare con la produzione e con il funzionamento di tutta la catena legata agli interferoni. Tuttavia proprio il fatto che alcune varianti siano piuttosto diffuse induce a spostare l'attenzione dal piano individuale per ragionare maggiormente in termini di popolazione, un aspetto che non è certo irrilevante davanti a una pandemia e nei confronti di un virus che nelle mutazioni che lo hanno contraddistinto finora ha sempre guadagnato in contagiosità. 

Ogni nuova scoperta genetica può permetterci di fare un passo avanti verso una migliore comprensione dei meccanismi biologici della malattia causata dal nuovo coronavirus e l'estensione a livello globale dello studio condotto da Covid-19 HGI ha permesso anche di individuare fattori di rischio genetici che sono specifici di diverse popolazioni, superando quindi quel limite che spesso porta le ricerche ad essere sbilanciate su persone con origini europee. E le ricerche stanno ancora andando avanti per includere un numero sempre maggiore di pazienti ed etnie. Un elemento che ha già consentito di identificare varianti genetiche specifiche di diverse popolazioni.

"E’ iniziato tutto con un tweet", spiega a Il Bo Live il professor Andrea Ganna, ricercatore all’Istituto di medicina molecolare della Finlandia e cofondatore del progetto. "Ho mandato semplicemente un messaggio alla comunità scientifica per cercare partners che fossero interessati a studiare aspetti della genetica umana per cercare di capire il possibile impatto su Covid-19.  A quel tempo, nel marzo 2020, il virus stava appena arrivando in Europa e la maggior parte degli studi era sulla genetica del virus, non su quella umana. Però era già chiaro che gli effetti del patogeno sull’organismo potevano essere molto diversificati e naturalmente, come in tutti i tratti umani, c’è un aspetto genetico che ha un ruolo in questi processi. Abbiamo iniziato con questo tweet e poi abbiamo avuto molto supporto dall’International Common Disease Alliance che è un’associazione internazionale di ricerca che include molti partners e quindi partendo da un piccolo gruppo di studi siamo riusciti a crescere fino a realizzarne oltre 40. Questo è stato possibile principalmente grazie alla scelta di fare open science, abbiamo mantenuto molto aperto il nostro consorzio: tutti potevano partecipare e tutte le nostre conversazioni e i nostri meeting erano pubblici sul sito e tutti potevano vederli".

Un'apertura che ha caratterizzato anche le scelte sulla diffusione dei dati. "Abbiamo voluto subito rendere disponibili tutte le informazioni raccolte, ancora prima della pubblicazione, per consentire alla comunità scientifica di accedervi il più rapidamente possibile e con diversi aggiornamenti man mano che i dati aumentavano", sottolinea Ganna.

L'intervista completa al professor Andrea Ganna, ricercatore all’Istituto di medicina molecolare della Finlandia e cofondatore del progetto Covid-19 Host Genomics Initiative. Servizio e montaggio di Barbara Paknazar

I risultati dello studio di associazione sul genoma: 13 regioni coinvolte

"In questi studi di associazione genetica le regioni sono distribuite in maniera uniforme sul genoma umano attraverso diversi cromosomi e abbiamo identificato 4 regioni che sono associate alla suscettibilità, cioè un maggiore rischio di risultare positivo se si è stati esposti al virus, e altre 9 che sono associate alla severità della malattia, nel caso in cui si dovesse risultare contagiati. Queste regioni sono molto indipendenti l’una dall’altra e il fatto che esista una componente genetica legata alla suscettibilità e un’altra legata alla progressione della malattia è un aspetto piuttosto interessante. Si tratta di qualcosa che nell’ambito delle malattie infettive non era noto, anche perché sono state tradizionalmente poco esplorate dagli studi di genetica umana", spiega il professor Andrea Ganna.

Una volta identificate le regioni del genoma che possono influire sulla probabilità di contrarre l’infezione e di sviluppare complicanze gravi è importante comprendere anche quali sono i geni coinvolti e da questo punto di vista le risposte non sono ancora definitive. "In queste regioni - approfondisce Ganna - non sappiamo esattamente quale sia il gene causale che potrebbe spiegare queste associazioni con Covid-19 ma per alcune di queste riteniamo di conoscere con buona probabilità quale è il meccanismo biologico che è alla base perché i segnali erano abbastanza chiari e colgono diversi aspetti sia della risposta immunitaria sia della biologia polmonare. Il principale, del quale però non sappiamo quale sia il gene causale, è sul cromosoma 3 e per essere una variante comune è un segnale abbastanza rilevante in quanto aumenta del 70% il rischio di essere ospedalizzati in caso di positività a SARS-CoV-2 e del 40% il rischio di decesso una volta che si è ospedalizzati". 

"Gli altri segnali interessanti hanno a che fare con i meccanismi legati agli interferoni, in particolare Ifnar 2 che è uno dei geni principali in questo ambito, ma anche Oas (oligoadenylate synthase)". Per quanto riguarda questa famiglia di geni antivirali sembra che una variante che porta a un minor livello dell’enzima Oas1 nel polmone faccia aumentare il rischio di infezione, ospedalizzazione e sintomi gravi. E per questo motivo si stanno studiando farmaci che possano aumentare i livelli di Oas1, sfruttando quello che Brent Richards, genetista ed endocrinologo della McGill University che fa parte dell'HGI, ha definito un "tallone d'achille del patogeno visto che, diversamente da altri coronavirus, SARS-CoV-2 non sembra capace di aggirare questo meccanismo di protezione.

"E poi - continua Andrea Ganna - c’è un altro gruppo di geni come Foxp4, che sembrano più legati con qualcosa che ha a che fare con la biologia polmonare: non conosciamo esattamente il meccanismo biologico ma le stesse varianti genetiche sono associate alla fibrosi e al cancro del polmone".

Come detto in precedenza l'associazione più forte tra qualsiasi variante genetica e la probabilità di sviluppare Covid-19 in forma grave si trova in una regione poco studiata del cromosoma 3. Nelle altri regioni del genoma individuate da questo studio il rischio aumenta in misura minore, tra il 20 e il 30%. "L’aspetto importante - osserva il ricercatore dell'Istituto di medicina molecolare della Finlandia - è che queste sono varianti comuni e quindi anche se a livello del singolo individuo l’aumento del rischio non è estremamente elevato se si ragiona in termini di popolazione spiegano la possibilità di sviluppare forme gravi di Covid-19, più di quanto non possano fare le varianti rare che hanno effetti molto più accentuati ma sono molto meno diffuse".

Varianti comuni o mutazioni rare: due approcci differenti che possono essere complementari

L'approccio basato sugli studi di associazione genomica permette di scandagliare l'intero genoma umano senza partire da un'ipotesi di partenza. Una problematica che però è emersa più volte nei dibattiti intorno a questa metodologia è che solitamente individua geni abbastanza diffusi tra la popolazione ma che hanno una capacità predittiva limitata perché solo poche varianti sono associate ad un rischio elevato, mentre nella maggioranza dei casi aumentano di poco la probabilità di sviluppare una data malattia. Per questo motivo anche nel caso di SARS-CoV-2 alcuni esperti - tra cui Jean-Laurent Casanova, genetista della Rockefeller University che è alla guida del Covid Human Genetic Effort, un altro consorzio che studia il rapporto tra genetica e Covid-19 - ritengono più fruttuoso un approccio che mira a individuare mutazioni rare e associate a un rischio superiore

 


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"Il vantaggio delle varianti rare è che sono varianti nel gene - commenta al riguardo Andrea Ganna - e quindi è molto più semplice capire qual è il gene causale e qual è il meccanismo biologico. Però il grosso problema con le varianti rare è che per scoprirle con gli stessi metodi di associazione che usiamo per quelle comuni c’è bisogno di ancora più individui, proprio perché sono rare e quindi per arrivare a una certa confidenza statistica in quello che osserviamo abbiamo bisogno di molti più soggetti che partecipino agli studi. Gli studi che hanno portato ad identificare le mutazioni rare che sono state individuate fino a questo momento hanno un metodo diverso: hanno identificato alcuni geni e hanno guardato solo in quelli invece di guardare attraverso l’intero genoma umano. La limitazione di questi approcci è che la confidenza statistica è bassa e quindi alcuni colgono nel segno mentre altri no".

Varietà di popolazioni

L’estensione a livello globale dello studio ha permesso inoltre di individuare fattori di rischio genetici che sono specifici delle diverse popolazioni, come quelle di origine asiatica, superando quindi il limite, spesso presente in molti studi scientifici, di un eccessivo sbilanciamento verso soggetti europei. "Questa per noi è stata una priorità sin dall’inizio - spiega il cofondatore di Covid-19 Host Genomics Initiative - e lo riteniamo molto importante. Gli studi di genetica umana hanno un grosso problema perché sono sempre stati focalizzati su popolazioni europee e abbiamo anche la necessità morale di espandere le ricerche perché quando vogliamo sviluppare strumenti genetici, ad esempio per gli screening, dobbiamo riuscire a generalizzarli anche al di fuori delle popolazioni europee. Ma in questo allargamento c’è sicuramente un vantaggio anche dal punto di vista di scoperte a cui è possibile arrivare: prima ho fatto riferimento a Foxp4 e si tratta di un gene la cui frequenza è meno dell’1% tra gli europei ma sale al 12-13% tra le persone di origine est asiatica e proprio il fatto di avere incluso negli studi individui est asiatici ci ha permesso di identificare questo gene".

Ampliare la ricerca in modo che sia maggiormente rappresentativa di tutte le popolazioni umane sta portando a risultati interessanti anche per quanto riguarda i meccanismi collegati al famoso recettore Ace2 che, come noto, è una delle porte usate dal virus per entrare nelle cellule. "Abbiamo osservato una specifica mutazione che è molto più comune tra soggetti di origine est asiatica e quindi siamo riusciti a identificare questo risultato. Questo aggiornamento fa parte di un rilascio dei dati che abbiamo effettuato a giugno e per questo motivo non ha fatto in tempo a rientrare nel paper pubblicato su Nature". 

Le possibili ricadute di queste scoperte sullo sviluppo di farmaci specifici

Nella battaglia contro Covid-19 il rapido sviluppo di diversi vaccini ha rappresentato un punto di svolta, soprattutto perché si stanno dimostrando efficaci nel contrastare le forme gravi di malattia. Il percorso verso farmaci specifici con cui trattare i pazienti malati fino a questo momento si è invece rivelato più complesso. Quale aiuto può arrivare su questo versante dagli studi che indagano i fattori genetici in relazione al decorso dell'infezione? "Per Covid-19 - afferma il professor Ganna - ci sono sicuramente altri metodi di biologia molecolare che possono essere più utili per identificare farmaci specifici. Però la genetica umana è uno strumento fondamentale perché le conoscenze che si ottengono tramite questi studi permettono di rilevare nuove informazioni che magari non hanno un effetto immediato ma sul lungo termine rivelano nuovi aspetti interessanti. Uno dei grandi vantaggi di questo approccio è quello di usare l’essere umano come modello guardando alla variazione genetica che c'è nella popolazione e poi anche il fatto di non partire da target biologici predefiniti ma di lasciare parlare i dati. Per esempio il segnale che abbiamo individuato sul cromosoma 3 è completamente inaspettato e non è associato con nient’altro che non sia collegato a Covid-19. Quindi è un segnale specifico e stiamo cercando di capirlo. Alcuni dei nostri risultati insieme a molti altri da diversi campi della biologia e della medicina possono essere usati chiaramente nel fare drug repurposing e drug discovery, cioè usare queste combinazioni di informazioni per decidere come fare sviluppo di medicinali. Non penso però che la genetica umana da sola sia la chiave per fare sviluppo di farmaci".

I prossimi passi della rete Covid-19 Host Genomics Initiative

Il lavoro dei ricercatori del consorzio Covid-19 Host Genomics Initiative prosegue. Il numero di pazienti positivi a SARS-CoV-2 sui quali è stato realizzato lo studio di associazione genomica sono diventati ormai 125 mila e i ricercatori hanno pubblicato un nuovo aggiornamento dei dati che deve essere sottoposto a peer review. "Stanno emergendo molti altri risultati interessanti - conclude Andrea Ganna - e abbiamo identificato 10 ulteriori regioni del genoma da tenere sotto osservazione. Poi ci sono altri gruppi di lavoro che fanno parte della nostra iniziativa e che stanno lavorando sul Long Covid, altri che stanno studiando i meccanismi che portano alla possibilità di essere contagiati anche dopo essere stati vaccinati. Ci sono gruppi che usano questi risultati per fare causal inference che è un aspetto molto sottostimato dell’utilizzo della genetica, ma la genetica permette di capire, tramite una tecnica chiamata Mendelian randomization, quali dei fattori epidemiologici sono associati in modo causale con la severità di Covid-19. Poi la si può usare per rispondere ad obiettivi diversi, ad esempio anche per capire se le persone che hanno un rischio più alto davanti a questa malattia sono anche maggiormente esposte al rischio di sviluppare il Long Covid. Rendere questi risultati disponibili per l’intera comunità permette un loro utilizzo in tantissime applicazioni". 

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